APPRENDIMENTO, CONOSCENZA, SCIENZA, STORIE

Professionisti vs amatori

La parola “amatore” viene solitamente opposta al termine “professionista”, indicando una versione minore, approssimativa e in definitiva non abbastanza “seria” del sapere teorico e pratico di chi viene formalmente associato a una professione. L’istituzionalizzazione del sapere, così centrale per l’idea stessa di professionalità, riveste oggi più che mai un ruolo egemone: forse ancor più dei titoli di studio, oggi le “certificazioni” rappresentano un ubiquo e apparentemente indispensabile lasciapassare per i più svariati ambiti lavorativi (e non solo), diffondendo la pericolosa opinione che la competenza sia ormai percepita come condizione non sufficiente al riconoscimento del saper fare, da dotare necessariamente di una precisa etichettatura (da ottenersi previo versamento di denaro in favore di enti che prosperano grazie a questo business delle certificazioni). Il professionista, strettamente imparentato con l’esperto e lo specialista (di cui si è parlato qui), è una delle figure chiave di un modo di rivolgersi al sapere che è figlio delle logiche di parcellizzazione e burocratizzazione che, dalla rivoluzione inizio-novecentesca dello scientific management in poi, hanno contributo a definire l’identità dell’uomo occidentale.

Coraggiosamente in antitesi rispetto a una weltanschauung tanto pervasiva, il libro The Amateur (2018) dello studioso inglese Andy Merrifield osa proporre una posizione diversa, che rivaluta il ruolo di ogni sapere capace di anteporre l’amare ciò che si fa a ogni tipo di riconoscimento formale. Grazie al libro scopriamo per esempio che lo scienziato inglese Michael Faraday (1791-1867) seppe andare ben oltre le sue umili origini e la sommaria educazione ricevuta in giovane età massimizzando l’utilità del suo primo impiego, a soli 14 anni, come rilegatore di libri. Circondato dalla parola scritta, Faraday costruì autonomamente un percorso di apprendimento ricco e libero che lo portò pagina dopo pagina ad appassionarsi ai più svariati argomenti scientifici. La sua iniziativa lo condusse, con un grande slancio di coraggio, a scrivere a Sir Humphry Davy (1778-1829) – all’epoca direttore del laboratorio di chimica della Royal Institution di Gran Bretagna – per chiedere impiego come assistente del celebre chimico. La sua richiesta venne accolta e nel 1813, a soli 21 anni, Faraday diede avvio a un percorso di ricerca e scoperte che ha pochi eguali nella storia e che vale da monito di incoraggiamento per ogni “amatore” e per chiunque ritenga che, parallelamente alle vie formali, esistano percorsi di apprendimento di certo meno ortodossi ma per questo non meno interessanti.

[ Illustrazione: fotografia di Michael Faraday, Pictorial Press Ltd / Alamy Foto Stock ]

CONCETTI, ECOLOGIA, NATURA, SCIENZA

In pellegrinaggio fra umanità e natura

Spillover di David Quammen è un libro che solo nel 2020, a otto anni dalla prima pubblicazione, ha raggiunto il suo più grande successo anche se, si può ben dire, per un motivo che nessuno avrebbe auspicato. In maniera simile a quanto accaduto per Il cigno nero di Nassim Taleb, opera salita all’onore delle cronache per la sua capacità di fornire un modello interpretativo di fronte alla crisi finanziaria del 2007-2009, Spillover verrà dai più ricordato come il saggio che ha descritto modalità di diffusione e impatto del COVID-19 prima del suo emergere.

Il libro, ottimo esempio di divulgazione scientifica, chiarifica due nozioni centrali per la comprensione della diffusione dei virus, vale a dire quelle di zoonosi e, come da titolo del testo, spillover. Per zoonosi si intende ogni infezione animale trasmissibile a esseri umani e per spillover il meccanismo per cui un patogeno passa da una specie all’altra. La delucidazione delle due nozioni a opera di Quammen (ricca di esempi, aneddotica di prima mano e approfondimenti su virus quali Sars ed Ebola) ha soprattutto il merito di mettere ogni lettore in guardia rispetto a due oggettività tanto importanti quanto superbamente sottovalutate dall’uomo. Anzitutto, siamo una specie animale fra altre, per natura non superiore a nessuna di esse e parte di un destino comune di cui ogni zoonosi rappresenta un crudo e minaccioso memento. In secondo luogo, la responsabilità della crescente diffusione di zoonosi (e, in particolare, Coronavirus) è imputabile alla scellerata condotta della nostra specie nei confronti delle altre e più in generale del nostro pianeta. Nelle parole di Quammen i virus di cui parliamo:

Sono lo specchio di due crisi planetarie convergenti: una ecologica e una sanitaria […]. Come fanno questi patogeni a compiere il salto dagli animali agli uomini e perché sembra che ciò avvenga con maggiore frequenza negli ultimi tempi? Per metterla nel modo più piano possibile: perché da un lato la devastazione ambientale causata dalla pressione della nostra specie sta creando nuove occasioni di contatto con i patogeni, e dall’altro la nostra tecnologia e i nostri modelli sociali contribuiscono a diffonderli in modo ancor più rapido e generalizzato.

Le parole di Quammen evocano per ogni essere umano un’urgente crescita di responsabilità ecologica, nel senso più ampio del termine. Questo tipo di riflessione, soprattutto poiché inclusa in un libro che è divenuto un best-seller, ha la potenzialità di rimettere in gioco il nostro rapporto con il mondo e la natura a un livello profondo, che ci permetta di comprendere i delicati equilibri di cui siamo parte e imparare a rispettarli.

A fronte degli stimoli del mondo scientifico qui rappresentati dall’opera divulgativa di Quammen, un significativo contributo può essere rinvenuto anche nella riflessione proveniente dal pensiero umanistico e in particolare nel saggio sui generis Pellegrinaggio al Tinker Creek pubblicato nel 1974 da Annie Dillard (e insignito nel 1975 del Premio Pulitzer). Si tratta del resoconto di un anno vissuto dall’autrice – all’età di 27 anni – a stretto contatto con la natura presso il fiume Tinker Creek, nei boschi della Virginia.

Il testo prende le sue mosse come omaggio al capostipite dei memoriali sulla vita solitaria nella natura, Walden di Henry David Thoreau, e pagina dopo pagina costruisce una riflessione coinvolgente ed emozionate che riesce a mescolare osservazioni da entomologo a spunti filosofici e spirituali. A colpire sono soprattutto i passaggi in cui si fa prepotente il concetto prima evocato sulla scorta di Quammen, ovvero la consapevolezza che quella umana è una specie fra altre nella natura. Questo senso di necessaria connessione viene evocato da Dillard in una maniera che valorizza il nostro essere parte inscindibile di un universo che include insieme, in una interrelazione necessariamente complessa, sia dolore che bellezza.

La crudeltà è un mistero, e spreco di dolore. Ma se descriviamo un mondo che abbracci queste cose, un mondo che sia un lungo gioco brutale, allora incappiamo in un altro mistero: l’irruzione della potenza e della luce, il canarino che canta sul cranio. A meno che tutti gli uomini di ogni epoca o razza siano stati ingannati dallo stesso ipnotizzatore di massa (chi?), sembra che la bellezza esista, una grazia del tutto gratuita.

[ Illustrazione: fotografia di Lucas Foglia, Matt-Swinging-between-Trees (particolare), dal libro HumanNature ]

IRONIA, LETTERATURA, SCIENZA, STORIE, TEMPO

Di quella volta che Einstein e Kafka (non) si incontrarono

Atlante occidentale, romanzo del 1985 di Daniele Del Giudice, è un manifesto allo spirito più puro e disinteressato dell’amicizia, quello grazie a cui persone perfettamente estranee e del tutto diverse fra loro possono incontrarsi per caso e scoprire quanto le loro “rotte” possano essere complementari e parallele (quello del volo è tema particolarmente caro a Del Giudice, nonché centrale in questo libro).

Un giovane fisico e un anziano scrittore stringono un’amicizia insieme estemporanea e profonda, che riesce a evocare simbolicamente anche un difficile – ma non impossibile – incontro a metà strada fra il campo scientifico e quello umanistico. In questo senso Del Giudice rende in forma di romanzo la stretta di mano fra i due mondi auspicata da Charles Percy Snow nel suo Le due culture (1959), saggio dedicato a denunciare la mancata integrazione fra cultura scientifica e umanistica. A rafforzare questa tesi, che rende ancor più importante un racconto di per sé già bellissimo, è lo spunto di uno dei due personaggi messi in scena da Del Giudice, che evoca i possibili incontri – o mancati incontri – fra un altro scienziato e un altro scrittore:

Forse ci sono tempi diversi dal nostro in cui Einstein e Kafka escono ogni giorno di casa, stanno per incontrarsi, tornano indietro; escono di nuovo, sono sul punto di farcela, ritornano a casa. O tempi ciclici in cui Einstein e Kafka si incontrano ogni tanti anni e dicono “Ancora lei!”, tempi dell’attesa in cui passano la vita aspettando d’incontrarsi e ogni istante potrebbe essere quello buono, ma non si incontrano perché in realtà si sono già incontrati senza che nessuno dei due se ne accorgesse; o tempi biforcuti in cui si incontrano e contemporaneamente non si incontrano, e il fatto è del tutto equivalente».

In realtà è possibile che almeno qualche fugace incontro fra i due ci sia stato, perché Albert Einstein – come scrive anche Del Giudice – insegnò fra il 1911 e 1912 all’Università di Praga ed era uso frequentare il Cafè Louvre, all’epoca ritrovo bisettimanale delle cerchie intellettuali della città (come approfondito in Praga al tempo di Kafka di Patrizia Runfola). Franz Kafka di certo conobbe la teoria della relatività, che forse arrivò a influenzare alcuni suoi scritti. È per esempio curioso ritrovare nel suo racconto di una pagina Una confusione che succede ogni giorno (1917), contenuto nella raccolta Il messaggio dell’imperatore, l’ironica narrazione di un incontro ostacolato da strani sfasamenti spazio-temporali (il tempo non più assoluto di Einstein?). Ecco l’incipit del racconto (cui Del Giudice, piace pensare, non può non essersi ispirato):

Un caso che succede ogni giorno: il risultato, una confusione che succede ogni giorno. A deve concludere un importante affare con B, che abita a X. Per prendere gli accordi preliminari si reca X, fa la strada di andata e ritorno in dieci minuti e si vanta, giunto a casa, di questa eccezionale velocità. Il giorno dopo torna X per concludere definitivamente l’affare. Poiché prevede che ciò esigerà parecchie ore, A si mette in istrada di mattina presto. Sebbene tutte le circostanze, almeno secondo l’opinione di A, siano perfettamente le stesse che il giorno prima, questa volta per giungere a X egli impiega 10 ore. Quando arriva là, stanco, a tarda sera, gli dicono che B irritato per l’assenza di A, mezz’ora prima s’è recato a cercare A al suo villaggio e avrebbero assolutamente dovuto incontrarsi per via. Consigliano A di aspettare. Ma A, inquieto per il suo affare, se ne va e s’affretta verso casa.

[ Illustrazione: fotografia di Fred Herzog, Two Men in Fog (1958) ]

ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, COMPLESSITÀ, CONOSCENZA, ECONOMIA, PERCEZIONE, RAPPRESENTAZIONE, SCIENZA, TECNOLOGIA

Uomo, lavoro, mercato (secondo Friedrich Dürrenmatt)

Lo scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt (1921-1990), noto soprattutto per romanzi e racconti che hanno ridefinito la categoria del “poliziesco” (su tutti, La promessa), ha animato la sua opera teatrale e narrativa con brevi e profonde riflessioni sulla natura umana. La raccolta Le scintille del pensiero (2003) raccoglie, in forma di libera antologia tematica, il pensiero dell’autore svizzero così come emerso da una produzione letteraria che ha attraversato gli anni più significativi del secolo scorso.

Alla voce “pensare”, l’antologia presenta la trascrizione di una conferenza del 1956 nella quale Dürrenmatt fornisce, nello spazio di appena due pagine, una lettura della contemporaneità che spazia dalla dimensione politica a quella economica, passando attraverso il tema della scienza e della tecnica. Nota Dürrenmatt:

«La crisi del mondo in cui viviamo non è tanto una crisi di conoscenza, quanto una crisi di realizzazione delle conoscenze […]. L’uomo di oggi conosce il mondo in cui vive molto meno di quanto si supponga».

La percezione di una conoscenza come pluralità frammentata e difficilmente sintetizzabile rimanda all’egemonia di saperi sempre più specialistici detenuti da “esperti” e non più comprensibili all’interno di una visione unitaria. D’altro canto, questa frammentazione dell’umano sapere sfocia in una psicopatologia del consumo che è per Dürrenmatt relazionabile, secondo un punto di vista comune a molti grandi pensatori del Novecento, alla trasformazione in rappresentazione e mercato di ogni relazione sociale:

«[L’uomo] avverte che l’immagine del mondo che si è venuta a creare è comprensibile solo agli scienziati, e cade preda di quei prodotti di serie che sono le visioni di moda e le ideologie più correnti, gettate continuamente sul mercato, smerciate a ogni angolo di strada».

[ illustrazione: Andreas Gursky, 99 Cent I, 2001 ]

APPRENDIMENTO, COMUNICAZIONE, SCIENZA, TECNOLOGIA

La “sconfitta” di Turing non è una vittoria per l’intelligenza artificiale

Il 7 giugno 2014, a distanza di 60 anni dalla morte del matematico britannico Alan Turing (1912-1954), il mondo dell’intelligenza artificiale ha celebrato un’attesa vittoria, quella sul celebre test che lo stesso Turing mise a punto nel 1950 e che fino a oggi non era mai stato superato.

Il test di Turing si basa su questa dinamica: un esaminatore dialoga in forma scritta (negli anni ’50 via telescrivente, oggi via chat) con un essere umano e con una macchina. Se quest’ultima riesce a rendersi indistinguibile rispetto alla controparte umana e quindi a ingannare l’esaminatore, il test può dirsi superato. Turing prevedeva che suo il test sarebbe stato “vinto” nell’arco di cinquant’anni; evidentemente, ce ne sono voluti ben sessantaquattro.

Nell’impresa è riuscito il personaggio di Eugene Goostman, “ragazzino virtuale” di 13 anni. I suoi programmatori – di nazionalità russa e ucraina – hanno dedicato gli ultimi dodici anni a questo progetto di “chatterbox”, partecipando a molte competizioni legate al Test di Turing. Ora che l’obiettivo è stato raggiunto, la comunità scientifica internazionale si interroga sul suo significato per la ricerca nel campo dell’intelligenza artificiale.

Per la verità, la maggior parte degli articoli pubblicati in questi giorni mette in discussione il risultato ottenuto dai creatori di Eugene Goostman. Diverse argomentazioni tecniche dimostrerebbero la non idoneità dell’esperimento rispetto alle regole stabilite da Turing. Per una buona sintesi di questi pareri critici, è consigliata la lettura di questo articolo di Paolo Attivissimo.

Le osservazioni più cruciali sulla vicenda sono in ogni caso quelle presentate sul «New Yorker» dallo studioso cognitivo Gary Marcus. Il problema di Eugene Goostman è che si basa, esattamente come tutti i chatterbox che l’hanno preceduto (su tutti il celebre ELIZA, psicoterapista virtuale messo a punto nel 1966), sul riconoscimento di pattern e non certo su una reale abilità di dialogo e risposta. Marcus ricorda che, dal 1950 a oggi, sono state sviluppate molte macchine in grado di svolgere egregiamente un compito verticale e specialistico, come per esempio il super computer IBM Deep Blue che nel 1996 sconfisse lo scacchista russo Garry Kasparov, allora campione del mondo in carica. Ma nessuna macchina è mai stata in grado di dar prova dell’intelligenza “orizzontale” tipica degli uomini. Per tornare a un argomento qui trattato ieri, nessuna macchina – conclude Marcus – può nemmeno lontanamente avvicinarsi alle capacità di apprendimento e intelligenza di un bambino. In questo senso, ammesso che il test di Turing possa considerarsi realmente superato, la ricerca sull’intelligenza artificiale non fa certo passi avanti grazie a Eugene Goostman. Per rendersene conto, basta fare una chiacchierata con lui qui.

[ illustrazione: ritratto fotografico di Alan Turing ]

APPRENDIMENTO, BIGDATA, LAVORO, SCIENZA, TECNOLOGIA

Perché i computer non saranno mai all’altezza degli uomini? Perché non sanno essere infantili

Durante gli anni ’80, gli studi sull’intelligenza artificiale hanno iniziato a scontrarsi contro un’evidenza: se simulare con un computer un livello “adulto” di intelligenza è relativamente semplice, risulta praticamente impossibile trasferirgli le abilità di un bambino di un anno.

Il “paradosso di Moravec” (dal nome dell’esperto di robotica austriaco Hans Moravec) descrive la difficoltà – attualmente irrisolta – di condurre un elaboratore elettronico a impadronirsi di capacità umane primordiali. Come ha notato lo studioso americano – e co-fondatore del MIT – Marvin Minsky, le facoltà umane su cui è più difficile applicare processi di “reverse engineering” finalizzati alla loro simulazione sono proprio quelle più basiche e, per molti versi, inconsce.

C’è un aspetto controintuitivo che rende preziosa questa scoperta: mentre ci immagineremmo arduo simulare abilità che per noi comportano un apprendimento faticoso (relativo per esempio a cognizioni ingegneristiche, matematiche e in generale a tutto ciò che etichettiamo come “scienza”), queste risultano in realtà molto più facili da trasferire a un computer rispetto a facoltà “innate” legate alla percezione, all’attenzione, alle capacità motorie e sociali.

Le abilità più recenti sulla linea temporale dell’evoluzione umana comportano per noi maggiori difficoltà di apprendimento proprio perché relativamente nuove e non interiorizzate; quelle più remote, benché molto più complesse, ci appaiono semplici perché agite in maniera trasparente e spontanea. I computer, privi del nostro background biologico e ben lontani da qualsiasi forma si spontaneità, incontrano grandi difficoltà nel simulare le seconde mentre ottengono buoni risultati nelle prime.

Secondo lo studioso cognitivo Steve Pinker, tutto questo ha un risvolto che dovrebbe tranquillizzare quanti sentono il proprio posto di lavoro minacciato da computer sempre più potenti. Se alcune professioni risultano effettivamente a rischio, altre non lo saranno mai, o quasi, proprio per via del paradosso di Moravec: i posti di lavoro di analisti finanziari e ingegneri petrolchimici saranno forse assunti da macchine nel giro di pochi anni; quelli di giardinieri, receptionist e cuochi non lo saranno verosimilmente ancora per moltissimo tempo.

[ illustrazione: fotogramma dal film Artificial Intelligence di Steven Spielberg, 2001 ]

SCIENZA, STORIE

La storia di Phineas Gage, il più grande mistero della neuroscienza

13 settembre 1848: Phineas Gage, impiegato dell’impresa americana Rutland and Burlington Railroad, si trova a Cavendish (contea di Windor) per liberare da alcune rocce un tratto di terreno destinato a una nuova linea. Mentre maneggia un’asta di pigiatura per sistemare una carica esplosiva, resta vittima di una detonazione che scaglia l’asta metallica a mo’ di proiettile verso il suo volto. L’asta, lunga oltre un metro e del diametro di tre centimetri, attraversa il suo cranio da una parte all’altra. Gage sopravvive all’incidente, senza nemmeno perdere conoscenza. Da quel momento in poi, Phineas Gage (1823-1860) diventa un caso studiato dagli scienziati di tutto il mondo. Un articolo della rivista «Slate» ricostruisce la storia di questi studi, indagando le diverse posizioni da cui la sorte di Gage è stata interpretata nel corso del tempo.

La principale teoria su Gage inizia a essere alimentata dal dottore che gli fornisce le prime cure. John Harlow – questo il nome del medico – riporta che Gage si trova in uno stato di salute mediamente buono (al netto della perdita delle capacità visive di un occhio), anche se risulta caratterialmente “cambiato”. La lesione riportata al lobo frontale del cervello pare infatti aver mutato l’equilibrio mentale di Gage. In relazione a questi supposti cambiamenti comportamentali, Gage viene licenziato dall’impresa ferroviaria e inizia a viaggiare, accompagnato dall’asta che gli ha trafitto il cranio, come fenomeno da baraccone. Le uniche immagini fotografiche che lo rappresentano risalgono a quest’epoca e lo ritraggono in compagnia dell’inseparabile asta metallica. Qualche anno dopo, Gage trova impiego come conducente di diligenze, prima nel New Hampshire, poi emigrando in Cile, dove resta ben sette anni. Termina la sua esistenza a San Francisco dove muore nel 1860, cioè ben dodici anni dopo il suo terribile incidente.

A questo punto della vicenda fa la sua ricomparsa il dottor Harlow, che contatta la famiglia per estrarre il corpo di Gage dalla tomba al fine di analizzarlo. A oggi, il cranio di Gage è conservato – ovviamente insieme all’asta – presso l’Harvard Medical School di Boston e continua a essere oggetto di studi che, a partire dalle prime analisi di Harlow, sono giunti fino a sofisticate ricostruzioni digitali del cranio, delle dinamiche dell’incidente e dei possibili danni cerebrali subiti da Gage. Come nota l’articolo di «Slate», il caso di Gage è stato letto alla luce di tutte le mode scientifiche avvicendatesi dalla metà dell’Ottocento a oggi, dalla frenologia fino alla teoria delle intelligenze multiple. In tutti i casi, basandosi più sulla volontà di trovare conferme alle proprie convinzioni che non su un’effettiva indagine scientifica.

La teoria più recente nasce da una riflessione sull’attività di conducente di diligenze condotta da Gage negli ultimi anni di vita. Il complesso sistema di redini usato da Gage richiedeva l’impiego di tutte le dita delle mani e una grande destrezza: come è possibile che una persona colpita da gravi danni al cervello potesse dar prova di una simile abilità di coordinamento e precisione? Questa è la domanda con cui Malcolm Macmillan, studioso della University of Melbourne, intende sostenere la sua tesi: l’equilibrio psichico di Gage fu probabilmente compromesso dall’incidente a un livello inferiore rispetto a quello che è stato per lungo tempo ipotizzato e, se è vero che Gage ha potuto trascorrere una vita normale per molti anni, emigrando in Cile e occupandosi di un lavoro con alti requisiti a livello di coordinazione neurologica, tutto questo può essere una prova delle capacità rigenerative della materia celebrale. Ma attenzione: questa è solo l’ultima di una lunga serie di interpretazioni. La storia di Gage continuerà con tutta probabilità ad accompagnare le teorie – e i sogni – di nuove generazioni di studiosi.

[ illustrazione: dagherrotipo che ritrae Phineas Gage negli anni immediatamente seguenti all’incidente del 1848 – immagine ritrovata nel 2010 ]

DIVULGAZIONE, MUSICA, SCIENZA, STORIE, TECNOLOGIA

Una storia d’amore galattica

Nell’agosto del 1977 la NASA ha lanciato nello spazio le due sonde Voyager I e II, indirizzate su una rotta che le ha fatte transitare per Giove, Saturno, Urano e, raggiunto nel 1989, Nettuno. Le due sonde sono in seguito entrate nello spazio interstellare e continuano a essere in funzione. In particolare, il Voyager I è oggi l’oggetto costruito dall’uomo più lontano dalla Terra, a una distanza stimata a marzo 2014 di circa 19 miliardi di chilometri dal Sole.

Ciascuna delle due sonde porta con sé un messaggio rivolto dalla Terra (per la precisione dalla NASA) a forme di vita di altri pianeti. Il messaggio è stato confezionato utilizzando la tecnologia reputata più affidabile e duratura, cioè un’incisione fonografica. Il cosiddetto “golden record” è un disco di rame placcato d’oro inciso a 16 e 2/3 giri al minuto che contiene 118 fotografie, 90 minuti di musica (fra cui la Quinta Sinfonia di Beethoven, Johnny B. Goode di Chuck Berry e non, nonostante le intenzioni iniziali e per problemi di diritti, Here Comes the Sun dei Beatles), saluti incisi in 55 lingue (compresa quella delle balene), un saggio audio con suono di molteplici attività umane, il saluto dell’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite e infine l’encefalogramma di una giovane donna.

Il team che realizzò l’incisione fu guidato da Carl Sagan (1934-1996), astronomo e divulgatore scientifico già noto per aver messo a punto la placca visiva apposta sulle sonde Pioneer (lanciate nel 1972 e 1973). Quando fu deciso di inserire nel “golden record” la registrazione di un encefalogramma umano, si decise che la persona scelta avrebbe dovuto ripercorrere nella propria mente un itinerario storico di persone, avvenimenti e idee da tramandare. Venne preparato un copione e si decise che a “interpretarlo” sarebbe stata, il 3 giugno del 1977, Ann Druyan, direttore creativo del progetto e membro più giovane del team. La notte del primo giugno Sagan e Druyan si sentirono per telefono e qualcosa di inaspettato accadde. I due, fino a quel momento semplicemente colleghi e poco più che conoscenti, si dichiararono il loro amore e decisero di sposarsi. La promessa mise in discussione le vite sentimentali di entrambi (e in particolare portò Sagan al divorzio) ma venne realizzata e mantenuta viva fino alla scomparsa di Sagan.

La registrazione del 3 giugno 1977, a oggi nello spazio interstellare, contiene dunque l’encefalogramma di una giovane donna apparentemente impegnata a leggere contenuti culturali e filosofici, ma segretamente concentrata sul suo neonato amore.

[ illustrazione: installazione del “golden record” a bordo della sonda Voyager I, 1977 ]

APPRENDIMENTO, ARTE, SCIENZA, TECNOLOGIA

Ruysch, artista della morte

L’olandese Frederick Ruysch (1638-1731) è noto come botanico e anatomista e il suo nome è in particolare legato all’avanzamento delle tecniche di conservazione dei corpi. Un articolo di «Public Domain Review» ne evidenzia il valore di “artista della morte”.

Le avanzate tecniche di preservazione messe a punto da Ruysch gli permisero di realizzare per la prima volta nella storia un’esibizione di reperti che riusciva a soddisfare il bisogno di conoscenza di medici e anatomisti e, al tempo stesso, a presentare al grande pubblico una vera e propria “mostra” destinata a divenire un’inedtia attrattiva.

Quanto Ruysch era capace di mostrare andava ben oltre la semplice evidenza anatomica. La presentazione della morte veniva messa in prospettiva attraverso artifici – non privi di un peculiare senso dell’umorismo – finalizzati a rendere simbolico il senso di quanto esposto. Basti dire che in una delle sue composizioni uno scheletro affermava: “anche dopo la morte sono ancora attraente!”. Lo spirito di Ruysch è radicato in una tradizione di indagine anatomica che trova un antecedente in Vesalio (1514-1564) e un distante ma assai diretto successore, anche se ormai svincolato da interessi conoscitivi e prettamente orientato allo spettacolo, nel tedesco Gunther von Hagens.

[ illustrazione: La lezione di anatomia del Dott. F. Ruysch di Adriaen Backer (1670), Amsterdams Historisch Museum ]

BIGDATA, EPISTEMOLOGIA, SCIENZA

Google Flu Trends e la fallibilità dei big data

Il libro Big Data (2013) di Viktor Mayer-Schönberger e Kenneth Cukier dedica un significativo numero di pagine al momento in cui, qualche anno fa, Google ha scoperto che possedere la più grande concentrazione al mondo di stringhe di ricerca – quel che ognuno di noi digita nel campo “cerca” del browser – equivale a poter esercitare un enorme potere predittivo sullo sviluppo di alcuni trend, fra cui quelli influenzali. Da allora, Google Flu Trends è diventato l’esempio portabandiera del movimento dei big data.

Un articolo di «Science» sembra oggi mettere in crisi questo ruolo. Anzitutto, nota l’articolo, Google Flu Trends ha completamente mancato di rilevare una influenza di non secondaria importanza, l’A-HIN1 del 2009. In secondo luogo, in seguito alla revisione del software avvenuta nello stesso 2009, i successivi risultati dell’algoritmo hanno continuato – e continuano – a generare previsioni dei flussi influenzali che risultano sovrastimate in termini di diffusione e durata.

Attestare la fallibilità di Google Flu Trends è per «Science» ghiotta occasione per mettere in luce quella che definisce la “hubris” dell’ideologia dei big data, cioè la pretesa che essi possano giungere a sostituire completamente i tradizionali metodi di raccolta e analisi di dati. Ridimensionare i big data, considerandoli strumento integrativo ad altri e non la “palla di cristallo” su cui molti entusiasti hanno creduto di poter mettere le mani, rappresenta senz’altro un modo più sensato per farne uso.

[ illustrazione: pubblicità Kleenex della fine degli anni ’20 ]