ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, FILOSOFIA, TECNOLOGIA

La vita dopo la morte? Una scommessa tecnologica

Secondo il paradosso di Moravec (di cui si è già parlato qui), l’intelligenza artificiale non potrà mai superare quella umana per un fondamentale, forse controintuitivo motivo: i computer sanno svolgere calcoli altamente complessi molto meglio di noi ma non sono in grado di simulare le nostre abilità percettive e motorie più basiche. Quanto un neonato padroneggia a un anno è semplicemente inarrivabile per qualsiasi cervello elettronico. Eppure vi sono molte persone (prevalentemente americane, facoltose e di carnagione bianca) convinte che l’intelligenza artificiale presto supererà quella umana e che grazie a essa potremo trascendere i limiti della nostra esistenza, financo quello della morte. Si definiscono “transumanisti” e a loro l’irlandese Mark O’Connell ha dedicato il libro-reportage Essere una macchina (2018).

Uno degli aspetti più interessanti del testo è la progressiva messa in luce, racconto dopo racconto, della prospettiva fideistica propria del transumanesimo: non soltanto le modalità di affiliazione e aggregazione dei suoi seguaci tendono a farli somigliare a ordini religiosi e sette; l’afflato che anima le loro argomentazioni si avvicina spesso, come O’Connell non manca di notare, allo spirito delle più classiche “prove ontologiche”.  Dialogando con il responsabile di un lucroso business incentrato sulla crio-conservazione di corpi defunti – in attesa di un futuro in cui i transumanisti contano diventi tecnologicamente possibile rianimarli – O’Connell si sente ripetere un argomento chiave per i transumanisti: “vale la pena di provare”. Impossibile non pensare, ponendosi molte domande sulla ridefinizione del concetto e delle pratiche di fede, alla celebre “scommessa” elaborata da Blaise Pascal nei suoi Pensieri:

Se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare.

[ Illustrazione: fotogramma dal film Ex Machina di Alex Garland, 2015 ]

CAMBIAMENTO, EMPATIA, LETTURA, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

Riscoprire l’empatia grazie ai libri

Dopo Proust e il Calamaro del 2008, la studiosa americana Maryanne Wolf torna a occuparsi di cervello e lettura in Lettore, vieni a casa (2018). Il testo affronta un tema che, con un po’ di retorica, può definirsi “scottante”: in che maniera le nuove abitudini di lettura rapida e superficiale indotte dai media digitali stanno cambiando il modo in cui pensiamo e ragioniamo?

Davanti agli occhi di un adulto medio scorre ogni giorno una media di 34 gb di dati (corrispondenti a 100.000 parole). Questa bulimia di dati si accompagna – in ragione del cosiddetto skimming, la lettura veloce con cui processiamo i testi su schermo –  a una soglia di attenzione non superiore ai cinque minuti, circa la metà rispetto a dieci anni fa. L’abbassamento dell’attenzione non riguarda solo ciò che si fa davanti a un computer, ma porta con sé una drastica diminuzione delle capacità critiche: riceviamo nuove informazioni in modo passivo, senza sforzo di rielaborazione e, soprattutto, senza un approccio critico. Questa mancanza di profondità genera un humus assai fertile per le fake news e per tutti gli utilizzi manipolatori di informazioni con cui chi frequenta i social network – ma ormai anche canali informativi istituzionali – è suo malgrado molto familiare.

Leggere su carta e confrontarsi con prose ricche e complesse rappresenta un potentissimo antidoto a tutto questo. Non a caso, Maryanne Wolf parla di un “ritorno a casa” del lettore. Si tratta di rieducare la propria capacità di immergersi in una lettura concentrata e profonda, recuperando quanto stiamo rischiando di perdere trascorrendo la maggior parte del nostro tempo appiccicati a schermi digitali. L’autrice non si limita a “fare teoria”, ma parla in prima persona: dopo essersi resa conto che le sue capacità di lettrice critica si stavano affievolendo a causa della lettura veloce indotta dal web, si è sottoposta a una “rieducazione” di due settimane in compagnia de Il giuoco delle perle di vetro (1943) di Herman Hesse. Il risultato? La sensazione di un cervello di nuovo brillante.

La riconquista più preziosa fra quelle offerte dalla lettura “profonda” riguarda l’empatia, capacità relazionale fondamentale al nostro essere umani che la rapidità e la mancanza di approfondimento del quotidiano ci stanno facendo sempre più pericolosamente smarrire. Una indagine della Stanford University sostiene che dagli anni ’80 ai prima 2000 l’empatia delle generazioni più giovani sia calata del venti per cento. Si tratta di un’evidenza di certo discutibile, che tuttavia trova conferma nel clima sociale e politico dell’occidente “civilizzato”, caratterizzato nei migliori casi da isolazionismo e incomprensione, nei peggiori da razzismo e odio per il diverso. Di nuovo, un possibile antidoto sta nei libri e in particolare nei romanzi, capaci più di ogni altro medium di aiutaci a costruire un confronto consapevole con opinioni, vite e mondi diversi dai nostri.

[ Illustrazione: fotografia di André Kertész dal libri On Reading (1971) ]

CAMBIAMENTO, COMPLESSITÀ, ECONOMIA, POLITICA, SOCIETÀ

Crisi che passano

Fra il 1920 e il 1921 gli Stati Uniti furono colpiti da una crisi economica che causò un crollo del PIL del 24%. Se confrontata con la Grande Depressione, che sarebbe esplosa solo pochi anni dopo, quella del 1920 risulta una crisi “minore”, oggi nota quasi solo agli esperti del settore. Fra questi figura lo studioso americano James Grant, che vi ha dedicato il testo The Forgotten Depression: 1921: The Crash That Cured Itself (2014), in cui analizza lo svolgimento e i possibili punti di contatto fra la recessione del 1920 e quella del 2007.

La conclusione della Grande Guerra presentò agli USA un conto vittorioso ma salato, che portò rapidamente alla crisi: la disoccupazione raggiunse quota 15%, i prezzi all’ingrosso calarono del 36% e quelli al consumo del 20%. Con la progressiva deflazione, i prezzi continuarono a scendere progressivamente fino a raggiungere, in tempi relativamente brevi, un livello che ricominciò ad attirare gli acquirenti. Alla fine del 1921, l’economia riprese a crescere.

La ricerca di Grant aiuta a porsi qualche dubbio in tema di condotte statali interventiste. Come notato da un articolo del 01.02.15 pubblicato sul Domenicale de «Il Sole 24 Ore» e significativamente intitolato “I benefici dell’instabilità”, quando lo Stato attua una politica non interventista, gli scossoni economici possono essere forti. Tuttavia, l’instabilità può favorire una flessibile e spesso rapida ripresa. Non a caso, la stessa crisi del 1920-1921 fu molto più grave in Inghilterra che negli USA, a causa di una sovrastrutturazione sindacale e di una politica esplicitamente interventista attuata dal governo inglese. Per lo stesso motivo, la crisi del ’29 fu anche in America molto più pesante di quella del 1920, perché in questo secondo caso il sistema dei prezzi non venne lasciato libero di funzionare. Tutto ciò suona come un campanello di attenzione rivolto alle politiche a priori avverse a qualsiasi dinamica di deflazione.

[ illustrazione: Caspar David Friedrich, Il mare di ghiaccio, 1823-1824 ]

CAMBIAMENTO, CITTÀ, CULTURA, INDUSTRIA, MOBILITÀ, SOCIETÀ

Ecco come le strisce pedonali sono state (quasi) inventate dall’industria automobilistica

Il codice della strada italiano, così come quello di molte altre nazioni, prevede che chi attraversa fuori dalle strisce pedonali sia punito con una sanzione. In contesto americano, esiste addirittura una parola pensata per stigmatizzare questo comportamento: jaywalking, dove il termine jay sta a indicare chi è “campagnolo” e dunque, si suppone, sprovveduto rispetto alle norme di viabilità cittadina.

Il concetto di jaywalking aggiunge al dettato della legge un livello di riprovazione “morale”che assoggetta la libertà di passeggiare per strada alla regola imposta dal traffico automobilistico. Ma non è sempre stato così: la disamina storica di un articolo di «Vox» permette di risalire alle origini di un radicale cambiamento nella relazione fra città e cittadini.

Fino agli anni ’20 del Novecento, negli USA la segnaletica stradale rivolta ai pedoni era, pur presente, considerata poco più che un suggerimento di buona condotta. Ma con la progressiva diffusione del numero di automobili in circolazione, il tasso di incidenti mortali salì drammaticamente, arrivando a raddoppiare tra il 1917 e il 1923, anno in cui negli USA si registrarono oltre 16000 decessi causati dal traffico urbano.

A fronte di questi dati, nel 1923 il comune di Cincinnati propose di limitare la velocità delle automobili nei centri cittadini a 37km/h. La proposta comunale terrorizzò l’industria automobilistica, che passò al contrattacco con una campagna volta a creare complicità con i proprietari di automobili. La campagna riuscì nell’intento, decretando il fallimento del tentativo di regolamentazione proposto da Cincinnati.

A questo punto produttori, venditori ed entusiasti dell’automobile pensarono bene di coalizzarsi per far valere il proprio punto di vista sul piano legale, fino a giungere nel 1928 a propiziare l’approvazione – controfirmata dall’allora Presidente americano Herbert Hoover – di un’ordinanza municipale atta a regolamentare (ed eventualmente sanzionare) il flusso dei pedoni. L’ordinanza, basata sulla disciplina imposta ai pedoni da semafori e strisce pedonali, si diffuse in tutti gli USA e fu successivamente imitata da altre nazioni.

La nuova legge fu accompagnata negli ultimi anni ’20 e nei primi ’30 da una propaganda volta a ridicolizzare – e dunque a rendere “vergognoso” – il comportamento dei pedoni indisciplinati e distratti. Celebre fu una parata cittadina svolta a New York in questi anni, in cui un clown intento a vagare per strada era ripetutamente redarguito dal paraurti di una Ford Modello T. Il termine jaywalking nacque in questo periodo e segnò una rivoluzione culturale in cui la libertà del cittadino fu assoggettata in apparenza alla sicurezza stradale e di fatto al potere dell’industria automobilistica.

[ illustrazione: particolare dalla fotografia di Robert Doisneau La Meute, Place de la Concorde – 1969 ]

APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, IRONIA, LAVORO, SCUOLA, TECNOLOGIA

Apprendimento a distanza: ecco perché non è proprio una novità

Da qualche tempo si parla moltissimo di MOOC, Massive Open Online Courses, cioè corsi para-universitari on-line cui chiunque può accedere gratuitamente. Le più note istituzioni a offrirli sono le americane Khan Academy e Coursera, la seconda delle quali ospita anche alcuni corsi sperimentali delle università italiane Sapienza e Bocconi.

I MOOC sono una delle più aggiornate declinazioni dell’apprendimento via web (o, per usare un altro acronimo, della FAD, Formazione A Distanza). Il giornalista americano Thomas Friedman ha descritto i MOOC come una “rivoluzione nell’educazione universitaria”, mentre il guru della disruptive innovation Clayton Christensen è giunto a predire che causeranno l’imminente bancarotta delle università tradizionali. Che l’istruzione universitaria si trovi in uno stato di inadeguatezza tale da motivare una sua ristrutturazione è fuor di dubbio. Pensare che sia possibile attuarla abbandonando le aule e affidandosi al solo apprendimento a distanza è non solo demagogico e velleitario ma, molto più semplicemente, sbagliato. Un simile discorso vale, mutatis mutandis, per la formazione post-universitaria e lavorativa.

Per riflettere sull’insostituibilità dell’imparare in presenza – di cui è da sempre alleato quel fantastico strumento di “apprendimento a distanza” che si chiama libro – è utile confrontarsi con un articolo dello studioso di tecnologie Nicholas Carr. Dall’ironico testo emerge come l’idea di una rivoluzione educativa legata agli strumenti della formazione a distanza sia un miraggio di cui l’entusiasmo per le nuove tecnologie ci porta ciclicamente a essere vittime.

L’indagine può partire dal 1878 e dalla nascita del fonografo: un entusiastico articolo del «New York Times» vide nell’opportunità di registrare e riascoltare lezioni la prefigurazione di una scuola “interamente condotta da macchine”. Le registrazioni audio sono certo diventate un prezioso ausilio per percorsi di apprendimento di vario tipo (basti pensare allo studio delle lingue straniere), ma per fortuna nessuna macchina parlante ha mai sostituito gli insegnanti in carne e ossa. Passando al 1885, il docente di Yale William Rainey Harper si fece propugnatore di un insegnamento “per posta” che avrebbe sostituito le normali scuole e università. In questo caso, l’insegnamento per corrispondenza ha avuto nel corso degli anni un discreto successo, ma nessun diploma di questo tipo può essere minimamente comparato nei suoi esiti a quello di una vera università.

Nel 1913 Thomas Edison dichiarò che il cinema avrebbe “completamente cambiato l’istruzione nell’arco di 10 anni”. Così non è stato: il più concreto esperimento volto in questa direzione, quello dei “cinegiornali”, si è avvicinato molto più alla propaganda che non all’educazione. Un simile discorso vale per la radio (nel 1927 l’Università dello Iowa immaginò che essa avrebbe reso la scuola completamente diversa) e per la televisione, da cui tra gli anni ’50 e ’60 ci si aspettava una rivoluzione in chiave educativa che non ha mai realmente avuto luogo (su questo tema utile ricordare le riflessioni di Neil Postman e Carlo Freccero).

Nel 1984, anno di lancio del Macintosh, lo studioso del MIT Seymour Papert affermò che i computer avrebbero fatto “esplodere” la scuola. Per comprendere come non sia stato così, è sufficiente guardare agli alterni risultati delle lavagne interattive multimediali (LIM) nelle nostre scuole. Poco ha aggiunto lo sviluppo di quanto oggi si etichetta come web 1.0, prefigurato in un articolo del «Times» di fine anni ’90 come la killer application in ambito educativo, sia per le università che per le imprese. Internet non ci ha certo resi più bravi ad apprendere: la stessa Wikipedia funziona il più delle volte come un semplice sostituto dei “bigini” che erano in voga prima dell’era di internet, con un tema di attendibilità dei contenuti spesso controverso. Su questa linea si iscrivono anche i più recenti sviluppi del web 2.0, che conducono direttamente ai MOOC.

In somma: dal 1878 a oggi (e forse si potrebbe andare ancora più a ritroso di quanto fatto da Carr), le innovazioni improntate alla formazione a distanza sono state innumerevoli, in molti casi accompagnate da buoni successi economici per i loro sostenitori. Per quanto riguarda la messa in luce di un riconoscibile valore legato all’apprendimento, gli esempi passati in rassegna mostrano di essere tutt’altro che rivoluzionari.

[ illustrazione: l’inventore americano Hugo Gernsback indossa un paio di “television eyeglasses”, 1963 ]

ARTE, CAMBIAMENTO, CULTURA, INNOVAZIONE, MARKETING, MUSICA, SOCIETÀ, STORIE

Alex Steinweiss, l’uomo delle copertine

L’arte delle copertine di disco, provvidenzialmente rinvigorita dal revival vinilistico dell’ultimo decennio, ha una data di origine: 1938. Questo fu l’anno in cui l’allora ventiduenne grafico newyorkese Alex Steinweiss (1917-2011) venne assunto dalla Columbia Records.

Per il marketing della musica, si trattò di una vera e propria rivoluzione: la celeberrima sinfonia n. 3 di Ludwig van Beethoven, apparentemente un disco non certo bisognoso di particolare promozione, beneficiò di un incremento delle vendite di quasi il 900% dovuto alla versione con copertina illustrata da Steinweiss.

Ma che aspetto avevano le copertine prima del 1938? Fino a quel momento, tutti i dischi – allora in formato 78 giri – erano accompagnati da una spartana custodia che ne indicava esclusivamente titolo e autore. Steinweiss, annoiato da un design di così basso profilo – e ispirato dai manifesti modernisti tedeschi e francesi – propose ai dirigenti della Columbia di poter mettere alla prova la sua creatività. Per nostra fortuna, questa opportunità gli venne di buon grado concessa: Steinweiss divenne in breve direttore artistico dell’etichetta discografica e nel corso della sua carriera realizzò oltre 250.000 copertine.

Gli amanti dei vinili devono a Steinweiss anche un’altra innovazione: nel 1947, anno di nascita del disco a 33 giri, Steinweiss inventò le buste di carta che contengono i vinili, completando così un formato di packaging che oggi, a quasi settant’anni dalla sua introduzione, continua a dimostrarsi ineguagliabilmente bello ed efficace.

[ illustrazione: copertina di Alex Steinweiss per il disco Bing: A Musical Autobiography di Bing Crosby, 1954 ]

ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, IRONIA, LAVORO, METAFORE, SOCIETÀ

Chi ha paura della barba manageriale?

È probabile siano in molti ad aver notato sul volto di Sergey Brin, co-fondatore di Google, lo spuntare di una barba; quasi certo è che Stephen Mihn, collaboratore del «New York Times», sia il solo ad aver pensato di tratteggiare un’analisi manageriale ispirata a questa emergenza pilifera.

Assecondando il punto di vista di Mihn, la storia degli intrecci fra capitale e irsutismo facciale può essere riassunta da un’opposizione binaria: quando a primeggiare è l’idiosincratica affermazione imprenditoriale del singolo, le barbe germogliano; nei periodi in cui il mercato impone la lingua spersonalizzata e inglobante delle corporation, sono invece schiuma e rasoio a dettar legge.

Per gran parte dell’età moderna, i rappresentanti di spicco del mondo economico – tanto in Europa quanto negli USA – hanno dato prova di avere a cuore un volto ben rasato. Attorno alla prima metà dell’800, questo trend è stato ulteriormente rafforzato dalle scelte estetiche dell’élite intellettuale socialista: le barbe di Marx ed Engels si sono rapidamente imposte come simbolo della lotta al capitalismo, spingendo chi stava dall’altra parte della barricata, terrorizzato, ad ancor più frequenti visite al barbiere di fiducia.

I moti nazionali del 1848 in Europa, così come la guerra civile in terra americana, segnarono un’inversione di rotta, associando i peli facciali all’affermazione di un patriottico e borghese senso di mascolinità. In seguito a questo rivolgimento sociale, la barba diventa tratto essenziale della classe capitalista. Titanici uomini d’impresa come Andrew Carnegie o Henry Clay Frick – peraltro passato alla storia come “peggior amministratore delegato di sempre” – fecero della loro barba larger than life un amuleto di individualismo e dominio sul mercato.

Le cose cambiarono di nuovo a fine ‘800: la ribellione della forza lavoro mondiale generò leader operai contraddistinti da lunghe, spettinate barbe. Il vello facciale tornò a spaventare il capitalismo, che non poté fare a meno di riprendere a rasarsi con cura (in suo aiuto giunse, nel 1901, il primo rasoio di sicurezza Gillette). Negli corso del Novecento barba e baffi sparirono, lasciando campo al dominio del liscio, inespressivo volto del dirigente delle grandi multinazionali.

Negli anni 2000, la barba appare priva di particolari connotazioni ideologiche e non spaventa più nessuno. Ecco perché sembra così adatta – al netto della moda hipster, secondo molti ormai in calo – per il volto del capitalismo geek rappresentato da Sergey Brin.

[ illustrazione: Robert Taylor, Dictionary of Beards,  2010 ]

APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, CITTÀ, COLLABORAZIONE, COMPLESSITÀ, DECISIONE, DEMOCRAZIA, ECONOMIA, MANAGEMENT, METAFORE, MOBILITÀ

Meno regole, più responsabilità

La vicenda non rappresenta proprio una novità; suona piuttosto come la conferma di una tendenza ormai storicamente consolidata: a inizio 2015 anche Chicago inaugurerà, seguendo l’esempio di diverse città europee, una “shared street”, vale a dire una strada urbana priva di marciapiedi, corsie e segnaletica in cui i cittadini dovranno imparare a praticare l’auto-organizzazione.

I primi esperimenti orientati a una diversa gestione del traffico e della sicurezza urbana risalgono a ormai più di venti anni fa. Avanguardia di questa svolta nella mobilità è stata l’Olanda, nazione bike-friendly particolarmente attenta ai disagi generati dal traffico e capace di innestare un reale cambiamento culturale atto a evitarli. L’innovazione olandese è principalmente riconducibile al nome di Hans Monderman (1945-2008), ingegnere del traffico che già negli anni ’90 iniziò a praticare nella regione della Frisia – e in particolare nella cittadina di Drachten – l’idea di responsabilizzazione urbana che oggi giunge fino agli USA.

Come nota un articolo di «Pagina 99», quanto verrà chiesto ai cittadini di Chicago è di rinunciare a una regolamentazione del traffico eterodiretta, al fine di abbracciare una condotta di continua negoziazione delle precedenze e dunque dell’attenzione dedicata agli spostamenti cittadini. Faticoso, certo, ma sembra valerne davvero la pena: le statistiche provenienti dall’Olanda e dagli altri luoghi in cui le “shared street” sono già in uso parlano di un netto calo degli incidenti e di un generale miglioramento della mobilità.

«You’re not stuck in the traffic, you’re traffic!», sostiene un mantra popolarizzato negli ultimi anni tanto nel campo della viabilità cittadina quanto, come metafora, nel pensiero manageriale e organizzativo. In tema di riflessioni metaforiche sul tema della responsabilizzazione in contesti aziendali, a rendere particolarmente simbolici gli esempi delle “shared street” è anche l’avvallo di una teoria sulla compensazione del rischio nota come “effetto Peltzman” (dal nome dell’economista – guarda caso di Chicago – che per primo la tematizzò).

Ogni qual volta ci si sente al sicuro all’interno di un sistema di regole,  si diventa – nota Peltman – molto meno cauti. Superficialmente attenti a rispettare le norme ma, di fatto, proni a infrangerle. Al contrario, una situazione che enfatizza il rischio percepito porta naturalmente a generare un’assunzione di responsabilità collettiva. Lungi dall’essere utile soltanto a chi si occupa di mobilità cittadina, l’effetto Peltman riguarda qualsiasi azienda in cui la dialettica fra norma e responsabilità non sia giunta a un adeguato livello di sintesi.

[ illustrazione: Alberto Sordi in un fotogramma dal film Il vigile di Luigi Zampa, 1960 ]

ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, COLLABORAZIONE, COMUNICAZIONE, LAVORO, MOBILITÀ, PERCEZIONE, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

Cosa perdiamo quando guadagniamo tempo grazie alla tecnologia?

Con Diario d’antepace (1950) lo scrittore svizzero Max Frisch ha composto un’eterogenea raccolta di note di viaggio, abbozzi letterari, pensieri sulla natura umana. Molte osservazioni contenute nel libro riguardano il ruolo assunto dalla tecnica nel mutare la nostra percezione delle distanze spaziali e temporali. Pensando all’oggi, è senz’altro facile allinearsi al coro di quanti sostengono che i più moderni mezzi di comunicazione connettono “annullando le distanze”. È d’altro canto innegabile che tutti noi facciamo quotidiana esperienza della fredda e impersonale relazione instaurata, tanto in ambito lavorativo quanto personale, da strumenti come le e-mail. Più di sessant’anni fa, Frisch riconosceva con profonda lungimiranza questo fenomeno, notando come:

«Non sappiamo più prendere sul serio delle persone quando non le abbiamo più a portata dei nostri occhi».

In tema di tecnica e annullamento delle distanze, uno dei passaggi più acuti del testo di Frisch è dedicato alle indesiderate conseguenze dell’innovazione legata ai mezzi di traporto e, nello specifico, al treno. In tempi in cui un viaggio Roma-Milano necessita ormai meno di tre ore, è  il caso di chiedersi se guadagnando tempo perdiamo forse qualcosa:

«Esattamente cent’anni or sono, la prima ferrovia attraversava il nostro paese: trenta chilometri all’ora. È chiaro che non ci si poteva fermare lì. Il segno che abbiamo superato il nostro ritmo è nel disappunto che proviamo ogni volta che una macchina ci sorpassa; è vero che noi stessi corriamo a tale velocità che la mia percezione della realtà non ce la fa più a tenerle dietro; ma nella speranza di raggiungere un’esperienza perduta, acceleriamo ancora. È la promessa diabolica che ci attira sempre più verso il vuoto. Neanche un aereo a reazione raggiungerà il nostro cuore. Esiste, sembra, una misura umana che non possiamo modificare, ma solo perdere. Che l’abbiamo perduta, è fuor di dubbio; il problema è ora questo: possiamo riacquistarla e come?».

[ illustrazione: particolare da Il treno di Fortunato Depero, 1926 ]

CAMBIAMENTO, COMPLESSITÀ, CONCETTI, MANAGEMENT

La capacità negativa, risorsa manageriale per il cambiamento

Quella del cambiamento indotto e controllato, per gli addetti ai lavori change management, è una pratica manageriale formalizzata – e brillantemente commercializzata – negli anni ’80 dalla società di consulenza americana McKinsey. Tale disciplina gestionale è stata nel corso del tempo introiettata dal mondo del business a tal punto da essere percepita come una “naturale” componente del lavoro manageriale. Negli anni più recenti, la sua crescente relazione con il concetto di complessità – forse la più popolare vulgata socio-manageriale degli anni ’90-2000 – ha condotto a una reinterpretazione del ruolo di manager e leader che risulta, come recita il lessico aziendale, oggi più “sfidante” a fronte della generalizzata percezione di un contesto economico sempre più imprevedibile e caotico.

Negli ultimi tempi si è molto parlato, in tema di strumenti interpretativi messi al servizio del change management, del concetto di “capacità negativa”. Curiosamente, l’espressione ha un’origine letteraria riconducibile al poeta inglese John Keats (1795-1821). In un suo verso, la capacità negativa viene descritta come l’attributo dell’artista capace di elevarsi con spirito saggio e distaccato al di sopra delle difficoltà mondane. Fu lo psicoanalista inglese Wilfred Bion (1897-1979) a rifarsi a Keats per definire il concetto in ambito psicologico e propiziarne la successiva diffusione nel mondo manageriale. Il suo principale tratto di interesse consiste nella capacità di tenere conto delle implicazioni emotive che qualsiasi processo di cambiamento – autodiretto o eterodiretto – comporta.

Per comprendere a cosa ci si riferisce parlando di capacità negativa bisogna anzitutto soffermarsi sul sostantivo “capacità”. Più che come sinonimo della parola “competenza”, esso va inteso come rimando alla capienza spaziale e dunque metaforicamente a un vuoto – ecco svelato anche il senso dell’aggettivo “negativa” – che implica disponibilità all’accoglienza. Il manager che esercita capacità negativa è dunque colui il quale è in grado di concedere spazio alle emozioni contrastanti generate da una situazione di cambiamento e di “digerirle” per conto dell’intero sistema di relazioni lavorative in cui è coinvolto.

La capacità negativa non compie tuttavia appieno il suo lavoro se non è in grado, una volta agito l’assorbimento del portato emotivo del cambiamento, di lasciare spazio a “capacità positive”, cioè più tradizionali strumenti manageriali rinvenibili nella “cassetta degli attrezzi” di chiunque sia chiamato ad assumersi la responsabilità di processi di apprendimento e cambiamento organizzativo.

[ illustrazione: dettaglio da Der Wanderer über dem Nebelmeer (1818) di Caspar David Friedrich ]