APPRENDIMENTO, CITAZIONI, INTERNET, IRONIA, PAROLE, SOCIETÀ

L’origine dello spam

SPAM” è il marchio della classica carne in scatola prodotta e commercializzata dal 1937 dall’azienda americana Hormel Food. Nel 1970, all’interno del celebre programma della BBC Monty Python’s Flying Circus, andò in onda uno sketch del celebre gruppo comico britannico incentrato proprio su questa carne in scatola. La presa in giro si basa sulla pervasività del prodotto e sul non riuscire, per i malcapitati protagonisti della scena, a ordinare al ristorante un cibo che non contenga “spam”.

Nel corso del tempo, l’associazione tra l’idea di “spam” e il fatto che qualcosa venga propinato contro la volontà di qualcuno diventa paradigmatica. E così si giunge all’utilizzo del termine per descrivere contenuti indesiderati – specialmente e-mail pubblicitarie – diffusi via internet. Il primo, inconsapevole, generatore di spam fu un utente di USENET di nome Richard Depew, il quale nel marzo 1993 inviò per errore oltre 200 messaggi identici all’interno di un newsgroup. Lo stesso Depew, scusandosi per il fastidio, descrisse i suoi messaggi come “spam”.

[ John Cleese dei Monthy Python in uno sketch legato a “spam”, 1970 ]

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ARTE, COLORI, CULTURA, EPISTEMOLOGIA, SOCIETÀ

A chi fa paura il colore?

In Cromofobia. Storia della paura del colore (2000) l’artista e scrittore David Batchelor costruisce un’accurata indagine storica della “paura” del colore. Si tratta di una tendenza trascurata e spesso considerata in maniera riduttiva e semplicistica ma, come mostrato da Batchelor, estremamente radicata.

Fin dalle origini del pensiero Occidentale, il colore ha subito pregiudizi, emarginazioni, rifiuti. Fondamentalmente, la paura si riduce a un elemento: la minaccia di venire contaminati e corrotti da qualcosa che appare inconoscibile. L’analisi di Batchelor mette in luce due modalità secondo le quali la paura del colore ha preso forma:

«Nella prima, il colore viene considerato come proprietà di un qualche corpo “estraneo”: di solito il femminile, l’orientale, il primitivo, l’infantile, il volgare, il bizzarro o il patologico. Nella seconda, il colore viene relegato al regno del superficiale, del supplementare, dell’inessenziale o del cosmetico. Nell’una, il colore è guardato come alieno e perciò pericoloso; nell’altra, è percepito soltanto come una qualità secondaria dell’esperienza, e quindi non meritevole di seria considerazione».

[ illustrazione: Piero Manzoni, Achrome – 1958 ]

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ECONOMIA, LIBRI, SOCIETÀ, STORIA

Un alveare di 300 anni: un salto nel pensiero di Mandeville

Il celebre poemetto del medico e saggista olandese Bernard de Mandeville (1670-1733), La favola delle api ovvero, vizi privati pubblici benefici giunge nel 2014 a 300 anni e il Sole24Ore del 2 marzo 2014 dedica all’opera un approfondimento.

Non a tutti è noto che il saggio – del 1714 – venne preceduto di qualche anno da uno scritto, sempre in forma di poema satirico, legato a circostanze molto specifiche e non ancora dotato del significato allegorico universale proprio dell’opera più celebre.

Mandeville, trasferitosi a Londra nel 1699, si trovò catapultato all’interno di una polemica fra Tory e Whig che animava il dibattito politico di quegli anni. Oggetto della disputa erano le campagne militari condotte da John Churchill (1650-1722), duca di Marlborough. I Tory accusavano Churchill e in generale i suoi sostenitori Whig di essersi arricchiti grazie alla guerra, insinuando al tempo stesso che l’intero sistema di finanza pubblica, incentrato sulla Banca di Inghilterra, non fosse che un apparato corrotto a uso e consumo dei Whig.

Queste dunque le circostanze che ispirarono il saggio del 1705 di Mandeville, The Grumbling Hive, or Knaves Turn’d Honest (L’alveare scontento, ovvero i furfanti divenuti onesti). Fin da questo primo scritto, lo scopo di Mandeville è quello di mostrare, con gli strumenti dell’allegoria e dell’ironia e senza prendere posizioni, che guerra, corruzione e interessi personali rappresentano un prezzo da pagare per un’economia interna rigogliosa e un governo stabile. Questi principi torneranno dunque nel 1714, rielaborati e ampliati, nella celebre Fable of the Bees: or, Private Vices, Publick Benefits. Per celebrarne la memoria e l’attualità, vale la pena di estrarne un celebre passaggio.

«Essendo così ogni ceto pieno di vizi, tuttavia la nazione di per sé godeva di una felice prosperità, era adulata in pace, temuta in guerra. Stimata presso gli stranieri, essa aveva in mano l’equilibrio di tutti gli altri alveari. Tutti i suoi membri a gara prodigavano le loro vite e i loro beni per la sua conservazione. Tale era lo stato fiorente di questo popolo. I vizi dei privati contribuivano alla felicità pubblica […]. Le furberie dello stato conservavano la totalità, per quanto ogni cittadino se ne lamentasse. L’armonia in un concerto risulta da una combinazione di suoni che sono direttamente opposti. Così i membri di quella società, seguendo delle strade assolutamente contrarie, si aiutavano quasi loro malgrado».

[ illustrazione: particolare dalla locandina del film di Irwin Allen del 1978 The Swarm, che narra di un’invasione di api killer in Texas ]

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BIGDATA, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

La tecnologia ucciderà la middle class?

In Average Is over: Powering America Beyond the Age of the Great Stagnation (2013) l’economista americano Tyler Cowen immagina una feroce polarizzazione della società, causata dall’influenza delle nuove tecnologie sulle attività lavorative. Il mondo verrà a trovarsi diviso, secondo Cowen, tra coloro il cui lavoro sarà reso obsoleto dalla tecnologia e chi invece riuscirà a sopravviverle. Ricollegandosi idealmente ad alcune delle tesi contenute in La fine del lavoro di Jeremy Rifkin (1995), Cowen immagina una middle class largamente composta da “bohémien” che saranno sempre meglio istruiti, soprattutto grazie a risorse on-line  gratuite, ma si accontenteranno di salari medio-bassi.

Fra gli altri temi trattati nel testo, Cowen riflette anche sul concetto di meritocrazia. Il monitoraggio del lavoro e la sua visibilità on-line permetteranno, secondo l’autore americano, un controllo trasparente sulla produttività di ogni lavoratore e dunque l’opportunità per le aziende – e in generale per il sistema economico – di premiare chi merita di esserlo (e viceversa).

[ illustrazione: Futurama di Matt Groening ]

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CINEMA, CONCETTI, ECONOMIA, PERCEZIONE, SOCIETÀ

Il Monello di Chaplin e il teorema delle finestre rotte

In una delle più riuscite sequenze di The Kid (1921) di Charlie Chaplin, il monello del titolo infrange a sassate le finestre di alcune abitazioni, preparando così il successivo passaggio del padre, “casualmente” dotato di vetri di ricambio. Questa scena comica rimanda a un teorema diffuso fin dal 1850 ed elaborato dall’economista Frédéric Bastiat. Il teorema è noto come il “racconto della finestra rotta”.

Il racconto originario somiglia molto alla sua versione filmica: un ragazzino infrange la finestra di un commerciante e i cittadini inizialmente simpatizzano per quest’ultimo, identificandosi con il torto subito. In seguito, essi cambiano opinione: il danno alla finestra darà lavoro al vetraio, il quale potrà a sua volta acquistare qualcosa dal panettiere, il quale potrà a sua volta divenire cliente del calzolaio… E così via. A questo punto il ragazzino, lungi dall’essere considerato un semplice vandalo, inizia a essere visto come qualcuno in grado di “muovere” l’economia cittadina.

Soffermarsi sulle conseguenze economiche positive del danno subito dal commerciante nasconde tuttavia quelle negative. Il denaro speso per ricomprare una finestra non potrà essere utilizzato per altro, annullando così qualsiasi precedente progettualità di spesa del commerciante. Secondo questa seconda interpretazione, il ragazzino non avrebbe generato un beneficio economico alla città ma, più semplicemente, l’avrebbe privata di una finestra.

Nel corso della storia il racconto di Bastiat è stato commentato e discusso da molti economisti, oltre che applicato ad ambiti che costituiscono a oggi oggetto di dibattito comune. Su tutti, il caso delle guerre: a seconda del punto di vista, esse sono considerabili tanto forze devastanti e distruttrici quanto possibili motori di lavoro e progresso.

[ illustrazione: fotogramma da The Kid di Charles Chaplin, 1921 ]

 

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ANTROPOLOGIA, CIBO, CULTURA, FOTOGRAFIA, SOCIETÀ

Il cibo, ossessione estetica e culturale

Lo chef francese Alexandre Gauthier ha appena deciso di inserire nei propri menu un simbolo che vieta di scattare foto a quanto viene servito in tavola. Il fine dell’iniziativa è, secondo le parole dello stesso Gauthier, quello di invitare i clienti del suo ristorante a concentrarsi sulla concreta esperienza del cibo e non sull’astrazione della sua registrazione e condivisione visiva. Gauthier non è che l’ultimo di una lunga lista di cuochi che, da almeno un anno a questa parte e in più parti del mondo, hanno deciso di ribellarsi all’imperante moda del “selfie culinario”.

Questa deriva fotografica è la punta dell’iceberg di una più generale ossessione per il cibo che, fin dalle sue prime avvisaglie, ha generato tanto sostenitori quanto detrattori. Fra questi ultimi il primo da citare è senz’altro il giornalista inglese Steven Poole, autore di un testo dal significativo titolo You aren’t what you eat (2012) e strenuo sostenitore di una rivolta contro quella che ha bollato “age of food”. Nel giro di pochi anni il cibo sarebbe diventato – secondo Poole – una passione malsana, una vera e propria dipendenza che, alimentata dal culto officiato da chef-superstar assunti come “maestri di vita”, darebbe alle persone l’illusione di esprimere la propria identità tramite il cibo.

A citare Poole è anche un recente articolo del Corriere della Sera, che fa il punto degli ultimi eccessi del “foodism” e dei pareri più critici a riguardo. Se il fatto che dentifrici e bagnoschiuma alla pancetta saranno presto sugli scaffali dei supermercati disgusterà più d’uno, a generare inquietudine dovrebbero essere soprattutto le parole usate dal filosofo Nicola Perullo in Per un’estetica del cibo (2006). Qui l’autore usa toni che paiono chiudere il cerchio rispetto alle posizioni dello chef Gauthier citate in apertura:

«L’importanza attribuita oggi al cibo è forse comprensibile nei termini di una crisi del fare esperienza, cui nessun ambito della vita umana è sottratto. L’esperienza del cibo potrebbe rivelarsi un volano per recuperare parte della frammentazione cui il nostro sentire è sottoposto».

[ illustrazione: Daniel Spoerri, Restaurant de la City Galerie, Zurich, 1965 ]

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CAMBIAMENTO, CONCETTI, INDUSTRIA, LAVORO, SOCIETÀ, STORIE, UFFICI

Dalle 9 alle 5: brevissima storia delle 8 ore lavorative

La scansione della giornata in tre parti, di 8 ore ciascuna e dedicate rispettivamente a lavoro, svago e riposo, è un’invenzione del socialista utopista Robert Owen (1771-1858), che nel 1817 lanciò in Inghilterra una campagna di rivendicazione dei diritti dei lavoratori basata proprio su questo tipo di organizzazione temporale. L’idea di Owen nacque come reazione agli oppressivi orari di fabbrica imposti dalla rivoluzione industriale, i cui turni di lavoro giornaliero potevano raggiungere anche le 10-18 ore.

L’iniziativa di Owen non ebbe immediata fortuna, ma mise in moto una rivendicazione di diritti che prese corpo in una lunga serie di “factory acts”, cioè atti approvati dal Parlamento britannico e finalizzati alla progressiva riduzione dell’orario lavorativo di uomini, donne e bambini. La lotta per le 8 ore trovò nel 1884 un degno successore nel sindacalista Tom Mann (1856-1941), che con la sua “Eight Hour League” riuscì nell’impresa.

Le rivendicazioni inglesi diffusero la propria eco in tutta Europa e si manifestarono anche oltreoceano. Per la verità, i primi movimenti di protesta negli Stati Uniti nacquero già nel 1791 e il primo maggio del 1886 a Chicago ebbe luogo la prima May Day Parade della storia. La prima azienda americana a instaurare orari giornalieri di otto ore fu nel 1914 Ford Motor Company, che si rese protagonista anche di un inedito raddoppio dei salari degli operai. Pur a fronte dell’innovazione di Ford, solo nel 1937 le otto ore lavorative furono standardizzate in tutti gli Stati Uniti.

Quanto all’Italia, l’ufficializzazione di un orario basato su 8 ore giornaliere e 48 settimanali arrivò nel 1923, con un Decreto del primo governo Mussolini. Il provvedimento italiano fondò le sue radici in una lotta dal basso durata più di un secolo e mezzo, all’interno della quale i moti del 1848 rappresentarono una tappa fondamentale.

[ illustrazione: manifesto con il celebre proclama di Robert Owen ]

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CAMBIAMENTO, CONCETTI, SOCIETÀ, TEORIE

Dalla great generation alla generazione Y (ovvero: le responsabilità dei genitori)

Un breve saggio di Simon Sinek (recentemente ripubblicato dalla rivista Salon) costruisce un’efficace analisi sociologica capace di attraversare quattro generazioni.

Si parte dalla “great generation”, cresciuta negli anni della grande depressione e chiamata ad affrontare il secondo conflitto bellico. Questa generazione ha pensato ai propri figli secondo un fondamentale presupposto: garantire loro il benessere. Questo è effettivamente accaduto e i “baby boomers” sono cresciuti circondati dall’abbondanza. Mettere al centro il senso di protezione e benessere ha tuttavia generato una conseguenza indesiderata: la focalizzazione sul “me” a scapito del “noi”. Ed è su questo presupposto valoriale che i “baby boomers” si sono rivolti a loro stessi e ai propri figli, la cosiddetta “generazione X”. Cresciuta nell’agio degli anni ’80, questa generazione è stata abituata a credere che tutto fosse alla propria portata, ereditando dai propri genitori tanto il senso del lavoro quanto la sua accezione più individualista legata all’idea del successo. Si giunge infine alla “generazione Y”, la cui caratteristica fondante – nuovamente intesa come effetto della relazione con la generazione precedente – sarebbe secondo Sinek quella dell’impazienza (e non tanto, come notato da altri commentatori, quella di pensare semplicemente che sia loro tutto dovuto). Per la generazione Y il senso di poter “avere tutto” è diventato un “avere subito” – amplificato dalla velocità dei meccanismi comunicativi d’oggi e dalle loro apparenti gratificazioni istantanee – che genera il purtroppo riconoscibilissimo senso di disillusione e frustrazione (ma anche disimpegno e distrazione) proprio di questa generazione.

La disamina di Sinek suona tanto accurata quanto impietosa. Soprattutto, è difficile leggervi una pars construens. Il principale messaggio che essa pare lanciare a genitori, istituzioni scolastiche e aziende suona come: imparate a comprendere le nuove generazioni e assumetevi le vostre responsabilità. Quale messaggio essa lanci ai giovani non è affatto chiaro.

[ illustrazione: l’attrice/sceneggiatrice/regista Lena Dunham e sua madre, la fotografa Laurie Simmons, in una scena di Tiny Furniture (2010) ]

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LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ

I danni della razionalizzazione lavorativa secondo Kracauer

Gli impiegati, scritto da Sigfried Kracauer nel 1930, è un piccolo saggio dedicato al tema dell’organizzazione del lavoro. Focalizzato sulla situazione tedesca e in particolare sull’ambiente lavorativo di Berlino negli anni ’20, tratta la condizione del lavoratore in modo estremamente preveggente, anticipando considerazioni che per esempio in Italia – ma anche in America – non sarebbero emerse che negli anni ’50 e ’60.

Una delle osservazioni più puntuali e contemporanee contenute nel libro riguarda l’impatto organizzativo dei processi di razionalizzazione:

«La qualità si è rovesciata nella quantità. Causa di questo rovesciamento è la razionalizzazione di cui tanto si parla. Da quando esiste il capitalismo all’interno dei suoi confini c’è sempre stata razionalizzazione, ma il periodo della razionalizzazione dal 1925 al 1928 rappresenta una fase particolarmente importante».

Curioso come una procedura di ingegnerizzazione del lavoro che alla fine degli anni ’20 coincideva con la meccanizzazione del lavoro suoni tanto vicina – in termini di impatto distruttivo delle pratiche di razionalizzazione sulla qualità del lavoro – alle strategie di “efficientamento” condotte negli ultimi decenni e di cui le aziende scontano oggi le conseguenze.

[ illustrazione: foto di scena da Fantozzi di Luciano Salce, 1975 ]

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APPRENDIMENTO, DIVULGAZIONE, EPISTEMOLOGIA, MEDIA, POLITICA, SOCIETÀ

Pedagogia dell’intrattenimento e ruolo politico della televisione

Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo (1985) di Neil Postman (1931-2003) rappresenta il testo capostipite del discorso sociologico rivolto al medium televisivo. Sulla scorta di Marshall McLuhan, Postman prende molto sul serio la tv come strumento di comunicazione e più in generale come incarnazione di un nuovo tipo di epistemologia, giungendo a criticarla radicalmente con affermazioni di questo tipo:

«La frase “una televisione seria” è una contraddizione in termini; la televisione parla con una sola voce persistente: la voce dell’intrattenimento».

A distanza di poco meno di trent’anni, in Televisione (2013) Carlo Freccero riprende le fila del discorso di Postman adattandolo allo specifico italiano e alla propria esperienza di autore e dirigente televisivo. È dunque dall’interno del sistema tv che Freccero costruisce la sua analisi del ruolo che questo medium ha rivestito, si può ben dire, rispetto all’educazione di un intero Paese.

Cruciale, nell’evoluzione del ruolo della televisione e della sua capacità di plasmare la coscienza collettiva, è stato il tacito passaggio di consegne avvenuto tra la tv pubblica e quella commerciale. Se da un lato la tv di servizio portò a termine l’unificazione linguistica del Paese, il suo fallimento si espresse nell’incapacità di svincolarsi da un modello educativo che lo stesso medium televisivo (e poi internet) era destinato a rendere obsoleto:

«La televisione di servizio pubblico assomiglia a quel modello di scuola pre-’68 in cui tutto il potere si concentrava nelle mani dell’insegnante e non nel sapere come patrimonio condivisibile e condiviso».

Al contrario, la tv privata di Berlusconi fu capace di innestare un cambiamento morale (che solo oggi siamo in grado di comprendere appieno) legandolo a un atteggiamento compiacente orientato non all’educazione del pubblico ma alla sua fidelizzazione. Il pubblico diventa sovrano e ovviamente, tornando a Postman, l’intrattenimento è il suo fine ultimo. Su questo tema, Freccero è bravissimo a mostrare come il salto da una tv populista a una politica populista sia stato naturale, probabilmente inevitabile.

[ illustrazione: un momento del programma Telemike, 1987 ]

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