CITTÀ, CONCETTI, LETTERATURA, METAFORE

Il ritorno impossibile

Quello del ritorno è un topos narrativo antichissimo, che nei secoli ha prodotto innumerevoli variazioni sul modello originario definito da Omero nell’Odissea, il νόστος (nóstos, ritorno) per eccellenza. Quando il νόστος si intreccia con l’άλγος (álgos, dolore), fa la sua comparsa la nostalgia, sentimento sconosciuto all’antica cultura greca la cui origine (di cui si è detto qui) è intrinsecamente moderna.

Fra i tanti racconti di nostalgia che la letteratura contemporanea offre vi è quello reso da George Orwell (1903-1950) in un’opera che precede la seconda guerra mondiale e i suoi due libri più famosi (gli allegorici e visionari La fattoria degli animali e 1984). Si tratta di Una boccata d’aria (1939), romanzo che narra le gesta di un piccolo borghese della provincia inglese che, ormai raggiunta la mezza età e tediato dalla monotonia della sua vita, decide di concedersi una breve fuga nei suoi luoghi natali, che non vede da oltre vent’anni:

Lo sapete che cosa provavo: volevo tornare a galla, prendere una boccata d’aria, come le testuggini marine quando salgono in superficie, mettono fuori il muso e si riempiono i polmoni, prima di rituffarsi fra le alghe e i polipi. Soffochiamo in fondo a un immondezzaio, tutti quanti; ma io ho il modo di uscirne.

Il racconto di Orwell sa essere ironico e insieme amaro: a fronte della calzante metafora della “boccata d’aria” (resa fin dal titolo del libro e significativa anche rispetto all’imminente immersione nella guerra che aleggia sinistra su tutto il racconto), ciò che l’esperienza del ritorno porta con sé è un duro confronto con il cambiamento che ha reso irriconoscibili i luoghi della giovinezza, conducendo il protagonista a riconsiderare totalmente i presupposti del suo viaggio nel passato:

​​”Una cosa alla quale ho detto addio” pensavo scendendo per la collina “è l’idea di rituffarmi nel passato. A che scopo cercar di rivedere lo scenario della propria infanzia? Non esiste più. E volere una boccata d’aria! Non ce n’è, di aria. L’immondezzaio nel quale siamo immersi raggiunge la stratosfera”.

Un ritorno su cui incombe fin dalla prima pagina un destino tragico è quello di Nostalgia, opera postuma di Ermanno Rea (1927-2016). Al suo centro c’è il personaggio un napoletano fuggito all’estero che torna ai suoi luoghi natali dopo quarantacinque anni. È proprio la nostalgia a guidarlo attraverso i luoghi delle sue origini, con una ritrovata familiarità con il quartiere della Sanità che lo porta inizialmente a ritenere che in fondo poco sia cambiato:

Era rimasto identico a se stesso, come se quei quarantacinque anni non fossero mai trascorsi: muri macchiati di nero che continuavano a nascondere – anzi a tentare di nascondere – drammi e miseria a non finire. Eppure… come spiegarsi il fascino quasi irresistibile che quel gorgo di strade, tra vico Centogradi e piazzetta dei Tronari, esercitava su di lui, sino a farne un sito dell’anima?

In seguito è tuttavia il dubbio sul senso del ritorno a prevalere, con un sentimento di disillusione che mette in discussione – proprio come visto in Orwell – la possibilità stessa  che la nostalgia possa avere un esito positivo e non risultare delusa dallo scontro con la realtà, con l’impossibilità di recuperare un passato perduto. Così il protagonista, mettendo per iscritto le sue sensazioni:

Purtroppo però ogni medaglia ha il suo rovescio: fatta la grande scoperta, ho cominciato a torturarmi con un dubbio increscioso, vale a dire se, al di là di ciò che in genere si crede, ha senso tornare sui propri passi; anzi, con parole più esatte, se il ritorno (il Grande Ritorno) sia possibile e auspicabile o non ci esponga piuttosto a delusioni e pentimenti insopportabili. Come puoi immaginare, non ho trovato (per il momento?) una risposta certa alla mia domanda; soltanto mezze risposte, il che è nel mio carattere. 

[ Illustrazione: fotogramma dal film Nostalgia (2022) di Mario Martone ]

CONCETTI, ECOLOGIA, NATURA, SCIENZA

In pellegrinaggio fra umanità e natura

Spillover di David Quammen è un libro che solo nel 2020, a otto anni dalla prima pubblicazione, ha raggiunto il suo più grande successo anche se, si può ben dire, per un motivo che nessuno avrebbe auspicato. In maniera simile a quanto accaduto per Il cigno nero di Nassim Taleb, opera salita all’onore delle cronache per la sua capacità di fornire un modello interpretativo di fronte alla crisi finanziaria del 2007-2009, Spillover verrà dai più ricordato come il saggio che ha descritto modalità di diffusione e impatto del COVID-19 prima del suo emergere.

Il libro, ottimo esempio di divulgazione scientifica, chiarifica due nozioni centrali per la comprensione della diffusione dei virus, vale a dire quelle di zoonosi e, come da titolo del testo, spillover. Per zoonosi si intende ogni infezione animale trasmissibile a esseri umani e per spillover il meccanismo per cui un patogeno passa da una specie all’altra. La delucidazione delle due nozioni a opera di Quammen (ricca di esempi, aneddotica di prima mano e approfondimenti su virus quali Sars ed Ebola) ha soprattutto il merito di mettere ogni lettore in guardia rispetto a due oggettività tanto importanti quanto superbamente sottovalutate dall’uomo. Anzitutto, siamo una specie animale fra altre, per natura non superiore a nessuna di esse e parte di un destino comune di cui ogni zoonosi rappresenta un crudo e minaccioso memento. In secondo luogo, la responsabilità della crescente diffusione di zoonosi (e, in particolare, Coronavirus) è imputabile alla scellerata condotta della nostra specie nei confronti delle altre e più in generale del nostro pianeta. Nelle parole di Quammen i virus di cui parliamo:

Sono lo specchio di due crisi planetarie convergenti: una ecologica e una sanitaria […]. Come fanno questi patogeni a compiere il salto dagli animali agli uomini e perché sembra che ciò avvenga con maggiore frequenza negli ultimi tempi? Per metterla nel modo più piano possibile: perché da un lato la devastazione ambientale causata dalla pressione della nostra specie sta creando nuove occasioni di contatto con i patogeni, e dall’altro la nostra tecnologia e i nostri modelli sociali contribuiscono a diffonderli in modo ancor più rapido e generalizzato.

Le parole di Quammen evocano per ogni essere umano un’urgente crescita di responsabilità ecologica, nel senso più ampio del termine. Questo tipo di riflessione, soprattutto poiché inclusa in un libro che è divenuto un best-seller, ha la potenzialità di rimettere in gioco il nostro rapporto con il mondo e la natura a un livello profondo, che ci permetta di comprendere i delicati equilibri di cui siamo parte e imparare a rispettarli.

A fronte degli stimoli del mondo scientifico qui rappresentati dall’opera divulgativa di Quammen, un significativo contributo può essere rinvenuto anche nella riflessione proveniente dal pensiero umanistico e in particolare nel saggio sui generis Pellegrinaggio al Tinker Creek pubblicato nel 1974 da Annie Dillard (e insignito nel 1975 del Premio Pulitzer). Si tratta del resoconto di un anno vissuto dall’autrice – all’età di 27 anni – a stretto contatto con la natura presso il fiume Tinker Creek, nei boschi della Virginia.

Il testo prende le sue mosse come omaggio al capostipite dei memoriali sulla vita solitaria nella natura, Walden di Henry David Thoreau, e pagina dopo pagina costruisce una riflessione coinvolgente ed emozionate che riesce a mescolare osservazioni da entomologo a spunti filosofici e spirituali. A colpire sono soprattutto i passaggi in cui si fa prepotente il concetto prima evocato sulla scorta di Quammen, ovvero la consapevolezza che quella umana è una specie fra altre nella natura. Questo senso di necessaria connessione viene evocato da Dillard in una maniera che valorizza il nostro essere parte inscindibile di un universo che include insieme, in una interrelazione necessariamente complessa, sia dolore che bellezza.

La crudeltà è un mistero, e spreco di dolore. Ma se descriviamo un mondo che abbracci queste cose, un mondo che sia un lungo gioco brutale, allora incappiamo in un altro mistero: l’irruzione della potenza e della luce, il canarino che canta sul cranio. A meno che tutti gli uomini di ogni epoca o razza siano stati ingannati dallo stesso ipnotizzatore di massa (chi?), sembra che la bellezza esista, una grazia del tutto gratuita.

[ Illustrazione: fotografia di Lucas Foglia, Matt-Swinging-between-Trees (particolare), dal libro HumanNature ]

CONCETTI, LAVORO, METAFORE, PAROLE, SOCIETÀ

Sbarcare il lunario

In tempi di crisi, “sbarcare il lunario” è espressione fin troppo utilizzata. Ma cosa significa e come nasce?

Partiamo dalla parola “lunario”: si tratta di un almanacco, simile al calendario ma arricchito da informazioni relative a fenomeni celesti ed eventi di varia natura. Nasce nel tardo Medioevo come strumento principalmente rivolto ad agricoltori e naviganti, per i quali tenere sotto controllo i cicli climatici stagionali era particolarmente utile. Con l’invenzione della stampa, il lunario trova diffusione di massa e si sviluppa assecondando interessi e peculiarità nazionali. Celeberrimo in Francia fu l’almanacco di Nostradamus (1503-1566), pubblicato nel 1550 e ricco di “previsioni” da molti ancora oggi tenute in alta considerazione. Primo lunario a stampa italiano fu l’Almanacco di Barbanera, nato a Foligno nel 1762 e tuttora in produzione. Dato il suo riferimenti alle fasi lunari e dunque alle mensilità, il termine “lunario” entra ben presto in uso comune come sinonimo del periodo di dodici mesi dell’anno.

Più semplice il discorso sullo “sbarcare”, verbo normalmente riferito al comune e auspicato esito di tragitti marittimi. Assumendo come metafora la navigazione in acque sommosse e tempestose, ecco che “sbarcare il lunario” giunge a indicare il periglio e la fatica di riuscire a giungere sani e salvi – con un’interpretazione prettamente legata alle risorse economiche – al termine di ogni mese e finalmente alla conclusione d’anno.

Secondo la Treccani, l’espressione inizia a fare la sua comparsa nella lingua scritta nel corso dell’Ottocento. Alcuni versi del poeta toscano Giuseppe Giusti (1809-1850) recitano:

«Si rassegna, si tien corto, / colla rendita d’un orto / sbarca il suo lunario».

Per citare un altro poeta toscano, Giosuè Carducci (1835-1907) scrive in una lettera del 1869 al proprio editore lamentandosi così:

«Mi conviene far conto anche di queste minuzie, per isbarcare mese per mese alla meglio il mio lunario».

[ illustrazione: Almanacco di Barbanera, 1762 ]

CAMBIAMENTO, COMPLESSITÀ, CONCETTI, MANAGEMENT

La capacità negativa, risorsa manageriale per il cambiamento

Quella del cambiamento indotto e controllato, per gli addetti ai lavori change management, è una pratica manageriale formalizzata – e brillantemente commercializzata – negli anni ’80 dalla società di consulenza americana McKinsey. Tale disciplina gestionale è stata nel corso del tempo introiettata dal mondo del business a tal punto da essere percepita come una “naturale” componente del lavoro manageriale. Negli anni più recenti, la sua crescente relazione con il concetto di complessità – forse la più popolare vulgata socio-manageriale degli anni ’90-2000 – ha condotto a una reinterpretazione del ruolo di manager e leader che risulta, come recita il lessico aziendale, oggi più “sfidante” a fronte della generalizzata percezione di un contesto economico sempre più imprevedibile e caotico.

Negli ultimi tempi si è molto parlato, in tema di strumenti interpretativi messi al servizio del change management, del concetto di “capacità negativa”. Curiosamente, l’espressione ha un’origine letteraria riconducibile al poeta inglese John Keats (1795-1821). In un suo verso, la capacità negativa viene descritta come l’attributo dell’artista capace di elevarsi con spirito saggio e distaccato al di sopra delle difficoltà mondane. Fu lo psicoanalista inglese Wilfred Bion (1897-1979) a rifarsi a Keats per definire il concetto in ambito psicologico e propiziarne la successiva diffusione nel mondo manageriale. Il suo principale tratto di interesse consiste nella capacità di tenere conto delle implicazioni emotive che qualsiasi processo di cambiamento – autodiretto o eterodiretto – comporta.

Per comprendere a cosa ci si riferisce parlando di capacità negativa bisogna anzitutto soffermarsi sul sostantivo “capacità”. Più che come sinonimo della parola “competenza”, esso va inteso come rimando alla capienza spaziale e dunque metaforicamente a un vuoto – ecco svelato anche il senso dell’aggettivo “negativa” – che implica disponibilità all’accoglienza. Il manager che esercita capacità negativa è dunque colui il quale è in grado di concedere spazio alle emozioni contrastanti generate da una situazione di cambiamento e di “digerirle” per conto dell’intero sistema di relazioni lavorative in cui è coinvolto.

La capacità negativa non compie tuttavia appieno il suo lavoro se non è in grado, una volta agito l’assorbimento del portato emotivo del cambiamento, di lasciare spazio a “capacità positive”, cioè più tradizionali strumenti manageriali rinvenibili nella “cassetta degli attrezzi” di chiunque sia chiamato ad assumersi la responsabilità di processi di apprendimento e cambiamento organizzativo.

[ illustrazione: dettaglio da Der Wanderer über dem Nebelmeer (1818) di Caspar David Friedrich ]

CAMBIAMENTO, CONCETTI, ECONOMIA, INTERNET, MARKETING, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

Sharing is caring? L’illusoria economia della web-condivisione

Fra i critici dell’ideologia dell’accesso propagandata dal web, un posto di particolare spicco è occupato dal giovane studioso bielorusso Evgeny Morozov. Nel suo contributo comparso il 05.10.14 sul supplemento domenicale de «Il Corriere della Sera» (e originariamente pubblicato su «The Guardian»), Morozov si concentra sul fenomeno dello “sharing” – rigorosamente a pagamento – di beni o servizi tramite app per smartphone. Il caso più chiacchierato – per via delle proteste dei tassisti – è senz’altro quello dei di Uber, ma anche il car sharing in generale o, per considerare un diverso ambito, il bed & breakfast di Airbnb costituiscono a loro volta chiari esempi del progressivo affermarsi di un nuovo meccanismo economico.

Un futuro in cui porre un QR code su un qualsiasi oggetto costituirà la premessa per il suo noleggio pare essere estremamente vicino. Saremo tutti micro-imprenditori di una ricca e democratica economia della condivisione. Chi avrà qualcosa potrà immediatamente trasformarlo in opportunità di affitto e guadagno; viceversa chi non lo avrà potrà comunque usufruirne senza restare vittima delle trappole della società borghese, rinunciando allo status del possesso e imparando a vivere in maniera più sostenibile. Contribuiremo tutti a risolvere il problema degli eccessi di consumo, sopravvivendo felicemente con meno risorse. Ecco, questa è la prospettiva di “decrescita felice via web” che probabilmente ci attende, almeno stando a quanto prefigurato dai sostenutori della sharing economy, la cui voce principale è oggi quella del sito-portabandiera Peers.org.

Che cosa ne pensa Evgeny Morozov? In poche parole, tutto il male possibile:

«Il problema maggiore delle visioni ottimistiche diffuse da organizzazioni come Peers.org è che esse si limitano a razionalizzare le patologie dell’attuale sistema economico e le presentano come scelte consapevoli da parte del pubblico. È bello poter scegliere tra affittare e possedere, ma è una scelta che molti non arrivano a fare».

L’economia dello sharing può forse aiutare un buon numero di persone a trovare più sopportabili le conseguenze dell’attuale crisi finanziaria, ma non fa nulla per incidere sulle sue cause. A ben vedere, come notato dallo stesso Morozov qualche tempo fa in un pezzo per il «Financial Times», la sharing economy altro non è che “liberismo sotto steroidi”. Attraverso l’illusoria promessa di un sistema di scambio economico più democratico e solidale – e con la seducente opportunità di noleggiare lusso e comfort a buon mercato – lo sharing anestetizza i “normospendenti” nascondendo ai loro occhi il crescente aumento di disparità economiche. Rispetto alle dinamiche di trasparenza e opacità degli scambi economici, internet sta assumendo un ruolo che Morozov non esita a definire politico. È esattamente su questo fronte che una crescita di consapevolezza collettiva si fa di giorno in giorno sempre più necessaria.

[ illustrazione: Weegee, Children on Fire Escape, 1938 ]

CONCETTI, CREATIVITÀ, LAVORO, MANAGEMENT, PAROLE, SOCIETÀ, STORIE, TEORIE

Di quella volta che l’esercito americano inventò la creatività

Un titolo somiglia a un amo: vive per catturare l’attenzione e per riuscirci non disdegna ricorrere all’inganno. In questo caso la menzogna è parziale, poiché parlare di una invenzione della creatività è fuorviante solo in termini assoluti. Trattandosi anzitutto di un’etichetta, il senso della parola creatività dipende dalle condizioni di contesto in cui di volta in volta viene usata. Un articolo del «New Yorker» dal titolo Creativity Creep si cimenta in una ricognizione di queste progressive reinvenzioni.

La nostra creatività, quella di cui parla la tanta letteratura oggi a essa dedicata, è riconducibile a un agire centrato sull’individuo. Di questi tempi nessuno si sognerebbe, come invece accaduto in epoche remote, di attribuire il merito di una buona idea all’ispirazione divina o qualsivoglia altro fattore esterno alla volontà umana. L’interiorizzazione della creatività inizia a prendere forma a partire dal Romanticismo, in particolare con l’idea di immaginazione. Samuel Coleridge (1772-1834) ne distingueva due tipi: da un lato un’immaginazione mondana, deputata a stilare piani e risolvere problemi; dall’altro un’immaginazione più nobile, motore di un’ispirata esperienza del mondo. L’influenza di questi due orientamenti – una creatività pratica e una contemplativa – ha continuato a essere paritaria fino al momento in cui qualcuno ha suggerito che privilegiare una delle due direzioni potesse essere decisamente utile.

Nel settembre 1950, nel contesto di un congresso dell’American Psychological Association, venne pronunciato un discorso destinato a esercitare enorme influenza in tema di creatività. Un oscuro psicologo di nome J. P. Guilford rese pubblico il resoconto delle ricerche da lui condotte durante la seconda Guerra Mondiale dietro mandato dell’esercito americano. Incaricato di escogitare un metodo efficace per selezionare nuove reclute per l’aviazione, Guilford fece ricorso alla categoria di creatività, costruendo una serie di test orientati alla produzione di idee e al cosiddetto pensiero divergente. Chiunque sia stato coinvolto in giochi che pongono domande del tipo “quanti usi alternativi sai trovare per questa penna / graffetta?” sa di cosa si parla. Il successo dei test di Guilford è da attribuirsi a due fattori: enfasi sulla misurabilità e orientamento a un prodotto. Se il contesto di Coleridge era permeato di Romanticismo, quello di Guilford risente, oltre che dell’ideologia militare, di almeno quattro decenni di organizzazione scientifica del lavoro. Nessuna sorpresa nel constatare come negli anni seguenti il principale campo di azione di questa nuova e pragmatica accezione di creatività sia diventato il mondo delle aziende.

Cosa sostiene, dunque, l’odierna vulgata della creatività? Che coltivare l’immaginazione nobile di Coleridge non è sufficiente. Bisogna essere in grado di concretizzare le proprie idee. Di produrre un output, per dirlo in termini aziendali. L’interiorizzazione di questa linea di pensiero – nota l’articolo del «New Yorker» – rende impossibile parlare di creatività senza prefigurare un prodotto. Da buoni membri della società dei consumi, non ci limitiamo a proiettare i nostri desideri su oggetti presentati come frutto di creatività, ma vogliamo andare oltre: viviamo l’anelito stesso alla creatività alla stregua di un meta-consumo, cioè come un modo per risalire lungo la catena che dal produttore giunge a noi consumatori. La tensione verso la realizzazione di questo bisogno non potrebbe essere più lontana dalla disinteressata esperienza del mondo di cui parlava Coleridge.

[ illustrazione: lo “zio Sam”, opera di James Montgomery Flagg – 1917 ]

CONCETTI, IRONIA, LAVORO, MANAGEMENT, MARKETING, PAROLE, SOCIETÀ, TEORIE

Alle origini dell’aziendalese

Nelle imprese italiane si parla una lingua semplicistica, meccanica e frammentaria – un vernacolo riduzionista, verrebbe da dire – , che tratta in maniera sprezzante l’idioma nazionale malmenandolo con sferzate di inglese mal masticato. Il linguaggio del management (in Italia rigorosamente pronunciato “manàggment”) denuncia in maniera impietosa una generale – e ahinoi diffusa ben oltre il mondo delle aziende – sudditanza nei confronti della cultura made in USA, alla quale certo si deve l’origine del management stesso ma cui si poteva forse evitare di pagare un così oneroso tributo linguistico. Indagare la nascita di questo parlare – il più delle volte uno straparlare – conduce a ripercorrere le tappe dello sviluppo del linguaggio aziendale americano. Un ricco e divertente articolo appena pubblicato da «The Atlantic» a firma di Emma Green si cimenta esattamente con questa impresa, ricostruendo le origini dell’office talk.

Si parte da Frederick Taylor (1856-1915), ovviamente, grazie al quale termini come “accuracy”, “precision”, incentives”, “maximed production” (per ovvi motivi d’ora innanzi riporterò le parole nella loro lingua originaria) iniziano a diffondersi nel linguaggio aziendale di inizio Novecento. In seguito, tanto accademici quanto consulenti contribuiscono, con ondate legate ai decenni successivi e a corrispondenti correnti di pensiero, ad arricchire il vocabolario del business.

Negli anni ’50 e ’60, durante i quali si sviluppano le teorie degli studiosi della Carnegie Mellon e del MIT, a lasciare il segno è soprattutto la “hierarchy of needs” di Abraham Maslow (1908-1970), cui si deve anche la pronunciata e duratura attenzione per la “self-actualization”.

Negli anni ’80 le parole chiave aziendali si dividono in due filoni. Il primo è rappresentato dal pensiero organizzativo ispirato a Peter Drucker (1909-2005) – padre del “management by objectives” – e al suo lavoro di consulenza per aziende come General Electric. Si parla di espressioni come “task cycle”, “operational efficiency”, “80-20” (richiamo a Vilfredo Pareto). Il secondo filone nasce dalla finanza aggressiva di Wall Street – idealmente identificabile con il Gordon Gekko interpretato da Michel Douglas nell’omonimo film di Oliver Stone – e fa sue parole a oggi ancora usatissime quali “leverage” o “added-value”.

Negli anni novanta il mondo del marketing non manca di dire la sua, diffondendo l’uso di espressioni quali “hard-sell”, “mind share” e il diffusissimo “ideation”. A metà del decennio fa la sua comparsa, associata all’idea di innovazione, una parola destinata a essere estremamente influente negli anni a venire. Si tratta della “disruption”, e il suo apostolo è il docente di Harvard Clayton Christensen. Negli stessi anni, la cultura di Silicon Valley diffonde nuove espressioni quali “top-down” e “bottom-up”, senza mancare di rivitalizzarne di antiche, come “entrepreneur” e “venture capitalist”.

Gli anni 2000 segnano la comparsa del movimento dei life-hackers (si veda il sito omonimo), che mette in circolo termini legati alla crescita personale come “journey”, “passion”, “energy”, “purpose”, insieme a una grande attenzione per il “work-life balance”.

La storia del linguaggio aziendale è destinata a non si fermarsi qui. Ripercorrerla fa sorridere – soprattutto pensando al suo passaggio dalla cultura americana a quella di altre nazioni, fra cui l’Italia – ma al tempo stesso spaventa per la sua capacità di influenzare in maniera sorprendentemente diretta pensiero e pratiche lavorative. Come si nota in chiusura dell’articolo del «The Atlantic»:

«Tutti trovano questo linguaggio un po’ ridicolo, ma i manager lo amano, le aziende dipendono da esso e in media i lavoratori finiscono per assorbirlo».

[ illustrazione: striscia di Dilbert del 1994 – © Scott Adams ]

CONCETTI, LAVORO, PAROLE

Contro la spontaneità

Sinonimo di condotta “naturale” e non “costruita”, la spontaneità è uno dei concetti chiave della società contemporanea. La spontaneità mette d’accordo tutti in nome di una autorealizzazione più autentica. Difficile, dunque, trovare qualcuno disposto a dichiarare di non ritenerla un valore e una meta da raggiungere. Se la spontaneità riscuote tanto successo è probabilmente perché – nota Steven Poole in un articolo per «The New Republic» – moltissime persone la percepiscono frustrata nella propria vita quotidiana, soprattutto nella sfera lavorativa. Non è del resto sorprendente che la ricerca di spontaneità occupi gran parte delle attività del “tempo libero”, concetto la cui fortuna di basa su simili presupposti.

Ma a cosa si aspira, quando si parla di spontaneità? Non propriamente alla libertà, idea troppo ampia, esorbitante, generatrice di disorientamento e horror vacui. Piuttosto, a un surrogato di scelta, un anelito di distintività all’interno della consapevolezza di essere massa. Poole cita la particolare forma di “spontaneità mediata” oggi offerta da molte app per smartphone, per esempio quelle orientate a incontrare sconosciuti. La dinamica tecnologica dell’incontro, alimentata da opzioni precostituite e da un rassicurante senso di controllo, restituisce all’utente una soddisfacente sensazione di spontaneità.

Poole coglie nel segno accostando la spontaneità alla mindfulness, altro concetto oggi in gran voga (in particolare nel mondo del business). La mindfulness promette una concentrazione sull’attimo, una sorta di immersione zen in quel che si sta facendo. Perdersi nel momento libera dalla sensazione di stress, ma non ne elimina le cause. Somiglia dunque a un’anestizzazione della coscienza critica, un’alienazione volontaria pericolosamente vicina alla passività e alla deresponsabilizzazione. Secondo Poole, forse è proprio per questo che piace tanto ai datori di lavoro.

Tanto spontaneità quanto mindfulness offrono rassicurazioni che si oppongono alle fatiche della preoccupazione, dello sforzo, del tempo dovuto. Alimentano l’ideologia del “tutto e subito” che l’accessibilità istantanea del mondo tecnologico – in realtà totalmente mediata – continuamente contribuisce ad alimentare. Per non restarne vittime, utile riconsiderare una celebre citazione del musicista e compositore Charles Mingus, nella sua semplicità perfetta per neutralizzare qualsiasi appello di illusoria spontaneità:

«Non si può improvvisare sul nulla».

[ illustrazione: fotogramma da Groundhog Day di Harold Ramis, 1993 ]

CONCETTI, FRUGALITÀ, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT

L’identikit dell’innovatore frugale

Lo studioso inglese di social entrepreneurship (e già consulente del governo di Tony Blair) Charles Leadbeater costruisce nel suo testo The Frugal Innovator (2014) una personale lettura del fenomeno dell’innovazione frugale. In seguito a fasi economiche focalizzate sul bisogno (dal 1945), sul desiderio (dal 1960) e sulla frenesia dell’offerta (dal 1990) – e soprattutto nel necessario attraversamento delle conseguenze della crisi economica del 2008 – Leadbeater riconosce nella frugalità la via di uscita dal tunnel della grande recessione. L’approccio frugale all’innovazione risponde al nuovo atteggiamento della classe media occidentale e al crescente ruolo di protagonista delle popolazioni delle nazioni emergenti. Su questa linea di pensiero, i principali riferimenti di Leadbeater sono il testo The Fortune at the Bottom of the Pyramid (2005) dello studioso C. K. Prahalad (1941-2010) e Jugaad Innovation (2013) di Navi Radjou, Jaideep Prabhu e Simone Ahuja, di recente traduzione in italiano.

Ma quali sono le caratteristiche dell’innovatore frugale? Secondo Leadbeater, quattro: un approccio lean, inteso sia nel classico, toyotistico senso di efficienza processuale che come ecologica dinamica di ri-ciclo e sfruttamento degli scarti; l’orientamento alla semplicità come risposta alle esigenze concrete di un mercato orientato alla soluzione di problemi per un numero il più possibile vasto di persone; la ricerca di coesione sociale, finalizzata a costruire comunità e a condividere conoscenze; lo scrupolo di agire in maniera pulita e sostenibile rispetto all’ambiente. Questi principi vengono distillati in The Frugal Innovator grazie all’analisi di diversi casi studio, che pur attingendo abbondantemente al patrimonio di innovazioni offerto dalla jugaad indiana non mancano di individuare casi di frugalità anche in territorio Europeo.

[ illustrazione: immagine tratta dal sito settimanadelbaratto.it ]

CONCETTI, CULTURA, INNOVAZIONE, PAROLE, SOCIETÀ

Le origini anti-industriali del biologico

L’aggettivo “biologico”, entrato da una ventina d’anni a questa parte nel linguaggio del marketing alimentare, indica – in realtà in maniera impropria, in quanto ogni processo agricolo è ovviamente biologico – una modalità di coltivazione che evita di impiegare energia proveniente da processi industriali, preferendo reimpiegare la materia sotto forma organica. Più corretto sarebbe dunque parlare di “organico”, così come fanno l’inglese e altre lingue.

Come nota Michael Pollan nel suo best-seller Il dilemma dell’onnivoro (2006), il primo utilizzo di “organico” risale a un contesto lontano da quello alimentare. Nel’Ottocento l’aggettivo era utilizzato dagli studiosi inglesi che criticavano la frammentazione sociale portata dalla rivoluzione industriale, raffrontandola a una precedente società “organica” (o più semplicemente naturale) nella quale vigevano forti legami affettivi e cooperativi.

L’utilizzo del termine in ambito alimentare risale agli anni ’40, con la fondazione della rivista americana «Organic Gardening and Farming». La testata rimase a lungo poco nota finché non le venne dedicato, nel 1969, un articolo dal «Whole Earth Catalog», la bibbia della controcultura ideata da Stewart Brand. La tiratura della rivista passò in soli due anni da quattrocentomila a settecentomila copie, ponendo le basi del futuro successo di un aggettivo che oggi campeggia, in maniera più o meno veritiera, su tutti i più appetibili prodotti di ogni supermercato del mondo.

[ illustrazione: particolare da una copertina di «Organic Gardening» del 2013 ]