CINEMA, DECISIONE, STORIE, TECNOLOGIA

Curiosità e responsabilità per restare umani

La curiosità è uno dei tratti che più contribuiscono a renderci umani: senza voglia di scoprire, conoscere, trovare nuove connessioni non saremmo altro che automi privi di pensiero e subordinati alla ripetizione. Esattamente ciò che il nostro attuale rapporto con la tecnologia rischia di farci diventare, almeno secondo una riflessione di Don Norman – direttore del Design Lab presso la University of California – pubblicata su Fast Company.

Seguendo Norman, si consideri il caso degli incidenti automobilistici: l’opinione comune tende ad attribuirne la causa alla distrazione umana, spesso evocando l’evoluzione tecnologica come possibile salvezza. Questo approccio mette in luce una crescente sfiducia nei confronti dell’elemento umano e, in particolare, della nostra curiosità. La distrazione infatti altro non è che una delle vesti in cui si presenta la curiosità, abilità di essere ricettivi e sensibili ai cambiamenti di contesto che può spingersi fino all’incapacità di aderire agli schemi imposti dalla burocrazia meccanizzata che governa le nostre vite.

L’esempio di Norman sugli incidenti automobilistici riporta alla memoria il film di Clint Eastwood del 2016 Sully (a sua volta tratto dall’omonimo libro-memoriale del pilota aeronautico Chesley B. – “Sully” – Sullenberger), esemplare riflessione sul rapporto tra tecnologia e umanità, procedure, emozioni e scelte. La discrepanza tra l’atto di “doveroso eroismo” del pilota che salva il suo equipaggio e il processo cui viene successivamente sottoposto per non aver rispettato quanto imposto dalla “burocrazia delle emergenze” (esiste forse un più netto ossimoro?) è ben rappresentativa della paradossale situazione che viviamo ormai quotidianamente in una infinità di contesti personali e lavorativi, fortunatamente meno delicati – ma solo apparentemente meno rilevanti per il nostro essere umani – di quello di un atterraggio aereo di fortuna.

Il secondo aspetto cruciale della questione è dunque la responsabilità: se essere curiosi è ciò che ci rende capaci di guardare in maniera attiva e partecipe al contesto che ci circonda, la responsabilità è l’indispensabile correlato che ci aiuta ad agire come persone in mezzo a persone.

[ Illustrazione: fotogramma dal film Sully (2016) di Clint Eastwood ]

CINEMA, COMFORT, CONSAPEVOLEZZA, PERCEZIONE, SOCIETÀ

Praticare la scomodità

Due amici che parlano a cena: che cosa c’è di più normale e familiare? Perché farne un film, totalmente incentrato sulle discussioni e su primi piani dei volti, probabilmente destinato a risultare noioso per i più? Queste la domande che forse deve essersi posto il cineasta francese Louis Malle (1932-1995) di fronte alla sceneggiature propostagli dai due attori e registi teatrali Wallace Shawn e André Gregory.

Evidentemente, le risposte da lui trovate (o suggerite da Shawn e Gregory) devono essere state molto convincenti e c’è di che essergliene grati, perché con My Dinner with André (1981) Malle ci ha regalato un capolavoro – poco sconosciuto in Italia – che rappresenta un unicum all’interno del pur ampio filone dei film basati su un approccio teatrale, per la sua capacità di costruire una sorta di dialogo platonico cinematografico di grande profondità e valore per chiunque sia interessato a ragionare sul proprio posto nel mondo.

Tratto dalla già citata sceneggiatura scritta a quattro mani da Shawn e Gregory, di per sé un libro eccezionale, il film mette in scena una lunga conversazione dal taglio filosofico che prende le mosse da racconti di esperienze lavorative e personali – in larga parte autobiografiche – dei due attori, lo spirituale André (André Gregory) e il terreno Wally (Wallace Shawn), per costruire a poco a poco una riflessione generale sul senso della vita che non può lasciare indifferenti.

Uno dei passaggi più significativi del film è incentrato sul comfort e sulla critica del ruolo anestetizzante che esso riveste nei confronti della nostra percezione e consapevolezza. A partire da un apparentemente banale commento di Wally sulla piacevolezza di una coperta elettrica nel freddo inverno newyorkese, André costruisce una convincente argomentazione sull’importanza di praticare deliberatamente la scomodità per non rischiare di perdere contatto con ciò che più ci rende umani. Stare troppo comodi indebolisce l’acutezza dei nostri sensi e, alla lunga, ci allontana dalla costitutiva esperienza di essere parte del mondo. Ecco la scena in questione (in lingua inglese).

[ Illustrazione: fotogramma dal film My Dinner with André (1981) di Louis Malle ]

ARTE, CINEMA, CITTÀ, DECISIONE, PERCEZIONE, VISIONE

Museum Hours: una questione di sguardi

Museum Hours (2012) del regista americano Jem Cohen è un film fondamentale per chiunque sia interessato ad approfondire i misteri della visione. La “trama” è in realtà molto semplice, quasi al punto da apparire sciatta: Johann lavora come guardasala al Kunsthistorisches Museum di Vienna. È qui che incontra per caso Anne, cittadina canadese appena giunta in Austria per far visita alla cugina, ricoverata in ospedale e in coma. Johann aiuta Anne a orientarsi su una mappa di Vienna e successivamente, superando un iniziale senso di sfiducia nei confronti degli estranei, inizia a condurla in brevi esplorazioni della città. Questo è l’inizio di una genuina amicizia interculturale basata su una serie di conversazioni ospitate da un luogo pubblico molto particolare – un museo – e dall’ambiente pubblico per eccellenza, la città.

Gli strumenti di ripresa utilizzati per il film creano una differenza di qualità visiva fra le scene realizzate all’interno del Kunsthistorisches Museum, girate in digitale in HD, e quelle degli esterni viennesi, realizzate con una cinepresa a 16mm. Pur a fronte di questa differenza, lo sguardo che Jem Cohen intende suggerire allo spettatore è di fatto lo stesso, sia nel mondo interno che esterno: un occhio curioso e senza pregiudizi che resta costantemente aperto, in modo immediato e spesso naif, di fronte all’inaspettato.

Commentando alcune opere di Pieter Bruegel Il Vecchio – che svolgono un ruolo importante nel film e, più in generale, nella collezione del Kunsthistorisches Museum  – Cohen costruisce una similitudine fra l’osservazione dei dipinti e quella di alcune scene di strada: «Forse la cosa più incredibile che mi ha colpito stando in quelle stanza è stata il non sapere dove fosse il centro di ognuno dei quadri. È questo l’aspetto con cui mi sono più messo in relazione, perché quando giro in strada il primo piano e lo sfondo tendono a fondersi e lo sguardo dell’osservatore vaga perché non è diretto verso un punto focale» (da un’intervista a CinemaScope).

L’assenza di un punto focale predefinito rappresenta la possibilità di una scelta. Come notato dal grande critico d’arte inglese John Berger (1926-2017) – il cui nome non a caso compare nei ringraziamenti dei titoli di coda del film –

Vediamo solo ciò che guardiamo. Guardare è un atto di scelta. Il risultato di tale atto è che quanto vediamo si pone alla nostra portata. Anche se non necessariamente alla portata della nostra mano.

E ancora: «La relazione fra quello che vediamo e quello che sappiamo non è mai conclusa». Queste frasi riassumono il pensiero di Berger sul ruolo della visione, così come espresso nel suo libro del 1972 Questione di sguardi (e nella serie televisiva a esso legata Ways of Seeing).

Museum Hours accompagna lo spettatore in una immediata e insieme profonda riflessione sul nostro modo di vedere, suggerendo che coltivare uno sguardo curioso sul mondo – rappresentato nel film dal personaggio di Anne, una straniera in un Paese straniero – sia cruciale per apprezzare la bellezza nascosta nell’ordinario.

[ Illustrazione: fotogramma dal film Museum Hours (2012) di Jem Cohen ]

CINEMA, FILOSOFIA, METAFORE, PERCEZIONE

Le sorelle Macaluso e la persistenza della memoria

Il film Le sorelle Macaluso di Emma Dante (pellicola del 2020, adattamento cinematografico dell’omonimo testo teatrale del 2014) è un’incisiva riflessione sul tempo e, in particolare, su quanto intere vite possano essere determinate dall’accadimento di un solo istante. Il valore del film è accresciuto dalla sua capacità di condurre lo spettatore a ragionare sulla persistenza della memoria (il riferimento all’omonima opera di Salvador Dalí è incidentale) all’interno dell’ambiente domestico.

In più momenti lungo la sua durata, il film dedica attenti sguardi alla casa, osservata attraverso luce e suoni in assenza delle protagoniste. È proprio la mancanza dell’elemento umano nella sua forma più tangibile a rendere chiaro quanto ogni ambiente e oggetto finisca col diventare nel tempo un silenzioso portatore della memoria di gesti, sentimenti, storie.

Una simile riflessione sulla “vita delle cose” stabilisce una immediata connessione con il pensiero a riguardo del filosofo Remo Bodei (di cui si è già parlato qui), che distingue la cosa dall’oggetto associando alla prima un investimento emozionale che manca alla pura funzionalità del secondo. Col tempo, sembra suggerire il film di Emma Dante, tutti gli oggetti della nostra casa sono destinati a diventare cose.

Nelle sequenze finali della pellicola è soprattutto un particolare a colpire: nel momento in cui gli spazi si svuotano, oltre che delle persone, delle cose che li hanno riempiti, queste ultime mostrano di aver impresso la loro impronta sui muri della casa. Emerge un’ultima traccia delle cose e delle persone che le hanno utilizzate: una sorta di fantasma di presenza che, come un gioco di ombre cinesi o il materiale fotosensibile di una pellicola fotografica, permette che la memoria continui a manifestarsi all’interno di un luogo.

[ Illustrazione: fotogramma dal film Le sorelle Macaluso di Emma Dante, 2020 ]

APPRENDIMENTO, CINEMA, CONOSCENZA, DECISIONE, PERCEZIONE, RAPPRESENTAZIONE

Birdman, o dell’esercizio dello sguardo

È opinione comune che il montaggio sia la grammatica del cinema. Le sequenze corrispondono a frasi, i tagli costituiscono la punteggiatura. Assecondando la metafora, i film che “scorrono” meglio – proprio come i libri che più si “lasciano leggere” – sono quelli che procedono fluidi, forti di una punteggiatura solida ma all’apparenza leggera, quasi trasparente. Viceversa, una punteggiatura lasca rivela le opacità della grammatica, conducendo lettore o spettatore a un’esperienza impervia che lo rende, almeno in parte, attore. Succede di fronte al flusso di coscienza; si pensi al “monologo di Molly Bloom” nell’Ulisse di James Joyce: leggendolo si è costretti a interpretare il testo, aggiungendovi una personale serie di interpunzioni. E si pensi al piano-sequenza nel cinema, che obbliga l’occhio a una fatica cui solitamente è dispensato dal montaggio.

In tema di piano-sequenza, il cinema coltiva da sempre un rapporto di amore e odio con questo espediente. Da Quarto potere (1941) di Orson Wells e Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchock, fino a L’arca russa (2002) di Aleksandr Sokurov, il piano-sequenza è sempre stato utilizzato come eccezione che conferma la regola della grammatica filmica. Il più recente film a confrontarvisi è Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu, pluri-candidato agli Oscar 2015. Il film è composto da una serie di piani sequenza che creano l’illusione – a differenza di L’arca russa, effettivamente girato in un’unica ripresa – di 120 minuti di continuità visiva. Guardare Birdman può essere un’esperienza faticosa per un occhio abituato agli alti ritmi dell’attuale montaggio filmico hollywoodiano (per non dire di quello dei serial televisivi). Poiché il film non è mosso dai cambi di inquadratura del montaggio, per garantire il dinamismo del racconto è la macchina da presa a spostarsi. Il suo movimento, al contrario di quello reso implicito dal montaggio, è plateale. L’occhio della macchina da presa diventa una soggettiva – spesso propensa a farsi “oggettiva irreale”, per dirla con Francesco Casetti – con cui lo sguardo dello spettatore è forzato a confrontarsi e – elemento ancor più interessante – all’interno della quale ha a sua volta libertà di movimento.

Secondo l’ispiratore della Nouvelle Vague André Bazin, il montaggio dovrebbe essere “proibito” quando ciò che è “essenziale di un avvenimento” deve darsi a vedere nella sua interezza e complessità. È una questione di sintesi e di visione di insieme. Nonché di comprensione, etimologicamente intesa come prendere-insieme. Il piano-sequenza è dunque a suo modo un esercizio di realtà all’interno della finzione filmica. Conduce lo sguardo dello spettatore a un lavoro di osservazione – e, perché no, di colpo d’occhio – che è immediatamente trasferibile nell’esperienza del reale. E se un film girato in un unico piano sequenza risulta faticoso è soprattutto perché i nostri occhi sono sempre più disabituati – non solo di fronte allo schermo cinematografico – all’esercizio dell’attenzione. Ecco perché un film come Birdman non vale solo per la storia che racconta – e per la prova sul grande schermo di un grande cast di attori. Vale anche per il lavoro offerto al nostro sguardo, chiamato a confrontarsi con un punto di vista dato e a rendersi attivo nel formarsene un proprio.

[ illustrazione: fotogramma dal film Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu ]

APPRENDIMENTO, CINEMA, COLLABORAZIONE, DIVULGAZIONE, JAZZ, METAFORE, STORIE

Ecco perché Whiplash non parla di apprendimento (anche se è un film da Oscar)

Whiplash (2014), lungometraggio del ventinovenne Damien Chazelle, è candidato per la cerimonia degli Oscar 2015 a ben cinque premi, fra cui miglior film e miglior attore non-protagonista. Il film narra l’apprendistato di un giovane batterista jazz (interpretato dal giovane Miles Teller), il cui percorso di studi è guidato da un insegnante (un intenso J.K. Simmons) i cui metodi, basati sulla violenza verbale e fisica, sono alquanto discutibili.

Il film è una tesa e inquietante messa in scena di un rapporto maestro-dicepolo basato sull’abuso di potere e sulla manipolazione. Gli attori sorreggono perfettamente la sceneggiatura e J.K. Simmons in particolare si produce in una performance superba, decisamente degna di un Oscar.

Whiplash gioca su un piano morale controverso e, come dichiarato in un’intervista dallo stesso Chazelle, pone lo spettatore di fronte a un dilemma: il fine giustifica i mezzi? Nel porsi questo domanda bisogna fare attenzione a non cadere in inganno. Whiplash non parla, come a tutta prima potrebbe sembrare, di apprendimento. Né di motivazione propriamente intesa. Come notato, il film è incentrato su un abuso di potere che non può in nessun modo essere inteso come una lezione sull’efficacia di un insegnamento condotto, con stampo militaresco, in maniera punitiva e violenta.

Sono in molti a essersi scagliati contro il messaggio potenzialmente controverso del film. In particolare, gli appassionati di jazz hanno trovato indebito l’utilizzo di un aneddoto loro particolarmente caro, cioè quello sull’episodio in cui il sassofonista Charlie Parker imparò qualcosa di decisivo per il suo apprendimento. Nella versione cinematografica, l’episodio è raccontato in questi termini: quando Parker era, appena sedicenne, agli inizi del suo apprendistato musicale, gli capitò di suonare in jam session con l’orchestra del grande pianista Count Basie. Quando salì sul palco, il suo assolo fu immediatamente bloccato dal batterista Joe Jones, che gli scaraventò addosso, mancando di poco di colpirlo alla testa, un piatto della batteria. In seguito a questo episodio – narra nel film il dittatoriale maestro di musica – Parker fuggì dal palco e si rinchiuse in casa a studiare per evitare di incorrere di nuovo in simili punizioni sul palco. Fu così che, lavorando duramente su se stesso, Parker divenne poi “bird”, cioè il più grande sassofonista di tutti i tempi. Come ogni appassionato di jazz sa bene – e come notano le riviste «Slate» e, con particolare acrimonia, «New Yorker» – , non andò proprio così.

L’episodio è piuttosto noto, raccontato da diversi libri dedicati a Charlie Parker fra i quali il più recente è l’ottimo Fulmini a Kansas City (2014) di Stanley Crouch. Il batterista Joe Jones non tirò il piatto addosso a Parker per colpirlo, ma lo gettò a terra a mo’ di gong, come a dire: “il tuo tempo sul palco è scaduto, pivello”. Questo gesto, una consuetudine delle jam session della band di Basie, bollava ironicamente la performance di un musicista suggerendogli di tornare a far pratica. Parker se ne andò dal palco in effetti sconsolato, ma dal quel momento prese per lui avvio uno studio della musica molto attento alla dimensione relazionale, sorretta dal positivo rapporto con maestri, mentori e compagni di jam session. L’aneddoto non racconta dunque né di un gesto violento e punitivo né di un supposto valore perfezionista di una pratica solitaria (quella su cui si concentra il protagonista di Whiplash). Trasferisce al contrario un gesto tutt’al più ironico e, soprattutto, il senso di un apprendimento autentico perché relazionale. Questa è la lezione più preziosa offerta dal jazz a chiunque si confronti con l’imparare. Una lezione che un film pur ottimo come Whiplash manca totalmente di cogliere.

[ illustrazione: fotogramma dal film Whiplash di Damien Chazelle – 2014 ]

CINEMA, MEDIA, PERCEZIONE, SOCIETÀ

Gone Girl e la spettacolarizzazione della verità

Gone Girl, opera del 2014 di David Fincher, è stato descritto da molti spettatori – nonché dal suo stesso regista – come vicino a Rashomon (1950) di Akira Kurosawa. Per quanto Gone Girl possa difficilmente reggere il paragone, ad avvicinarlo al capolavoro Rashomon è un racconto a flashback in cui i fatti sono filtrati dalle diverse versioni dei protagonisti. Vi è tuttavia una differenza: se entrambi i film mettono in scena una riflessione sulla verità, quello di Kurosawa parte dal valore dell’esperienza e dell’opinione individuale, mentre quello di Fincher fa emergere una società – la nostra – in cui tale valore ha perso ogni pretesa di fronte al potere dello spettacolo.

I momenti migliori di Gone Girl – la cui sceneggiatura è di Gillian Flynn, autrice del libro da cui il film è tratto – sono quelli in cui i due protagonisti si confrontano con i media, unica autorità in grado di decretare chi fra loro sia vittima e chi carnefice. L’opinione pubblica descritta dal film è del tutto prona all’emotività potente e superficiale dell’immagine. La televisione è ancora oggi il principale canale – con un buon supporto del web – attraverso il quale quest’opera di persuasione viene compiuta. Non è casuale che, da un punto di vista cinematografico, Fincher utilizzi un linguaggio che si avvicina a quello popolarizzato dai serial americani contemporanei: dilatazione dei tempi narrativi, dialoghi ipertrofizzati, frammentazione del montaggio. Questi tratti stilistici accentuano la vacua sensazionalità di ogni supposto colpo di scena, portando lo spettatore ad adottare un crescente scetticismo. Il contenuto più rilevante di questo film – che a ben vedere non parla né di amore né di femminilità – si rivela dunque un monito alla coscienza di ognuno: in una società in cui la reputazione pare determinata dal modo in cui si appare nei media, è necessario assumersi la responsabilità di decidere a quale tipo di verità aspirare.

[ illustrazione: fotogramma da Gone Girl di David Fincher, 2014 ]

APPRENDIMENTO, CINEMA, COMPLESSITÀ, CONOSCENZA, IMMAGINI, PERCEZIONE, TECNOLOGIA, VIDEOGIOCHI

In difesa del cinema, metafora di visione e comprensione

Il regista Davide Ferrario riflette su La Lettura de «Il Corriere della Sera» riguardo al tema della visione. «Non sappiamo più guardare», afferma il regista di Dopo mezzanotte (2004), imputando questa degradazione percettiva alla progressiva diffusione di schermi sempre più piccoli, che producono una visione limitata, focalizzata e privata. Dei 140° di cui è capace il campo visivo dei nostri occhi, tendiamo a usarne solo un terzo, privilegiando una focalizzazione di dettaglio che lascia in uno sfocato secondo piano il contesto.

Citando le sperimentazioni del Cinemascope, Ferrario ricorda che il cinema nasce come esperienza visiva totale e comunitaria. Al contrario, il piano visuale offerto dai monitor somiglia più a una lente o a un mirino che non a una finestra sul mondo. Se pare fin troppo facile prendersela con videogame e selfie (contro cui lo stesso Ferrario non manca di puntare il dito), è proprio dall’analisi critica di questi strumenti che emerge il tema centrale della questione. A ben vedere, il problema non è tanto quello di una diminuita o depotenziata percezione (al contrario, l’occhio degli smartphone rappresenta per certi versi un acuimento del nostro sguardo), quanto dello smarrimento del rapporto fra visione e comprensione.

Com-prendere significa abbracciare e accogliere. Per potersi disporre a queste attività, c’è bisogno di disponibilità e tempo. Si tratta dunque della profondità dello sguardo ancor più che della sua ampiezza. Il principale difetto dei monitor è quello di presentare – per di più a grande velocità – immagini piatte e compresse. Se il Cinemascope si basava sull’immersione e sulla tridimensionalità, quanto visto su un monitor non va mai oltre la superficie levigata dello schermo. Lo sguardo tende ad aderire a questa superficie scivolando via veloce, senza portarsi via nulla. Ciò che è più grave, questa logica è ormai talmente interiorizzata da essere applicata non solo alla visione di filmati su Youtube, ma anche a tour cittadini, visite al museo e, per tornare all’inizio del discorso, visioni di film.

Il linguaggio cinematografico – per lo meno quello che non si arrende ai cliché del piccolo schermo imposti dai sempre più popolari serial – continua fortunatamente a rappresentare una preziosa risorsa di “allenamento” alla relazione fra visione e comprensione. Il primo passo è quello di andare al cinema a vedere un buon film: i benefici di questa attività si faranno evidenti in ogni ambito della vita in cui ciò che conta è riuscire ad andare oltre la superficie.

[ illustrazione: fotogramma dal film Persona di Ingmar Bergman, 1966 ]

CINEMA, LAVORO

Riconquistare l’umanità del lavoro: Due giorni, una notte di Luc e Jean-Pierre Dardenne

La storia di Sandra è quanto mai semplice: al rientro da un periodo di malattia, l’accoglienza è quella di una cruda riorganizzazione lavorativa. Le attività della fabbrica sono state ridistribuite tra i colleghi, che riceveranno un bonus di 1000€ a patto che Sandra venga licenziata. Il verdetto spetta a loro. Chiamati a votare, scelgono il bonus. La scelta pare tuttavia essere stata influenzata da pressioni interne, motivo per cui una collega di Sandra riesce a invocare una nuova votazione. Qui parte l’odissea della protagonista: avrà due giorni e una notte per convincere i colleghi a votare per la sua permanenza in azienda.

Due giorni, una notte (2014), girato con il consueto stile asciutto e dimesso dei fratelli Dardenne, parla in modo diretto di uno dei temi più esposti e al tempo stesso “intoccabili” del mondo del lavoro, vale a dire la spersonalizzazione delle dinamiche di relazione. Ogni sequenza del film trabocca dell’ipocrisia e della violenza che continuamente rendono ardua, in milioni di luoghi di lavoro ogni giorno, la sintesi fra egoismo e solidarietà, fra rabbia e senso di pietà chiamata in causa dalla messa in discussione delle certezze base di un’occupazione lavorativa. Di fronte alla battaglia per l’occupazione o per un salario più alto, nessun punto di vista è semplicemente “giusto”. Nemmeno quello di Sandra, costretta ad affrontare una lotta anzitutto contro se stessa che potrà infine, forse – questo lo scoprirà lo spettatore al cinema – , condurla a trovare un’opportunità di riconciliazione con una comunità lavorativa infranta.

[ illustrazione: fotogramma da Due giorni, una notte (2014) di Luc e Jean-Pierre Dardenne ]

CINEMA, COMUNICAZIONE, MANAGEMENT, PERCEZIONE, TEMPO

Un film lungo 12 anni: Boyhood di Richard Linklater

Secondo il parere di molti, con Boyhood (2014) Richard Linklater ha realizzato il suo capolavoro. Di certo, i centosessantacinque minuti del film costituiscono un sontuoso sunto dei frammenti di americana quotidianità raccolti dal regista lungo un percorso ormai più che ventennale. La propensione per sceneggiature destrutturate, l’attenzione allo sviluppo dei personaggi, la sensibilità per i dialoghi che lo rende il “Rohmer americano”: chi ha imparato a riconoscere questi tratti di Linklater li ritroverà in Boyhood. E troverà quanto ha più fatto parlare del film, cioè un esperimento sul tempo mai portato al cinema prima d’ora. Dopo aver costruito una storia d’amore lunga diciotto anni con il trittico di Before Sunrise (1995), Before Sunset (2004) e Before Midnight (2013), Linklater concentra ora dodici anni di vita in un unico film. Si tratta ancora una volta di vita americana, ma soprattutto della vita dei protagonisti e degli attori che li interpretano. Il racconto di Boyhood riesce in un’impresa filmica di prim’ordine: raccontare una storia attraverso l’ordinarietà del tempo che passa, lasciando in secondo piano la straordinarietà degli eventi che da esso emergono.

Quanto alla sua dimensione progettuale, organizzativa ed economica, la realizzazione di Boyhood rappresenta una scommessa e un atto di fiducia nei confronti delle relazioni e del futuro. Nell’arco dei dodici anni di lavorazione si è girato in tutto per trentanove giorni, non più di tre-quattro all’anno. A fronte di un simile ritmo di riprese, nel corso del quale Linklater e i suoi attori principali hanno affrontato anche altri progetti, è stata un’amalgama particolarmente stretta di incertezza e fiducia a permettere al progetto di giungere a compimento. Linklater ha potuto fare affidamento fin dall’inizio su un eroico sostegno da parte della produzione, oltre che sull’opera di addetti alla fotografia e al montaggio che sono riusciti nell’impresa di rendere visivamente coeso e “naturale” un materiale visivo così esteso nel tempo. Quanto al rapporto con gli attori, il regista ha dovuto fare i conti con l’impossibilità di firmare contratti vincolanti su un ampio arco di tempo, riuscendo a costruire – soprattutto con il giovane Ellar Coltrane, il ragazzo protagonista del film – una forte relazione di stima. Pensando di nuovo ai dodici anni di lavoro, la capacità di presidiare il cambiamento e garantire una visione di insieme dimostrata da Linklater è espressione di doti di leadership che, al di là dei luoghi comuni sui registi factotum, non è scontato trovare su un set cinematografico.

[ illustrazione: still da Boyhood di Richard Linklater – 2014 ]