CINEMA, INDUSTRIA, IRONIA, LAVORO, LIBRI, POLITICA, SOCIETÀ, STORIA

Gasparazzo, il fumetto della lotta operaia italiana

Gasparazzo è un personaggio nato nel 1971 dalla matita del compianto fumettista Roberto Zamarin (1940-1972 ) e comparso sulle pagine di «Lotta Continua» e in un libretto dal semplice titolo Gasparazzo (1972).

Gasparazzo – il cui nome rimanda a quello di Calogero Ciraldo Gasparazzo, carbonaio che partecipò alla rivolta di Bronte del 1860 – è un immaginario lavoratore meridionale che emigra a Torino come addetto alle linee di montaggio della Fiat. L’operaio Gasparazzo è vittima del tempo che vive e, insieme, del suo inevitabile radicamento nella cultura italiana. La sua lotta è contro la macchina, lo sfruttamento, le dinamiche di potere e di mafia, la nuova cultura aziendale importata dagli USA. E tuttavia il suo personaggio non è privo di aspetti qualunquisti, violenti e maschilisti espressione dello stesso sistema contro cui lotta. Gasparazzo, secondo le parole del suo creatore Zamarin:

«La politica la scopre giorno per giorno buttando la sua ribellione istintiva dentro al meccanismo disciplinato della grande fabbrica moderna. Per il resto vive come tanti altri come lui, segue lo sport, guarda la televisione, pensa alle donne».

Per comprendere il ruolo di Gasparazzo nella cultura italiana bisogna pensare, più che al romanzo industriale degli anni ’50 e ’60, a riferimenti contemporanei a Zamarin, per esempio i film La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri e Mimì metallurgico ferito nell’onore di Lina Wertmüller, entrambi risalenti al biennio 1971-1972. Lette oggi, le strisce del fumetto aiutano a ricordare un preciso momento della storia italiana – quando ancora esisteva una classe proletaria in senso proprio – e a interpretare la successiva evoluzione dell’ethos impiegatizio nazionale.

[ illustrazione: una tavola tratta da Gasparazzo di Roberto Zamarin, 1972 ]

ARTE, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, INDUSTRIA, LAVORO, LETTERATURA, SOCIETÀ, STORIA

White collar, la graphic novel italiana del 1938 che racconta la grande depressione

Genovese, emigrato negli Stati Uniti a soli diciotto anni, Giacomo Patri (1898–1978) può essere considerato fra i precursori dell’attuale graphic novel. Più correttamente, l’arte di Patri – attivo come illustratore e docente a Los Angeles – rientra nella categoria delle “wordless novel”, racconti in forma di sole immagini realizzati con tecniche di incisione e stampa a rilievo. Storicamente, il primo esempio di questo genere narrativo – fortemente debitore nei confronti dell’arte espressionista – è la novella del 1918 25 images de la passion d’un homme, realizzata dal belga Frans Masereel (1889-1972) a partire da incisioni su legno e incentrata sulle peripezie della classe operaia nella società industriale.

A simili tematiche si lega il capolavoro di Giacomo Patri, l’opera in linografia (incisioni su linoleum) White Collar (1938), frutto di tre anni di lavoro e di una paziente opera di stampa e rilegatura operata dall’autore stesso con la moglie. Con toni parzialmente autobiografici, la novella di Patri racconta le gesta di un illustratore pubblicitario che vive il suo sogno di ascesa sociale, senza troppo curarsi dei movimenti di protesta dell’attivismo operaio. Ma la cattiva sorte è in agguato, sotto forma della crisi finanziaria del 1929, che causa al protagonista la perdita del lavoro e l’accumulazione di una serie di debiti. La spirale di sfortune nella quale il protagonista e la sua famiglia precipitano sembra non avere fine, con la difficoltà nel sostentare l’ultimo nato, un lavoro indipendente fallito, un impiego da travet conclusosi con un licenziamento, la conseguente perdita della casa. Ormai in mezzo alla strada, il protagonista si libera finalmente dal suo “colletto bianco”, simbolo delle false speranze di scalata sociale e della stessa crisi del ’29, e si unisce al movimento operaio.

La splendida opera di Patri, che fu utilizzata dal movimento operaio americano per mettere il luce il comune pericolo corso in tempi di crisi sia dai colletti bianchi che da quelli blu, è oggi facilmente reperibile nel volume Graphic Witness (2007), che raccoglie quattro fra le migliori wordless novel delle origini (compresa 25 images de la passion d’un homme di Masereel).

[ illustrazione: tavola da White Collar di Giacomo Patri, 1938 ]

FOTOGRAFIA, RAPPRESENTAZIONE, SOCIETÀ, STORIA

Joseph Roth osservatore del fascismo: fra tragico e clownesco

«Mai è esistito un uomo più fotografato. Mai la fotografia è stata una risorsa tanto importante per gli affari nazionali, e mai una dittatura si compiace di un’autenticità maggiore».

È di Mussolini che si parla e a descriverlo così è lo scrittore austriaco Joseph Roth (1894-1939), per l’occasione nelle vesti di inviato del quotidiano «Frankfurter Zeitung». Nei suoi scritti sull’Italia fascista (una cui selezione è raccolta in La quarta Italia, 2013) lo sguardo di Roth restituisce, oscillando tra senso del tragico e del clownesco, una lucida e impietosa descrizione del ventennio nella quale atteggiamenti infantili e violenti risultano inscindibilmente connessi. L’articolo da cui la citazione è tratta è del 1928 e il suo titolo è Dittatura in vetrina.

I ritratti di Mussolini, nota Roth, sono ovunque: in tutte le vetrine di caffè o ristoranti, così come in ogni casa privata. Osservando queste miriadi di immagini si nota come Mussolini abbia fatto propri gesti e comportamenti fino a quel momento riservati alle autorità nobiliari, come l’elargire e ricevere saluti o l’avanzare con solennità in mezzo alla folla. Nel campionario mussoliniano mancano tuttavia, nota Roth, i gesti del quotidiano e del triviale, che potrebbero scalfire l’immagine tanto perfetta quanto artificiosa costruita per il dittatore: Mussolini non sbadiglia mai, non si toglie mai il panciotto?

Attraverso le ironiche parole di Roth, il falso ottimismo costruito ad arte dalla propaganda fascista emerge in tutta la sua vacuità. In particolare, è in primo piano l’uso da manuale del medium fotografico, che annulla la differenza tra rappresentazione e realtà facendo sì che anche le apparizioni in pubblico del duce diventino una sorta di illustrazione anticipata, un materiale grezzo già pronto per una rivista patinata.

[ illustrazione: scheda di arresto di Benito Mussolini da parte dell’autorità svizzera (con l’accusa di vagabondaggio e istigazione allo sciopero), giugno 1903 ]

POLITICA, SOCIETÀ, STORIA, STORIE

Elogio del “che sarà mai”

La scritta “tutti”, tracciata con un riconoscibile carattere e in colore rosso, campeggia sulla prima pagina de «L’Unita» del 14 Giugno 1984, accompagnando l’ultimo saluto collettivo a Enrico Berlinguer (1922-1984). La stessa scritta, identico carattere e colore, ricompare sulla copertina del racconto autobiografico di Francesco Piccolo Il desiderio di essere come tutti (Einaudi, 2013).

L’anelito al “tutti” è il sofferto snodo attorno al quale Piccolo costruisce il racconto della propria crescita e, insieme, del fallimento della sinistra in Italia. La lotta contro la superficialità è la prerogativa del giovane Piccolo, che si rispecchia nelle scelte del comunismo italiano. Il passaggio dal compromesso storico all’alternativa democratica è il preludio di una autoemarginazione basata su una tanto pura quanto improduttiva celebrazione di valori ritenuti perduti. La critica della superficialità denuncia una difficoltà di integrazione con il “tutti” che a poco a poco diventa reazionarietà e, in definitiva, distacco. Questo è quel che Piccolo imputa alla sinistra italiana e alla sua classe intellettuale – dunque anzitutto a se stesso.

Rimandando a Weber, Piccolo nota come sia solo l’etica della responsabilità – e non quella dei principi – a rendere possibile l’integrazione con “tutti”, tenendo conto dei difetti umani. E sembra avere fin troppo a cuore il dichiarare di essersi avvicinato a questi difetti, per lo meno nella parte di testo in cui compie un gratuito “coming out” su quanto ha più manifestamente infranto la sua originaria purezza. Ciononostante, il suo racconto culmina, in nome dell’etica della responsabilità, in un atteggiamento costruttivo e di speranza che credo non sia casuale trovare associato alla femminilità. Nel “che-sarà-mai” con cui Piccolo identifica l’atteggiamento quotidiano della compagna c’è la forza di recuperare finalmente la superficialità come positiva capacità di rielaborazione e, in definitiva, di andare avanti giorno dopo giorno cercando di avvicinarsi a “tutti”.

[ illustrazione: Enrico Berlinguer, foto di Luigi Ghirri, 1983 ]

CULTURA, POLITICA, SOCIETÀ, STORIA

Svizzera: fra difesa e neutralità nelle memorie di Max Frisch

«La nostra volontà di difesa si fondava sulla speranza che la semplice esibizione della nostra volontà di difesa dissuadesse il nemico».

In Svizzera il servizio militare è obbligatorio. A fine 2013, quando un referendum popolare antimilitarista ne ha chiesto l’abolizione, la risposta del 73% della popolazione è stata “no”. Per essere compresa, questa scelta va relazionata – in maniera non dissimile da quella di un successivo e più noto referendum, quello del 9 febbraio 2014 –  alla celebre neutralità della nazione: è dal 1674, anno della prima dichiarazione di neutralità dei Cantoni, che la Svizzera si mostra non più “guerriera” ma pronta a difendersi.

Max Frisch (1911-1991) fu arruolato nell’esercito svizzero a più riprese, con la mansione di cannoniere. In particolare, prestò servizio tra il 1939 e il 1940, momento in cui la Svizzera era minacciata di invasione da parte delle truppe tedesche, secondo i piani della mai attuata “operazione Tannenbaum”. La preparazione dell’esercito svizzero fu organizzata con rigore e disciplina, anche se accompagnata dallo spirito espresso dalle parole citate in apertura, tratte da Libretto di servizio (1974), memoriale dedicato da Frisch alla sua esperienza di soldato.

Partendo dall’autobiografia e assumendo progressivamente il ruolo di critico attento e intransigente, Frisch descrive quello che in quarta di copertina dell’edizione italiana del libro (Einaudi, 1977) viene definito come un “limbo ambiguo”, vale a dire la mescolanza di preoccupazione, opportunismo politico e obbedienza che caratterizzava la società svizzera di quegli anni, realizzandone un ritratto a tutto tondo non privo di amara ironia:

«Decisivo è il senso del quotidiano. Il vero svizzero non si lascia andare alle utopie, per cui si considera un realista. La storia svizzera, così come viene insegnata, gli ha sempre dato ragione».

[ illustrazione: cartolina svizzera, anni ’30 ]

ECONOMIA, LIBRI, SOCIETÀ, STORIA

Un alveare di 300 anni: un salto nel pensiero di Mandeville

Il celebre poemetto del medico e saggista olandese Bernard de Mandeville (1670-1733), La favola delle api ovvero, vizi privati pubblici benefici giunge nel 2014 a 300 anni e il Sole24Ore del 2 marzo 2014 dedica all’opera un approfondimento.

Non a tutti è noto che il saggio – del 1714 – venne preceduto di qualche anno da uno scritto, sempre in forma di poema satirico, legato a circostanze molto specifiche e non ancora dotato del significato allegorico universale proprio dell’opera più celebre.

Mandeville, trasferitosi a Londra nel 1699, si trovò catapultato all’interno di una polemica fra Tory e Whig che animava il dibattito politico di quegli anni. Oggetto della disputa erano le campagne militari condotte da John Churchill (1650-1722), duca di Marlborough. I Tory accusavano Churchill e in generale i suoi sostenitori Whig di essersi arricchiti grazie alla guerra, insinuando al tempo stesso che l’intero sistema di finanza pubblica, incentrato sulla Banca di Inghilterra, non fosse che un apparato corrotto a uso e consumo dei Whig.

Queste dunque le circostanze che ispirarono il saggio del 1705 di Mandeville, The Grumbling Hive, or Knaves Turn’d Honest (L’alveare scontento, ovvero i furfanti divenuti onesti). Fin da questo primo scritto, lo scopo di Mandeville è quello di mostrare, con gli strumenti dell’allegoria e dell’ironia e senza prendere posizioni, che guerra, corruzione e interessi personali rappresentano un prezzo da pagare per un’economia interna rigogliosa e un governo stabile. Questi principi torneranno dunque nel 1714, rielaborati e ampliati, nella celebre Fable of the Bees: or, Private Vices, Publick Benefits. Per celebrarne la memoria e l’attualità, vale la pena di estrarne un celebre passaggio.

«Essendo così ogni ceto pieno di vizi, tuttavia la nazione di per sé godeva di una felice prosperità, era adulata in pace, temuta in guerra. Stimata presso gli stranieri, essa aveva in mano l’equilibrio di tutti gli altri alveari. Tutti i suoi membri a gara prodigavano le loro vite e i loro beni per la sua conservazione. Tale era lo stato fiorente di questo popolo. I vizi dei privati contribuivano alla felicità pubblica […]. Le furberie dello stato conservavano la totalità, per quanto ogni cittadino se ne lamentasse. L’armonia in un concerto risulta da una combinazione di suoni che sono direttamente opposti. Così i membri di quella società, seguendo delle strade assolutamente contrarie, si aiutavano quasi loro malgrado».

[ illustrazione: particolare dalla locandina del film di Irwin Allen del 1978 The Swarm, che narra di un’invasione di api killer in Texas ]

ARTE, BENI CULTURALI, CINEMA, STORIA

I veri Monuments Men

Nell’agosto del 1943 entrò in azione, promossa dal presidente Franklin Delano Roosevelt, la “American Commission for the Protection and Salvage of Artistic and Historic Monuments in War Areas” – anche nota come la seconda “Roberts Commission” dal nome del giudice della Corte Suprema Owen Roberts. Di concerto con il programma dell’esercito americano denominato “Monuments, Fine Arts, and Archives program” (MFAA), la commissione lavorò dal 1943 al 1946 per proteggere e preservare i beni del patrimonio artistico minacciati dal secondo conflitto bellico nonché, nello specifico, per contrastare l’azione di saccheggio compiuta dal nazismo ritrovando e restituendo le opere confiscate alle nazioni legittime proprietarie.

L’MFAA prese corpo con un gruppo di circa 350 uomini e donne provenienti da 13 nazioni e con stretti legami con alcune delle più importanti istituzioni culturali e artistiche dell’epoca. Il lavoro del gruppo chiamava in causa una combinazione di addestramento militare, storia dell’arte e tecniche di indagine avanzata. Nel suo periodo di attività l’MFAA recuperò complessivamente più di 5 milioni di beni artistici. Come riportato in un’intervista da Robert Edsel, autore del best-seller Monuments men (2010) da cui è stato tratto l’omonimo film di George Clooney del 2014, i grandi successi ottenuti dalle operazioni di recupero contemplano anche qualche fallimento. La singola opera più importante fra quelle mai più recuperate è probabilmente il Ritratto di giovane uomo (1516-1517) di Raffaello, fino al 1939 conservato presso il Museo Czartoryski a Cracovia e successivamente disperso.

Al di là del suo fondamentale risvolto pratico legato al recupero di opere, il lavoro dei “Monuments Men” ha anche un importante valore simbolico nell’aver anticipato un interesse comune che, di lì a pochi anni, avrebbe trovato formalizzazione nella Convenzione dell’Aja del 1954, origine di ogni successiva iniziativa volta al riconoscimento e alla preservazione del patrimonio culturale internazionale.

[ soldati americani recuperano alcune opere sotto la supervisione di James Rorimer (secondo da sinistra), allora Direttore del Metropolitan Museum of Art ]

EPISTEMOLOGIA, FOTOGRAFIA, STORIA

Se non ci credo, non lo vedo!

Nell’eccellente Believing Is Seeing: Observations on the Mysteries of Photography (2011) Erroll Morris – già vincitore di un premio Oscar per il film documentario The Fog of War (2003) – affronta tramite la fotografia il tema della percezione di ciò che consideriamo vero o falso.

L’esempio più riuscito del libro prende spunto da un’immagine  di Roger Fenton (1819-1869), fotografo inglese noto per aver realizzato durante la campagna di Crimea quello che è storicamente considerato il primo foto-reportage di guerra. La fotografia in questione – realizzata nel 1855 – mostra la violenza e la distruzione della guerra tramite una veduta di un campo da battaglia disseminato di palle da cannone.

Esiste anche una seconda fotografia, identica alla prima per inquadratura e soggetto tranne che per un significativo particolare: le palle di cannone sono in posizione molto diversa, lasciando la carreggiata sgombra (nell’animazione qui sopra è possibile vedere in alternanza le due immagini). Il dibattito sulle due fotografie – aperto da un saggio di Susan Sontag cui Morris fa riferimento nel suo libro – ha nella stragrande maggioranza dei casi risolto il “mistero” delle due immagini identificando come prima quella con il sentiero sgombro e come seconda quella con il sentiero intralciato. La generale convinzione dei sostenitori di questa tesi – basata non sui fatti ma su una interpretazione delle ipotetiche intenzioni del fotografo – è che Fenton avrebbe “manomesso la realtà” della scena per ottenerne una rappresentazione più drammatica ed efficace. Sarà stato davvero così?

Il lavoro di Morris è partito da questa domanda ed è andato molto lontano, tanto da condurlo perfino in Crimea alla ricerca del luogo esatto in cui le foto sono state scattate nel 1855. Passando attraverso pareri di esperti, molteplici perizie e un lavoro sull’immagine che ricorda la celebre sequenza dell’ingrandimento di Blow-Up di Michelangelo Antonioni, Morris riesce a comprendere – osservando le differenze di luci e ombre nelle due foto – che la fotografia col sentiero sgombro è stata effettivamente scattata per prima.

Questa scoperta ha a ogni modo un’importanza del tutto secondaria rispetto a quanto trapela in tutto il saggio di Morris: di fronte a indizi, fatti e perfino alla “Verità”, non possiamo mai fare a meno di interpretare e assumere un punto di vista che è sempre del tutto soggettivo. E se poi i fatti si adeguano al nostro punto di vista, tanto meglio. Ecco perché dovremmo riparafrasare il classico detto “se non vedo, non ci credo” in “se non ci credo, non lo vedo”. La fotografia, con l’ambigua verità di cui è spesso considerata portatrice, risulta un ottimo strumento per condurre un percorso di consapevolezza su questo tema epistemologico.

[ illustrazione: animazione di due fotografie di Roger Fenton scattate nel 1855 ]