FOTOGRAFIA, LAVORO

Estetica dell’ufficio

La rappresentazione dell’ufficio contemporaneo nell’immaginario collettivo sembra essersi cristallizzata in una “time capsule” compresa fra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei primi 2000. La sua iconografia è caratterizzata da una cornice ironica e grottesca, tipicamente americana, il cui esempio perfetto è la striscia Dilbert prodotta dal fumettista Scott Adams dal 1989. Estratti da un fumetto sembrano anche i personaggi del film Office Space (1999) di Mike Judge (che, a proposito di cartoon, è creatore anche di Beavis and Butt-head) e, forse ancor di più, quelli del The Office ideato dal comico inglese Ricky Gervais, non tanto nella serie britannica del 2001 quanto nel remake americano del 2005.

Al pari del fumetto e del cinema, anche la fotografia si è occupata dell’ufficio contemporaneo, proseguendo lungo un filone di documentazione di ambienti e scene di lavoro che trova illustri predecessori, fra gli altri, in Walker Evans, Lee Friedlander o Chauncey Hare. Fra gli artisti attivi fra gli anni ’80 e 2000 spiccano tre fotografi appartenenti all’ultima generazione di “baby-boomer”: lo svedese Lars Tunbjork (1956- 2015), la britannica Anna Fox (1961) e l’americano Steven Ahlgren (1962).  Di quest’ultimo si può sfogliare il libro The Office (2022), raccolta di immagini prese fra il 1990 e il 2001.

Proprio come negli esempi cinematografici citati, anche la fotografia porta con sé un’ispirazione fumettistica, evidente soprattutto nello sguardo ironico sempre presente nelle immagini. Ma vi è di più: la natura del medium fotografico lascia spazio a una seconda prospettiva, più emotiva e malinconica, a tratti fors’anche tragica. Ahlgren stesso la riconduce, nelle righe di introduzione al volume, alla pittura di Edward Hopper (1882-1967) e in particolare all’opera Office at Night del 1949 (del resto spesso utilizzata come copertina per saggi e romanzi di tematica inerente al lavoro). Le parole di Ahlgren sono eloquenti:

I was struck by the Hopper painting – oh my gosh, look at this. Here’s a scene in an office where I am every day that seems so pedestrian. I kept coming back to it because, like so many of his paintings, it lets you make up your own story. I was trying to figure it out but I never really resolved in my mind what was happening there.

The OfficeLa nota di Ahlgren aiuta a evidenziare una delle caratteristiche più preziose della fotografia: la sua ambiguità. Il continuo chiedersi “che cosa sta succedendo là” è un’esercizio di osservazione e interpretazione cui ogni  buona fotografia, in quanto portatrice di una mistura di oggettività e mistero, conduce l’osservatore. In questo senso, per quanto l’estetica dell’ufficio possa apparire a tratti eccessivamente simbolica e stereotipata e, come notato nelle prime righe, in qualche modo “bloccata” nel ventennio 1990-2000, sfogliare le immagini di Steven Ahlgren porta soprattutto, ancora più che a sorridere, a porsi domande sulla nostra ambivalente relazione con il lavoro.

[ Illustrazione: fotografia dal libro The Office di Steven Ahlgren (2022) ]

LAVORO, POLITICA, SOCIETÀ, TEMPO

Dell’inciviltà della massa

Rileggere un testo a oltre novant’anni dalla sua scrittura e trovarvi elementi di attualità può restituire sensazioni ambivalenti; difficile disgiungere la sorpresa dalla preoccupazione, soprattutto se ci si confronta con uno dei primi libri ad aver trattato della cultura di massa, contribuendo a dar forma alla sua lettura critica sviluppatasi nel secondo novecento: La ribellione delle masse è il saggio che José Ortega Y Gasset (1883-1955) scrive nel 1930, analizzando aspetti della società di massa in Europa che non potevano che allarmarlo (e a ragione, dati i venti di guerra che da lì a poco avrebbero ripreso a soffiare). All’autore sta a cuore riflettere sulla società e sul ruolo disgregante assunto dalle nuove strutture statali basate sulla burocratizzazione e sulla violenza, ben rappresentata dall’aumento delle forze di polizia.

Rispetto al raffronto con il presente, a colpire è soprattutto è la descrizione di una nuova massa che dalle generazioni precedenti ha ricevuto in dono le sicurezze della civiltà – intesa come onerosa costruzione della coesistenza sociale – e le dà per scontate, come una eredità dovuta nei confronti della quale non nutre gratitudine ma supponenza. L’uomo nuovo descritto da Ortega Y Gasset ha la presunzione di sentirsi “come tutto il mondo”, senza darsene pensiero. La mancanza di responsabilità è la sua natura; la barbarie la condotta tramite cui attua la “ribellione” che dà titolo il libro:

Interverrà dovunque, imponendo la sua volgare opinione, senza miraggi, senza contemplazioni, senza tramiti né riserve, vale a dire, secondo un regime di “azione diretta”.

In tema di barbarie, per Ortega Y Gasset è cruciale l’intersezione con lo sviluppo delle scienze, informato dalla meccanizzazione. L’uomo-massa è un “saggio ignorante”, forte delle sue conoscenze parcellizzate ma del tutto all’oscuro dei saperi che la sua specializzazione non esplora, verso i quali si pone tuttavia con la petulanza di chi sa di sapere.

Impossibile non pensare non solo alle parole di George Bernard Shaw sull’ignoranza degli specialisti, ma soprattutto a quanto accaduto nei decenni successivi, in termini di fenomeni ambivalenti come l’alfabetizzazione di massa e il prevalere della cultura lavorativa di stampo “aziendale”, che hanno portato con sé conseguenze che oggi vediamo sviluppate nelle loro tristi derive: burocratizzazione di ogni ambito sociale; discredito dei saperi tradizionali e relativizzazione dei valori civili, rimozione del lato ideale dalla sfera politica. Ecco perché leggere un libro di oltre  novant’anni fa continua a restare molto prezioso per comprendere l’oggi.

[ Illustrazione: particolare da Metropolis di George Grosz, 1916-17, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid ]

APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, IRONIA, LAVORO, SCUOLA, TECNOLOGIA

Apprendimento a distanza: ecco perché non è proprio una novità

Da qualche tempo si parla moltissimo di MOOC, Massive Open Online Courses, cioè corsi para-universitari on-line cui chiunque può accedere gratuitamente. Le più note istituzioni a offrirli sono le americane Khan Academy e Coursera, la seconda delle quali ospita anche alcuni corsi sperimentali delle università italiane Sapienza e Bocconi.

I MOOC sono una delle più aggiornate declinazioni dell’apprendimento via web (o, per usare un altro acronimo, della FAD, Formazione A Distanza). Il giornalista americano Thomas Friedman ha descritto i MOOC come una “rivoluzione nell’educazione universitaria”, mentre il guru della disruptive innovation Clayton Christensen è giunto a predire che causeranno l’imminente bancarotta delle università tradizionali. Che l’istruzione universitaria si trovi in uno stato di inadeguatezza tale da motivare una sua ristrutturazione è fuor di dubbio. Pensare che sia possibile attuarla abbandonando le aule e affidandosi al solo apprendimento a distanza è non solo demagogico e velleitario ma, molto più semplicemente, sbagliato. Un simile discorso vale, mutatis mutandis, per la formazione post-universitaria e lavorativa.

Per riflettere sull’insostituibilità dell’imparare in presenza – di cui è da sempre alleato quel fantastico strumento di “apprendimento a distanza” che si chiama libro – è utile confrontarsi con un articolo dello studioso di tecnologie Nicholas Carr. Dall’ironico testo emerge come l’idea di una rivoluzione educativa legata agli strumenti della formazione a distanza sia un miraggio di cui l’entusiasmo per le nuove tecnologie ci porta ciclicamente a essere vittime.

L’indagine può partire dal 1878 e dalla nascita del fonografo: un entusiastico articolo del «New York Times» vide nell’opportunità di registrare e riascoltare lezioni la prefigurazione di una scuola “interamente condotta da macchine”. Le registrazioni audio sono certo diventate un prezioso ausilio per percorsi di apprendimento di vario tipo (basti pensare allo studio delle lingue straniere), ma per fortuna nessuna macchina parlante ha mai sostituito gli insegnanti in carne e ossa. Passando al 1885, il docente di Yale William Rainey Harper si fece propugnatore di un insegnamento “per posta” che avrebbe sostituito le normali scuole e università. In questo caso, l’insegnamento per corrispondenza ha avuto nel corso degli anni un discreto successo, ma nessun diploma di questo tipo può essere minimamente comparato nei suoi esiti a quello di una vera università.

Nel 1913 Thomas Edison dichiarò che il cinema avrebbe “completamente cambiato l’istruzione nell’arco di 10 anni”. Così non è stato: il più concreto esperimento volto in questa direzione, quello dei “cinegiornali”, si è avvicinato molto più alla propaganda che non all’educazione. Un simile discorso vale per la radio (nel 1927 l’Università dello Iowa immaginò che essa avrebbe reso la scuola completamente diversa) e per la televisione, da cui tra gli anni ’50 e ’60 ci si aspettava una rivoluzione in chiave educativa che non ha mai realmente avuto luogo (su questo tema utile ricordare le riflessioni di Neil Postman e Carlo Freccero).

Nel 1984, anno di lancio del Macintosh, lo studioso del MIT Seymour Papert affermò che i computer avrebbero fatto “esplodere” la scuola. Per comprendere come non sia stato così, è sufficiente guardare agli alterni risultati delle lavagne interattive multimediali (LIM) nelle nostre scuole. Poco ha aggiunto lo sviluppo di quanto oggi si etichetta come web 1.0, prefigurato in un articolo del «Times» di fine anni ’90 come la killer application in ambito educativo, sia per le università che per le imprese. Internet non ci ha certo resi più bravi ad apprendere: la stessa Wikipedia funziona il più delle volte come un semplice sostituto dei “bigini” che erano in voga prima dell’era di internet, con un tema di attendibilità dei contenuti spesso controverso. Su questa linea si iscrivono anche i più recenti sviluppi del web 2.0, che conducono direttamente ai MOOC.

In somma: dal 1878 a oggi (e forse si potrebbe andare ancora più a ritroso di quanto fatto da Carr), le innovazioni improntate alla formazione a distanza sono state innumerevoli, in molti casi accompagnate da buoni successi economici per i loro sostenitori. Per quanto riguarda la messa in luce di un riconoscibile valore legato all’apprendimento, gli esempi passati in rassegna mostrano di essere tutt’altro che rivoluzionari.

[ illustrazione: l’inventore americano Hugo Gernsback indossa un paio di “television eyeglasses”, 1963 ]

CONCETTI, LAVORO, METAFORE, PAROLE, SOCIETÀ

Sbarcare il lunario

In tempi di crisi, “sbarcare il lunario” è espressione fin troppo utilizzata. Ma cosa significa e come nasce?

Partiamo dalla parola “lunario”: si tratta di un almanacco, simile al calendario ma arricchito da informazioni relative a fenomeni celesti ed eventi di varia natura. Nasce nel tardo Medioevo come strumento principalmente rivolto ad agricoltori e naviganti, per i quali tenere sotto controllo i cicli climatici stagionali era particolarmente utile. Con l’invenzione della stampa, il lunario trova diffusione di massa e si sviluppa assecondando interessi e peculiarità nazionali. Celeberrimo in Francia fu l’almanacco di Nostradamus (1503-1566), pubblicato nel 1550 e ricco di “previsioni” da molti ancora oggi tenute in alta considerazione. Primo lunario a stampa italiano fu l’Almanacco di Barbanera, nato a Foligno nel 1762 e tuttora in produzione. Dato il suo riferimenti alle fasi lunari e dunque alle mensilità, il termine “lunario” entra ben presto in uso comune come sinonimo del periodo di dodici mesi dell’anno.

Più semplice il discorso sullo “sbarcare”, verbo normalmente riferito al comune e auspicato esito di tragitti marittimi. Assumendo come metafora la navigazione in acque sommosse e tempestose, ecco che “sbarcare il lunario” giunge a indicare il periglio e la fatica di riuscire a giungere sani e salvi – con un’interpretazione prettamente legata alle risorse economiche – al termine di ogni mese e finalmente alla conclusione d’anno.

Secondo la Treccani, l’espressione inizia a fare la sua comparsa nella lingua scritta nel corso dell’Ottocento. Alcuni versi del poeta toscano Giuseppe Giusti (1809-1850) recitano:

«Si rassegna, si tien corto, / colla rendita d’un orto / sbarca il suo lunario».

Per citare un altro poeta toscano, Giosuè Carducci (1835-1907) scrive in una lettera del 1869 al proprio editore lamentandosi così:

«Mi conviene far conto anche di queste minuzie, per isbarcare mese per mese alla meglio il mio lunario».

[ illustrazione: Almanacco di Barbanera, 1762 ]

ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, IRONIA, LAVORO, METAFORE, SOCIETÀ

Chi ha paura della barba manageriale?

È probabile siano in molti ad aver notato sul volto di Sergey Brin, co-fondatore di Google, lo spuntare di una barba; quasi certo è che Stephen Mihn, collaboratore del «New York Times», sia il solo ad aver pensato di tratteggiare un’analisi manageriale ispirata a questa emergenza pilifera.

Assecondando il punto di vista di Mihn, la storia degli intrecci fra capitale e irsutismo facciale può essere riassunta da un’opposizione binaria: quando a primeggiare è l’idiosincratica affermazione imprenditoriale del singolo, le barbe germogliano; nei periodi in cui il mercato impone la lingua spersonalizzata e inglobante delle corporation, sono invece schiuma e rasoio a dettar legge.

Per gran parte dell’età moderna, i rappresentanti di spicco del mondo economico – tanto in Europa quanto negli USA – hanno dato prova di avere a cuore un volto ben rasato. Attorno alla prima metà dell’800, questo trend è stato ulteriormente rafforzato dalle scelte estetiche dell’élite intellettuale socialista: le barbe di Marx ed Engels si sono rapidamente imposte come simbolo della lotta al capitalismo, spingendo chi stava dall’altra parte della barricata, terrorizzato, ad ancor più frequenti visite al barbiere di fiducia.

I moti nazionali del 1848 in Europa, così come la guerra civile in terra americana, segnarono un’inversione di rotta, associando i peli facciali all’affermazione di un patriottico e borghese senso di mascolinità. In seguito a questo rivolgimento sociale, la barba diventa tratto essenziale della classe capitalista. Titanici uomini d’impresa come Andrew Carnegie o Henry Clay Frick – peraltro passato alla storia come “peggior amministratore delegato di sempre” – fecero della loro barba larger than life un amuleto di individualismo e dominio sul mercato.

Le cose cambiarono di nuovo a fine ‘800: la ribellione della forza lavoro mondiale generò leader operai contraddistinti da lunghe, spettinate barbe. Il vello facciale tornò a spaventare il capitalismo, che non poté fare a meno di riprendere a rasarsi con cura (in suo aiuto giunse, nel 1901, il primo rasoio di sicurezza Gillette). Negli corso del Novecento barba e baffi sparirono, lasciando campo al dominio del liscio, inespressivo volto del dirigente delle grandi multinazionali.

Negli anni 2000, la barba appare priva di particolari connotazioni ideologiche e non spaventa più nessuno. Ecco perché sembra così adatta – al netto della moda hipster, secondo molti ormai in calo – per il volto del capitalismo geek rappresentato da Sergey Brin.

[ illustrazione: Robert Taylor, Dictionary of Beards,  2010 ]

ANTROPOLOGIA, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, MARKETING

Il teorema del caffè: domanda e offerta in tempi di crisi

Qualche anno fa in internet era molto popolare un video sulle differenze culturali realizzato da Bruno Bozzetto e intitolato “caffè”. Il divertente clip metteva in luce, a fronte della semplice richiesta di caffè di un generico cittadino europeo, le miriadi di sfaccettature che un italiano è in grado di ideare per soddisfare il suo bisogno di caffeina. Fra un “macchiato caldo ristretto” e un “americano decaffeinato in tazza grande (con acqua a parte)” esiste un universo di possibilità che solo la nostra nazione è in grado di esplorare, comprendere e apprezzare. Pensando forse a questo clip – nonché alla celeberrima scena di Totò e Peppino in Totò e la banda degli onesti (1956), il consulente e docente universitario Paolo Iacci pubblica oggi un piccolo libro che si intitola Il teorema del caffè. Il paradosso che regola l’impresa (2014).

Se è vero che, in una società caratterizzata da un grado di sviluppo maturo e “sofisticato”, i bisogni tendono a divenire sempre più personalizzati ed elevati (ovviamente in relazione alle disponibilità economiche di ciascuno), questo fenomeno è soggetto in tempi di crisi a un ulteriore sviluppo. Secondo il “teorema” elaborato da Iacci, quanto ha luogo è una ulteriore crescita, pur in scarsità di risorse, delle richieste di originalità, innovazione e individualizzazione. In aggiunta a ciò, l’effetto della concorrenza – e del reciproco ritrovarsi in una situazione in cui vige l’ormai classico “fare di più con meno” – alza ulteriormente la posta in gioco, generando un’offerta ancora più ricca ed esclusiva. Il paradosso del “teorema del caffè” ci dice quindi che, lungi dall’accontentarsi di poco, in tempi di crisi i consumatori diventano ancor più selettivi ed esigenti. Non è solo un tema di qualità vs quantità, ma più in generale della ricerca di prodotti e servizi in grado di affermare uno status di “benessere” anche – e forse soprattutto – in tempi di crisi. Le imprese sono obbligate a tener conto del “teorema” e, conclude Iacci, a organizzare anche le proprie risorse interne per farvi fronte.

[ illustrazione: fotogramma dal film Totò e la banda degli onesti di Camillo Mastrocinque, 1956 ]

CINEMA, LAVORO

Riconquistare l’umanità del lavoro: Due giorni, una notte di Luc e Jean-Pierre Dardenne

La storia di Sandra è quanto mai semplice: al rientro da un periodo di malattia, l’accoglienza è quella di una cruda riorganizzazione lavorativa. Le attività della fabbrica sono state ridistribuite tra i colleghi, che riceveranno un bonus di 1000€ a patto che Sandra venga licenziata. Il verdetto spetta a loro. Chiamati a votare, scelgono il bonus. La scelta pare tuttavia essere stata influenzata da pressioni interne, motivo per cui una collega di Sandra riesce a invocare una nuova votazione. Qui parte l’odissea della protagonista: avrà due giorni e una notte per convincere i colleghi a votare per la sua permanenza in azienda.

Due giorni, una notte (2014), girato con il consueto stile asciutto e dimesso dei fratelli Dardenne, parla in modo diretto di uno dei temi più esposti e al tempo stesso “intoccabili” del mondo del lavoro, vale a dire la spersonalizzazione delle dinamiche di relazione. Ogni sequenza del film trabocca dell’ipocrisia e della violenza che continuamente rendono ardua, in milioni di luoghi di lavoro ogni giorno, la sintesi fra egoismo e solidarietà, fra rabbia e senso di pietà chiamata in causa dalla messa in discussione delle certezze base di un’occupazione lavorativa. Di fronte alla battaglia per l’occupazione o per un salario più alto, nessun punto di vista è semplicemente “giusto”. Nemmeno quello di Sandra, costretta ad affrontare una lotta anzitutto contro se stessa che potrà infine, forse – questo lo scoprirà lo spettatore al cinema – , condurla a trovare un’opportunità di riconciliazione con una comunità lavorativa infranta.

[ illustrazione: fotogramma da Due giorni, una notte (2014) di Luc e Jean-Pierre Dardenne ]

DECISIONE, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, MARKETING, METAFORE

Il bluff come strategia manageriale

Durante la prima guerra mondiale, le forze degli Alleati escogitarono un modo per contrastare gli Imperi Centrali che non implicava l’uso della forza bruta ma dell’ingegno. Nacquero così i cosiddetti “dummy tank”, vale a dire falsi carri armati realizzati con strutture in legno coperte da teli dipinti per simulare l’aspetto dei mezzi originali. I dummy tank vennero utilizzati per ingannare le flotte aeree nemiche, mostrando loro forze di terra particolarmente numerose, ma solo in apparenza. Sorta di cavallo di Troia alla rovescia, il dummy tank prese rapidamente piede presso gli eserciti di ogni nazione e vide il suo uso consolidarsi durante il secondo conflitto bellico mondiale, anche nella forma inversa di carro armato mimetizzato come semplice camion. È a tutt’oggi un espediente utilizzato dalle forze armate di tutto il mondo.

La strategia del bluff di cui il dummy tank si fa simbolo non è esente da implicazioni manageriali. Spesso, soprattutto nel campo del marketing, saper bluffare rappresenta una competenza cruciale per rivolgersi al mercato con il giusto tempismo. Per trovare esempi di questa condotta non è necessario scavare troppo indietro nel tempo né pensare ad aziende misconosciute. È sufficiente tornare al 9 gennaio 2007, giorno in cui sul palco del Moscone Center di San Francisco, Steve Jobs presentò la più recente novità Apple, cioè l’iPhone. Non molti sono a conoscenza del fatto, descritto in un articolo del «New York Times» di qualche tempo fa, che il lancio di questo prodotto rappresentò un azzardo condotto dall’allora CEO di Apple. Nelle sue mani, durante lo speech di presentazione, c’era un prototipo che era poco più di un bluff, un”dummy tank” credibile quanto al suo guscio ma con gravi problemi hardware e software. Ciononostante, un progetto durato lunghi anni e costato circa 150 milioni di dollari meritava di essere sostenuto con un’audace scommessa. L’aspettativa generata dalle parole di Jobs necessitò di essere sostenuta dall’alacre lavoro del team di tecnici Apple, che dovettero lavorare duramente per far sì che l’iPhone giungesse al mercato con caratteristiche all’altezza di quanto il suo pubblico era ormai tenuto ad aspettarsi.

Di nuovo in tema di relazioni tra business e arte del bluff, un recente articolo di «Fast Company» ha chiamato in causa il gioco del poker come ispirazione per strategie da giocare nel mondo del lavoro. Pare che l’ampia manualistica dedicata a questo gioco d’azzardo rientri fra le letture preferite dai giovani imprenditori della Silicon Valley, che si ispirano agli insegnamenti di giocatori come Phil Hellmuth Jr., nove volte campione mondiale di poker. Il suo principale consiglio? Bluffare è una vera e propria strategia, non una scappatoia. Per questo va affrontato in maniera ponderata, utilizzando economia di mezzi, attenzione al contesto e una giusta dose di pazienza.

[ illustrazione: dummy tank utilizzato dall’esercito americano durante la seconda guerra mondiale ]

ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, COLLABORAZIONE, COMUNICAZIONE, LAVORO, MOBILITÀ, PERCEZIONE, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

Cosa perdiamo quando guadagniamo tempo grazie alla tecnologia?

Con Diario d’antepace (1950) lo scrittore svizzero Max Frisch ha composto un’eterogenea raccolta di note di viaggio, abbozzi letterari, pensieri sulla natura umana. Molte osservazioni contenute nel libro riguardano il ruolo assunto dalla tecnica nel mutare la nostra percezione delle distanze spaziali e temporali. Pensando all’oggi, è senz’altro facile allinearsi al coro di quanti sostengono che i più moderni mezzi di comunicazione connettono “annullando le distanze”. È d’altro canto innegabile che tutti noi facciamo quotidiana esperienza della fredda e impersonale relazione instaurata, tanto in ambito lavorativo quanto personale, da strumenti come le e-mail. Più di sessant’anni fa, Frisch riconosceva con profonda lungimiranza questo fenomeno, notando come:

«Non sappiamo più prendere sul serio delle persone quando non le abbiamo più a portata dei nostri occhi».

In tema di tecnica e annullamento delle distanze, uno dei passaggi più acuti del testo di Frisch è dedicato alle indesiderate conseguenze dell’innovazione legata ai mezzi di traporto e, nello specifico, al treno. In tempi in cui un viaggio Roma-Milano necessita ormai meno di tre ore, è  il caso di chiedersi se guadagnando tempo perdiamo forse qualcosa:

«Esattamente cent’anni or sono, la prima ferrovia attraversava il nostro paese: trenta chilometri all’ora. È chiaro che non ci si poteva fermare lì. Il segno che abbiamo superato il nostro ritmo è nel disappunto che proviamo ogni volta che una macchina ci sorpassa; è vero che noi stessi corriamo a tale velocità che la mia percezione della realtà non ce la fa più a tenerle dietro; ma nella speranza di raggiungere un’esperienza perduta, acceleriamo ancora. È la promessa diabolica che ci attira sempre più verso il vuoto. Neanche un aereo a reazione raggiungerà il nostro cuore. Esiste, sembra, una misura umana che non possiamo modificare, ma solo perdere. Che l’abbiamo perduta, è fuor di dubbio; il problema è ora questo: possiamo riacquistarla e come?».

[ illustrazione: particolare da Il treno di Fortunato Depero, 1926 ]

APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, UFFICI

Corsi e ricorsi della flessibilità lavorativa, da Keynes a Richard Branson

I costumi manageriali si prestano ad analisi che possono rispondere, a seconda delle preferenze, a un’interpretazione evolutiva oppure ciclica. Un tema che ben si adatta a entrambe le chiavi di lettura è quello del work / life balance. Dall’introduzione delle otto ore lavorative alle keynesiane Possibilità economiche per i nostri nipoti, fino a giungere ai più contemporanei dibattiti sullo smart working, il tema affiora dal dibattito manageriale con periodica regolarità.

Il caso più recente è quello di Carlos Slim, magnate delle telecomunicazioni messicane – e uno degli uomini più ricchi del mondo – che propone, ispirandosi a Larry Page di Google, un modello lavorativo basato su tre giorni di lavoro alla settimana. Subito gli fa eco la Virgin di Richard Branson, che inizia ad applicare in GB e negli USA una politica di orario settimanale che concede più libertà ai propri addetti. Grande entusiasmo, ma funzionerà? Un esempio tratto dal recente passato può aiutare a considerare il tutto con la giusta prospettiva.

A partire dal 2003 Best Buy, il più grande rivenditore al dettaglio di elettronica di consumo negli Stati Uniti, è stato teatro di una piccola rivoluzione nel segno della flessibilità lavorativa. Ne sono state autrici due addette del settore HR dell’azienda, Cali Ressler and Jody Thompson. Grazie alla loro iniziativa, un nuovo vocabolo è entrato nel lessico aziendale: ROWE, acronimo di Results-Only Work Environment. Portando alle estreme conseguenze i principi base del lavoro per obiettivi, Ressler e Thompson hanno formulato una risposta a una domanda ricorrente in qualsiasi organizzazione: cosa accadrebbe se gli impiegati potessero lavorare come meglio credono sugli obiettivi loro assegnati?

Una maggiore libertà operativa nel raggiungimento dei risultati attesi ha un’immediata implicazione, vale a dire la possibilità di svincolare il lavoro dall’asfissiante – e poco efficiente – logica della presenza. L’unico modo per applicare con successo il ROWE è basare le relazioni lavorative sulla fiducia: un manager deve gestire il lavoro, non le persone; queste ultime, da parte loro, devono dar prova di una matura assunzione di responsabilità. Tutto ciò è stato formalizzato da Ressler e Thompson nel testo Perché il lavoro fa schifo e come migliorarlo (2008).

Il modello ROWE è stato applicato in Best Buy con successo per alcuni anni, passando al vaglio delle analisi accademiche e, soprattutto, registrando tassi di produttività direttamente proporzionali al calo del turnover. E sul lungo periodo? A distanza di dieci anni, con l’arrivo di un nuovo CEO – e grosso modo in parallelo con le impopolari scelte anti-telelavoro della Yahoo di Marissa Mayer – Best Buy è tornata alla più classica delle applicazioni del lavoro in presenza. Corsi e ricorsi delle mode manageriali.

[ illustrazione: fotogramma da Office Space di Mike Judge, 1999 ]