ANTROPOLOGIA, CITTÀ, ECONOMIA, TECNOLOGIA

Silicon Valley porta la gentrificazione a San Francisco

Il processo di gentrificazione che ha interessato città come New York e Londra, mutate a uso e consumo dei loro cittadini più abbienti, interessa ora anche San Francisco. In questo caso a determinare il mutamento demografico è la giovane e ricca manodopera informatica che qui si trasferisce, attirata dalla mecca tecnologica di Silicon Valley.

I dati positivi sono impressionanti: a San Francisco la disoccupazione è scesa al 5%, grazie a un settore high-tech cresciuto del 58% tra il 2010 e il 2012, con quasi 1.900 startup che occupano il 30% degli edifici urbani. Altrettanto impressionanti sono gli elementi negativi: l’affitto medio di un bilocale ammonta a 3500$ mensili e ogni mese si contano almeno due sfratti nei confronti di inquilini non più in grado di sostenere questo tipo di spesa. Tutto ciò significa che la città sta gradualmente diventando il dormitorio di Silicon Valley, facendo sparire spazio vitale per i suoi precedenti abitanti. Si tratta di un grandissimo impoverimento sociale, soprattutto per una città fino a poco tempo fa contraddistinta da una grande ricchezza di sotto-culture.

Data la vicinanza con Silicon Valley, questo processo era probabilmente inevitabile. Come nota un recente articolo de La Lettura del Corriere della Sera, i giovani programmatori che popolano San Francisco non sono così diversi dai minatori che nell’Ottocento si spostavano in cerca d’oro e speranza. La dinamica di migrazione verso Frisco ha avuto la sua prova generale alla fine degli anni ’90 con il fenomeno delle dotcom, la cui “bolla” come noto esplose lasciando solo una vaga minaccia per la città. La seconda ondata migratoria ha potuto contare su basi molto più solide e a oggi la colonizzazione è effettiva, così come la frattura che spezza in due la città.

[ illustrazione: il Golden Gate di San Francisco in fase di costruzione, 1936 ]

COMPLESSITÀ, LETTERATURA, STORIE

La forza poietica della narrazione

Montauk (1975) di Max Frisch (1911-1991) è un esempio di letteratura autobiografica che riesce, grazie all’universalità della narrazione e al lavoro sullo stile, a costruire un perfetto incastro tra vita e romanzo, facendo spesso dimenticare al lettore il confine fra i due mondi. Quel che colpisce particolarmente è che la compenetrazione tra finzione e realtà è in queste pagine così forte da essere riuscita a influenzare la successiva vita dello stesso Frisch.

Non ci vuole molto per scoprire che dietro il nome della protagonista Lynn si nasconde quello di Alice Locke-Carey, assistente editoriale effettivamente conosciuta da Frisch durante un week-end trascorso a New York nel 1974. A riprova del fatto che la narrazione può mescolarsi alla realtà, i resoconti d’epoca raccontano che in seguito al primo incontro i due persero contatto e che in un successivo tour americano Frisch cercò inutilmente di mettersi sulle tracce di Alice. Fu quest’ultima, dopo la pubblicazione della traduzione americana di Montauk nel 1976, a riprendere contatto con lo scrittore. In seguito i due vissero insieme per alcuni anni, fra New York e Berzona. Mai come in questo caso, lo strumento della narrazione si rivela in grado di incidere sullo sviluppo di reali percorsi di vita.

[ illustrazione: ritratto di Renate von Mangoldt ]

APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, FILOSOFIA, LAVORO, PERCEZIONE

Fallimento e consapevolezza

In tempi di recessione, riflettere sul senso del limite e del fallimento offre una preziosa opportunità per riconsiderare gli usuali punti di vista. La lettura di un articolo del New York Times offre diversi spunti di riflessione a riguardo.

Anzitutto, il fallimento è consustanziale alla nostra natura di esseri finiti. Ci ricorda che tutti i piani di grandezza, crescita e prosperità devono prima o poi confrontarsi con un limite:

«Failure is the sudden irruption of nothingness into the midst of existence. To experience failure is to start seeing the cracks in the fabric of being, and that’s precisely the moment when, properly digested, failure turns out to be a blessing in disguise».

Comprendere come affrontare il fallimento si rivela una capacità fondamentale, che ci aiuta ad acquisire consapevolezza della nostra imperfezione e, in senso propositivo, del continuo slancio che esiste tra quel che siamo e quel che possiamo diventare.

[ illustrazione: foto di John Dominis, Mickey Mantle Having a Bad Day at Yankee Stadium, New York, 1965 ]

ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, PERCEZIONE, SOCIETÀ

Breve storia della cocaina e dell’accettazione sociale

Un breve riferimento alla diffusione storica della cocaina è utile a mostrare quanto la nostra percezione – in questo caso con riferimento alla pericolosità e alla natura illecita di una sostanza – non sia “naturale” ma culturalmente determinata. Come un articolo della rivista Salon mette bene in luce, la “scoperta” della cocaina è inoltre un ottimo esempio della collisione tra il Vecchio e il Nuovo Mondo.

Fu proprio con la scoperta dell’America che nacque un grande interesse per le caratteristiche della cocaina, che venne studiata per le sue proprietà lenitive fino a tutto il secolo XIX. All’interno di questo processo di studio molto rilevante fu l’influsso di Sigmund Freud, che favorì l’utilizzo della cocaina come anestetico in ambito medico.

Rispetto alla diffusione di massa della sostanza, curioso è il caso della bibita Vin Mariani prodotta dal corso Angelo Mariani (1838 – 1914), che mescolò vino Bordeaux con cocaina ottenendo grandi risultati commerciali. Il successo di questa bevanda ispirò la nascita della Coca Cola, che originariamente conteneva caffeina e cocaina in pari quantità. Il contenuto di cocaina venne ridotto a partire dal 1903, ma a oggi le foglie di coca sono in parte ancora utilizzate per aromatizzare la celebre bevanda.

Quanto all’uso di cocaina allo stato puro, negli Stati Uniti fu possibile acquistare liberamente la sostanza fino al 1916. Aziende come Parke-Davis (la più antica farmaceutica americana, oggi sussidiaria di Pfizer) producevano addirittura eleganti kit contenenti cocaina, siringhe e tutto il necessario per una “dose”.

[ illustrazione: locandina attribuibile al film Cocaine Fiends del 1935, regia di William A. O’Connor ]

CITTÀ, CONCETTI, STORIE

The Big Apple

Perché New York è nota anche come la “grande mela”? Il primo utilizzo di questa espressione con riferimento alla città americana  risale agli anni ’20, quando alcuni articoli di quotidiani menzionarono in tale maniera una popolare corsa di cavalli all’epoca organizzata in quel di New York.

In inglese l’espressione idiomatica “to bet a big apple” può essere tradotta come “puntare sul sicuro”, con evidente riferimento ad ambiti di scommesse. Di qui il legame con le corse di cavalli e nello specifico con quelle disputate negli anni ’20 a New York, che si conquistò in breve tempo la fama di centro d’eccellenza per prestigio delle gare ed entità dei premi e dunque la nomea di “big apple”. Per metonimia, nel corso del tempo la grande attrattiva dell’equitazione iniziò a essere identificata con la città stessa.

Nel corso del tempo la popolarità dell’espressione “grande mela” iniziò a declinare, finché negli anni ’70 il New York Convention and Visitors Bureau la rilanciò per promuovere l’immagine della città. Il che conduce all’oggi e all’ormai tradizionale popolarità dell’espressione.

[ illustrazione: foto di Lee Friedlander, New York 1974 ]

APPRENDIMENTO, CINEMA, COMUNICAZIONE, INDUSTRIA, INNOVAZIONE, SCRITTURA, TECNOLOGIA

Le innovazioni della macchina da scrivere

In tema di tecnologie comunicative, la storia delle innovazioni legate alla macchina da scrivere è fra le più interessanti. Originariamente sviluppatasi in Europa tra il 1830 e il 1870 circa, la macchina da scrivere diede vita a una miriade di sperimentazioni che continuarono a fiorire, anche oltreoceano, fino agli anni ’70 del XX secolo (sostanzialmente, fino all’avvento dei personal computer).

Una delle più curiose “piste” innovative dello sviluppo della macchina da scrivere fu quella legata alla presenza di elementi sferici nel design. Paradigmatica in questo senso fu la “Writing Ball” prodotta dal danese Rasmus Malling-Hansen a partire dal 1870. Sferica nel suo complesso, questa macchina da scrivere fu il primo modello distribuito commercialmente, nonché strumento d’elezione per gli ultimi anni di attività di Friedrich Nietzsche.

A novant’anni di distanza – e in questo caso in America – un elemento di design sferico tornò a comparire nella cosiddetta “golf-ball” del modello IBM Selectric. Commercializzata dal 1961, questa macchina da scrivere presentava, al posto delle classiche “stanghette” individuali per le lettere, un elemento rotatorio in grado di imprimere su carta i caratteri. L’invenzione di questo dispositivo è stata recentemente “romanzata” dal film Tutti pazzi per Rose (2012) di Régis Roinsard, in cui ad avere l’idea è un francese che poi cede a mani americane, notoriamente più scaltre in termini di business, lo sviluppo del progetto.

[ illustrazione: fotogramma dal film Populaire (2012) di Régis Roinsard ]

APPRENDIMENTO, CONCETTI, MUSICA, PERCEZIONE

Ostacoli dell’apprendimento: l’effetto Zeigarnik

«Sarà capitato anche a voi di avere una musica in testa, sentire una specie di orchestra suonare, suonare: zum zum zum zum zum…»

Così cantava Mina nel 1967. La dinamica per cui spesso ci ritroviamo a fischiettare in maniera quasi ossessiva un motivo che ci è “rimasto in testa” è riconducibile a un fenomeno psicologico noto come “effetto Zeigarnik”. Lo psicologo sovietico Bluma Zeigarnik (1901-1988) fu il primo studioso a mettere a fuoco questo bizzarro meccanismo, arrivando a notare come le esperienze incomplete o interrotte si iscrivono nella nostra memoria più fortemente di quelle completate. In altri termini: se ci resta in mente un frammento di una canzone è probabilmente perché non l’abbiamo sentita in maniera abbastanza continuativa o esaustiva per poter considerare “completo” il suo ascolto.

Tale dinamica mnemonica sembra a prima vista esprimere un fallimento conoscitivo e tuttavia alcuni studiosi hanno cercato di interpretarla positivamente. Con riferimento per esempio all’apprendimento e allo studio tipico di uno studente, quel che pare emergere è che un’applicazione frammentata e intervallata da altre attività produrrebbe un risultato mnemonico superiore a quello ottenuto da studenti in grado di completare sessioni di studio senza pause.

Un aspetto interessante dell’effetto Zeigarnik riguarda il ruolo del nostro inconscio nell’apprendimento: lanciando come segnale la ripetizione di un blocco di informazioni incompleto, il cervello ci invia un implicito messaggio legato alla necessità di provvedere al suo completamento, meglio se con una dovuta pianificazione.

[ illustrazione: fotogramma dal cartoon Steamboat Willie del 1928, prima comparsa di un fischiettante Mikey Mouse ]

ANTROPOLOGIA, COMUNICAZIONE, LAVORO, TECNOLOGIA

Le app come modello di pensiero

Un testo del “padre” delle intelligenze multiple Howard Gardner – scritto insieme a Katie Davis e intitolato The App Generation (2013) – traccia le abitudini comunicative dei più giovani, con particolare riferimento all’influenza delle nuove tecnologie.

Al di là di temi noti quali la preferenza per una comunicazione privata in forma scritta (in cui l’emotività è più gestibile) e l’ostentazione pubblica dello status sociale (la bacheca di Facebook in cui esporre come trofeo il numero di amici o di invitati a una festa), dell’analisi di Gardner e Davis colpisce soprattutto un tema, vale a dire quello dell’approccio alla pianificazione della propria vita.

Una delle principali attività svolte dai teenager tramite le app comunicative installate sui loro smartphone è quella di organizzare incontri con i propri amici. Il fattore novità legato a questa attività è quello di un approccio cosiddetto “on-the-fly”, che permette in pochi istanti di condividere un programma, cambiarlo, cancellarlo. La dinamica dell’incontro e dell’appuntamento, che prima dell’avvento dei cellulari viveva di una sua preparazione, di un accordo e poi della fiducia affidata al vedersi con qualcuno in un dato luogo a una data ora, è ora sconvolta da un’indecisione elevata a sistema che fa sì che tutto si giochi e rigiochi nell’istante.

Secondo Gardner e Davis la “mentalità delle app”, abituata ad avere informazioni, beni e servizi sempre disponibili on-line, porterebbe a trattare con la stessa pretesa di accessibilità anche le persone. Questo fenomeno, etichettato da alcuni studiosi anche come “microcoordination”, ha un forte impatto sulla percezione della presenza altrui e, evidentemente, delle aspettative e dei sentimenti legati a un cambiamento di idea o a un rifiuto. Provando a leggere questa nuova dinamica in proiezione rispetto all’età adulta e alla sfera lavorativa, è facile immaginare che il tema della pianificazione – a livello di singolo lavoratore o più in generale su un piano aziendale – sarà necessariamente impattato da questa inattesa svolta antropologica.

[ illustrazione: fotogramma dal film Bling Ring di Sofia Coppola, 2013 ]

CINEMA, COMPLESSITÀ, ECONOMIA, LAVORO, POLITICA, TECNOLOGIA

La Guerra Fredda e il successo di Silicon Valley

C’è un fondamentale dettaglio sull’ascesa di Apple Computer che l’apologetico (e in definitiva mal fatto) film Jobs (2013) di Joshua Michael Stern manca di mettere in luce: quello delle condizioni di contesto di cui Steve Jobs e Steve Wozniak poterono giovarsi. Ne parla, indirettamente, un articolo della rivista Slate.

Negli anni della Guerra Fredda il governo americano, terrorizzato dal fatto che qualsiasi nuova scoperta potesse essere usata in chiave di arma militare, investì una ingente quantità di denaro nella ricerca accademica e scientifica. Un esempio di questa politica fu la nascita nel decennio 1958-1968 di ARPANET, esperimento comunicativo pilota destinato a dar vita negli anni successivi a internet.

In relazione alla compresenza di basi militari, centri tecnologici e poli universitari di prestigio, le due aree americane che più beneficiarono di investimenti governativi fin dagli anni ’40 furono Silicon Valley e la “route 128” in Massachussets (area di pertinenza del MIT e dell’università di Harvard). La spinta alla ricerca e la stabilità economica generate in quegli anni hanno costruito un formidabile humus culturale ed economico che nei decenni successivi ha permesso la sopravvivenza e il successo di moltissime startup tecnologiche fra cui Hewlett-Packard, Fairchild, Xerox – e ovviamente Apple.

[ illustrazione: fotogramma dal film Jobs (2013) di Joshua Michael Stern ]

CONCETTI, CREATIVITÀ, MANAGEMENT

La creatività come slogan

Uno dei più lucidi contributi sul tema della creatività individuale e organizzativa è rappresentato da un testo dal titolo Why No One really Wants Creativity a firma del docente di leadership e comunicazione di Berkeley Barry Staw e pubblicato in Creative Action in Organizations, volume collettivo del 1996.

Un primo aspetto esaminato da Staw è la tendenza celebrativa ed “eroicizzante” con cui mediamente ci si confronta con il riconoscimento della creatività altrui. In breve: siamo tutti molto propensi a magnificare ex post le gesta di creativi di successo; altro discorso è confrontarsi con le loro idee nel momento in cui vengono proposte e appaiono azzardate e destabilizzanti.

Sul tema dei tratti tipici di una condotta creativa, riconoscibili secondo Staw in assunzione di rischi, tenacia, flessibilità e duro impegno, il problema fondamentale è che pochissime persone risultano disposte a praticarli, il che genera un gran numero di “creativi a parole” che si fermano di fronte alla prima difficoltà o comunque prediligono una condotta da “satisficer”.

Organizzativamente parlando, la questione diventa più complessa, poiché le aziende sono organismi fondamentalmente basati su una cultura omologante che stigmatizza i comportamenti ritenuti devianti. Nonostante quello della creatività sia uno slogan organizzativo fra i più usati (e a ben vedere abusati), a conti fatti le aziende sono mediamente portate a rigettare le condotte percepite come disobbedienti, cioè quelle che guardano in modo critico alla catena di controllo e mettono in discussione lo status quo. È esattamente per questo motivo che le aziende disposte a ospitare creatività, soprattutto se generata “dal basso”, sono veramente un’eccezione. Il resto, per seguire le parole di Staw, è ipocrisia.

[ illustrazione: particolare dalla foto Watching Bwana Devil in 3D at the Paramount Theater di J. R. Eyerman, 1952 ]