ANTROPOLOGIA, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, MARKETING

Il teorema del caffè: domanda e offerta in tempi di crisi

Qualche anno fa in internet era molto popolare un video sulle differenze culturali realizzato da Bruno Bozzetto e intitolato “caffè”. Il divertente clip metteva in luce, a fronte della semplice richiesta di caffè di un generico cittadino europeo, le miriadi di sfaccettature che un italiano è in grado di ideare per soddisfare il suo bisogno di caffeina. Fra un “macchiato caldo ristretto” e un “americano decaffeinato in tazza grande (con acqua a parte)” esiste un universo di possibilità che solo la nostra nazione è in grado di esplorare, comprendere e apprezzare. Pensando forse a questo clip – nonché alla celeberrima scena di Totò e Peppino in Totò e la banda degli onesti (1956), il consulente e docente universitario Paolo Iacci pubblica oggi un piccolo libro che si intitola Il teorema del caffè. Il paradosso che regola l’impresa (2014).

Se è vero che, in una società caratterizzata da un grado di sviluppo maturo e “sofisticato”, i bisogni tendono a divenire sempre più personalizzati ed elevati (ovviamente in relazione alle disponibilità economiche di ciascuno), questo fenomeno è soggetto in tempi di crisi a un ulteriore sviluppo. Secondo il “teorema” elaborato da Iacci, quanto ha luogo è una ulteriore crescita, pur in scarsità di risorse, delle richieste di originalità, innovazione e individualizzazione. In aggiunta a ciò, l’effetto della concorrenza – e del reciproco ritrovarsi in una situazione in cui vige l’ormai classico “fare di più con meno” – alza ulteriormente la posta in gioco, generando un’offerta ancora più ricca ed esclusiva. Il paradosso del “teorema del caffè” ci dice quindi che, lungi dall’accontentarsi di poco, in tempi di crisi i consumatori diventano ancor più selettivi ed esigenti. Non è solo un tema di qualità vs quantità, ma più in generale della ricerca di prodotti e servizi in grado di affermare uno status di “benessere” anche – e forse soprattutto – in tempi di crisi. Le imprese sono obbligate a tener conto del “teorema” e, conclude Iacci, a organizzare anche le proprie risorse interne per farvi fronte.

[ illustrazione: fotogramma dal film Totò e la banda degli onesti di Camillo Mastrocinque, 1956 ]

CINEMA, LAVORO

Riconquistare l’umanità del lavoro: Due giorni, una notte di Luc e Jean-Pierre Dardenne

La storia di Sandra è quanto mai semplice: al rientro da un periodo di malattia, l’accoglienza è quella di una cruda riorganizzazione lavorativa. Le attività della fabbrica sono state ridistribuite tra i colleghi, che riceveranno un bonus di 1000€ a patto che Sandra venga licenziata. Il verdetto spetta a loro. Chiamati a votare, scelgono il bonus. La scelta pare tuttavia essere stata influenzata da pressioni interne, motivo per cui una collega di Sandra riesce a invocare una nuova votazione. Qui parte l’odissea della protagonista: avrà due giorni e una notte per convincere i colleghi a votare per la sua permanenza in azienda.

Due giorni, una notte (2014), girato con il consueto stile asciutto e dimesso dei fratelli Dardenne, parla in modo diretto di uno dei temi più esposti e al tempo stesso “intoccabili” del mondo del lavoro, vale a dire la spersonalizzazione delle dinamiche di relazione. Ogni sequenza del film trabocca dell’ipocrisia e della violenza che continuamente rendono ardua, in milioni di luoghi di lavoro ogni giorno, la sintesi fra egoismo e solidarietà, fra rabbia e senso di pietà chiamata in causa dalla messa in discussione delle certezze base di un’occupazione lavorativa. Di fronte alla battaglia per l’occupazione o per un salario più alto, nessun punto di vista è semplicemente “giusto”. Nemmeno quello di Sandra, costretta ad affrontare una lotta anzitutto contro se stessa che potrà infine, forse – questo lo scoprirà lo spettatore al cinema – , condurla a trovare un’opportunità di riconciliazione con una comunità lavorativa infranta.

[ illustrazione: fotogramma da Due giorni, una notte (2014) di Luc e Jean-Pierre Dardenne ]

APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, CITTÀ, COLLABORAZIONE, COMPLESSITÀ, DECISIONE, DEMOCRAZIA, ECONOMIA, MANAGEMENT, METAFORE, MOBILITÀ

Meno regole, più responsabilità

La vicenda non rappresenta proprio una novità; suona piuttosto come la conferma di una tendenza ormai storicamente consolidata: a inizio 2015 anche Chicago inaugurerà, seguendo l’esempio di diverse città europee, una “shared street”, vale a dire una strada urbana priva di marciapiedi, corsie e segnaletica in cui i cittadini dovranno imparare a praticare l’auto-organizzazione.

I primi esperimenti orientati a una diversa gestione del traffico e della sicurezza urbana risalgono a ormai più di venti anni fa. Avanguardia di questa svolta nella mobilità è stata l’Olanda, nazione bike-friendly particolarmente attenta ai disagi generati dal traffico e capace di innestare un reale cambiamento culturale atto a evitarli. L’innovazione olandese è principalmente riconducibile al nome di Hans Monderman (1945-2008), ingegnere del traffico che già negli anni ’90 iniziò a praticare nella regione della Frisia – e in particolare nella cittadina di Drachten – l’idea di responsabilizzazione urbana che oggi giunge fino agli USA.

Come nota un articolo di «Pagina 99», quanto verrà chiesto ai cittadini di Chicago è di rinunciare a una regolamentazione del traffico eterodiretta, al fine di abbracciare una condotta di continua negoziazione delle precedenze e dunque dell’attenzione dedicata agli spostamenti cittadini. Faticoso, certo, ma sembra valerne davvero la pena: le statistiche provenienti dall’Olanda e dagli altri luoghi in cui le “shared street” sono già in uso parlano di un netto calo degli incidenti e di un generale miglioramento della mobilità.

«You’re not stuck in the traffic, you’re traffic!», sostiene un mantra popolarizzato negli ultimi anni tanto nel campo della viabilità cittadina quanto, come metafora, nel pensiero manageriale e organizzativo. In tema di riflessioni metaforiche sul tema della responsabilizzazione in contesti aziendali, a rendere particolarmente simbolici gli esempi delle “shared street” è anche l’avvallo di una teoria sulla compensazione del rischio nota come “effetto Peltzman” (dal nome dell’economista – guarda caso di Chicago – che per primo la tematizzò).

Ogni qual volta ci si sente al sicuro all’interno di un sistema di regole,  si diventa – nota Peltman – molto meno cauti. Superficialmente attenti a rispettare le norme ma, di fatto, proni a infrangerle. Al contrario, una situazione che enfatizza il rischio percepito porta naturalmente a generare un’assunzione di responsabilità collettiva. Lungi dall’essere utile soltanto a chi si occupa di mobilità cittadina, l’effetto Peltman riguarda qualsiasi azienda in cui la dialettica fra norma e responsabilità non sia giunta a un adeguato livello di sintesi.

[ illustrazione: Alberto Sordi in un fotogramma dal film Il vigile di Luigi Zampa, 1960 ]

ANTROPOLOGIA, COMPLESSITÀ, CONOSCENZA, CREATIVITÀ, INTERNET, IRONIA, SCUOLA, TECNOLOGIA, TEMPO

Perdere tempo su internet, guida all’uso

Kenneth Goldsmith è poeta, agitatore web e profeta della scrittura non creativa. La sua ultima trovata, sperimentata nelle vesti di docente universitario presso la University of Pennsylvania, è un corso dal sorprendente titolo “Wasting Time on the Internet”. L’insegnamento, lungi dal criticare il fenomeno della continua perdita di tempo sul web, lo eleva a fonte di ispirazione per la produzione di testi letterari.

Nella storia della cultura, le provocazioni offrono quasi sempre un doppio livello di lettura. C’è quello più superficiale, cui spesso si fermano i media di massa. Secondo quest’ottica, Goldsmith fa scalpore perché nobilita qualcosa di cui tutti si lamentano quotidianamente, scovando – proprio come faceva Baudelaire a metà ‘800 – il bello nell’effimero. C’è poi un senso più elevato, che si spoglia di valenze ironiche e riflette su mutamenti antropologici profondi. A ben vedere, Goldsmith non ci parla tanto di distrazione e passività (che del resto non sono certo invenzione di internet), ma della crisi di un modello di pensiero – quello della “cultura occidentale” – che continua a non riuscire a fare i conti con il susseguirsi dei mutamenti tecnologici.

La questione non è dunque demonizzare internet, ma sviluppare competenze che portino a saperlo usare con maggiore consapevolezza, nella vita personale e in quella lavorativa. E ben venga dunque un corso che aiuta i giovani universitari – una delle fasce di età che vivono il web con più immediatezza – a esplorare le potenzialità creative di un medium tanto ricco quanto spesso inestricabile. Questo è quanto è davvero in gioco; il resto è mero sensazionalismo da prima pagina.

[ illustrazione: il meme di internet noto come Nyan Cat ]

ANTROPOLOGIA, BIGDATA, CULTURA, DIVULGAZIONE, PERCEZIONE

SMALL data

Un articolo del «Guardian» mette in luce quanto il comune uso dei dati sia distorto da cattive interpretazioni. Prendendo in considerazione statistiche su temi quali religione, diritto di voto, immigrazione, disoccupazione, maternità in età minore, l’inchiesta mostra come dal confronto fra nazioni diverse emerga una altrettanto differente tendenza a sopravvalutare o sottovalutare alcuni dati. La media fra le varie stime corrette o scorrette dà modo di calcolare, secondo l’interpretazione del quotidiano inglese, un peculiare “indice di accuratezza e ignoranza” nazionale. Su 14 stati presi in esame, la Svezia si posiziona al primo posto come nazione più accurata. L’Inghilterra, ovviamente presa di mira dal «Guardian», non se la cava male, situandosi in quinta posizione. E l’Italia? Manco a dirlo, finisce al 14° posto, conquistando il podio di nazione più ignorante. In poche parole, noi italiani saremmo i peggiori nel far uso di dati, finendo vittima di pregiudizi che, nel nostro particolare caso, soffrirebbero di un costante orientamento a una visione più nera e funesta di quella offerta dai dati “corretti”. Niente di nuovo, verrebbe da dire.

Ma che dire di una statistica che pretende di essere comprensiva e risulta arbitrariamente basata su sole quattordici nazioni? Sono forse – da una prospettiva strettamente eurocentrica – le più importanti del mondo? E dove sono allora Cina e Russia? E come – e perché, e da chi – sono state scelte le categorie di osservazione? È curioso che un’indagine volta a mettere in discussione i pregiudizi culturali legati all’interpretazione di dati resti così platealmente – e inconsapevolmente – vittima di una cieca fiducia in dati altrettanto pregiudizievolmente selezionati e commentati. Per una volta, forse, essere finiti in coda a una classifica non dovrebbe farci preoccupare troppo.

[ illustrazione: fotogramma dal clip Qualcuno Vota 5Stelle de Il Terzo Segreto di Satira – trasmesso da LA7 ]

DECISIONE, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, MARKETING, METAFORE

Il bluff come strategia manageriale

Durante la prima guerra mondiale, le forze degli Alleati escogitarono un modo per contrastare gli Imperi Centrali che non implicava l’uso della forza bruta ma dell’ingegno. Nacquero così i cosiddetti “dummy tank”, vale a dire falsi carri armati realizzati con strutture in legno coperte da teli dipinti per simulare l’aspetto dei mezzi originali. I dummy tank vennero utilizzati per ingannare le flotte aeree nemiche, mostrando loro forze di terra particolarmente numerose, ma solo in apparenza. Sorta di cavallo di Troia alla rovescia, il dummy tank prese rapidamente piede presso gli eserciti di ogni nazione e vide il suo uso consolidarsi durante il secondo conflitto bellico mondiale, anche nella forma inversa di carro armato mimetizzato come semplice camion. È a tutt’oggi un espediente utilizzato dalle forze armate di tutto il mondo.

La strategia del bluff di cui il dummy tank si fa simbolo non è esente da implicazioni manageriali. Spesso, soprattutto nel campo del marketing, saper bluffare rappresenta una competenza cruciale per rivolgersi al mercato con il giusto tempismo. Per trovare esempi di questa condotta non è necessario scavare troppo indietro nel tempo né pensare ad aziende misconosciute. È sufficiente tornare al 9 gennaio 2007, giorno in cui sul palco del Moscone Center di San Francisco, Steve Jobs presentò la più recente novità Apple, cioè l’iPhone. Non molti sono a conoscenza del fatto, descritto in un articolo del «New York Times» di qualche tempo fa, che il lancio di questo prodotto rappresentò un azzardo condotto dall’allora CEO di Apple. Nelle sue mani, durante lo speech di presentazione, c’era un prototipo che era poco più di un bluff, un”dummy tank” credibile quanto al suo guscio ma con gravi problemi hardware e software. Ciononostante, un progetto durato lunghi anni e costato circa 150 milioni di dollari meritava di essere sostenuto con un’audace scommessa. L’aspettativa generata dalle parole di Jobs necessitò di essere sostenuta dall’alacre lavoro del team di tecnici Apple, che dovettero lavorare duramente per far sì che l’iPhone giungesse al mercato con caratteristiche all’altezza di quanto il suo pubblico era ormai tenuto ad aspettarsi.

Di nuovo in tema di relazioni tra business e arte del bluff, un recente articolo di «Fast Company» ha chiamato in causa il gioco del poker come ispirazione per strategie da giocare nel mondo del lavoro. Pare che l’ampia manualistica dedicata a questo gioco d’azzardo rientri fra le letture preferite dai giovani imprenditori della Silicon Valley, che si ispirano agli insegnamenti di giocatori come Phil Hellmuth Jr., nove volte campione mondiale di poker. Il suo principale consiglio? Bluffare è una vera e propria strategia, non una scappatoia. Per questo va affrontato in maniera ponderata, utilizzando economia di mezzi, attenzione al contesto e una giusta dose di pazienza.

[ illustrazione: dummy tank utilizzato dall’esercito americano durante la seconda guerra mondiale ]