ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, FILOSOFIA, TECNOLOGIA

La vita dopo la morte? Una scommessa tecnologica

Secondo il paradosso di Moravec (di cui si è già parlato qui), l’intelligenza artificiale non potrà mai superare quella umana per un fondamentale, forse controintuitivo motivo: i computer sanno svolgere calcoli altamente complessi molto meglio di noi ma non sono in grado di simulare le nostre abilità percettive e motorie più basiche. Quanto un neonato padroneggia a un anno è semplicemente inarrivabile per qualsiasi cervello elettronico. Eppure vi sono molte persone (prevalentemente americane, facoltose e di carnagione bianca) convinte che l’intelligenza artificiale presto supererà quella umana e che grazie a essa potremo trascendere i limiti della nostra esistenza, financo quello della morte. Si definiscono “transumanisti” e a loro l’irlandese Mark O’Connell ha dedicato il libro-reportage Essere una macchina (2018).

Uno degli aspetti più interessanti del testo è la progressiva messa in luce, racconto dopo racconto, della prospettiva fideistica propria del transumanesimo: non soltanto le modalità di affiliazione e aggregazione dei suoi seguaci tendono a farli somigliare a ordini religiosi e sette; l’afflato che anima le loro argomentazioni si avvicina spesso, come O’Connell non manca di notare, allo spirito delle più classiche “prove ontologiche”.  Dialogando con il responsabile di un lucroso business incentrato sulla crio-conservazione di corpi defunti – in attesa di un futuro in cui i transumanisti contano diventi tecnologicamente possibile rianimarli – O’Connell si sente ripetere un argomento chiave per i transumanisti: “vale la pena di provare”. Impossibile non pensare, ponendosi molte domande sulla ridefinizione del concetto e delle pratiche di fede, alla celebre “scommessa” elaborata da Blaise Pascal nei suoi Pensieri:

Se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare.

[ Illustrazione: fotogramma dal film Ex Machina di Alex Garland, 2015 ]

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CONCETTI, MANAGEMENT

Il riccio e la volpe, una favola più che mai attuale

Fra i frammenti del poeta greco Archiloco (VII secolo a.c.) figura un verso che suona così:

«La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande».

Questa “favola in miniatura” ha il fine di contrapporre la superficialità all’approfondimento, la frivolezza alla costanza di attitudini e interessi. Il suo successo attraversa l’epoca antica e medievale, fino a giungere in età moderna a essere citata, fra gli altri, anche da Erasmo da Rotterdam nella sua raccolta di motti Adagia.

Balzando al XX secolo, nel 1953 Il filosofo e storico inglese Isaiah Berlin (1909-1997) recupera l’antica favola di Archiloco nel suo testo The Hedgehog and the Fox. An Essay on Tolstoy’s View of History (pubblicato in Il riccio e la volpe e altri saggi). Ne fa uso per “catalogare” alcuni fra i più grandi pensatori della storia, inserendoli per similutidine attitudinale entro le due specie animali in questione. Fra i ricci – il cui approccio tende a ricondursi a un’idea preponderante – spiccano Platone, Pascal, Hegel, Dostoevskij, Nietzsche; fra le volpi – dagli interessi variegati e talvolta contraddittori – Aristotele, Erasmo, Molière, Goethe, Balzac. Il principale oggetto del saggio di Berlin, cioè Tolstoy, in verità sfugge a una netta inclusione in uno dei due profili.

La favola gode di buona salute anche nel nuovo millennio. Nel 2001 lo studioso americano di management Jim Collins la riprende a suo modo nel best-seller manageriale Good to Great. Qui volpe e riccio rappresentano due opposti modelli di percezione e “visione” legati alla sfera lavorativa. Secondo Collins, la volpe vive l’esperienza del mondo nella sua complessità, ma non riesce a integrare il suo agire in una visione unitaria. Al contrario, il riccio semplifica il mondo grazie a un’idea unificatrice in grado di guidarlo ai suoi traguardi. Lo spirito del riccio è rappresentato da Collins tramite un nodo borromeo che relaziona passione, competenze professionali e moventi economici.

Una recente comparsa della favola di Archiloco è da rintracciarsi in Contro gli specialisti. La rivincita dell’umanesimo (2013) di Giuliano da Empoli. In questo testo il paradigma della volpe è assimilabile a quello di uno spirito generalista, capace di attraversare le frontiere della conoscenza per produrre idee nuove e inattese. Il riccio rappresenta invece l’ethos dello specialista, nel cui fallimento Da Empoli ritrova la principale causa della crisi economica e culturale di cui l’Occidente continua a essere vittima.

E voi, siete volpi o ricci?

[ illustrazione: tessuto di Emily Bowen ]

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