CONCETTI, LAVORO, PAROLE

Contro la spontaneità

Sinonimo di condotta “naturale” e non “costruita”, la spontaneità è uno dei concetti chiave della società contemporanea. La spontaneità mette d’accordo tutti in nome di una autorealizzazione più autentica. Difficile, dunque, trovare qualcuno disposto a dichiarare di non ritenerla un valore e una meta da raggiungere. Se la spontaneità riscuote tanto successo è probabilmente perché – nota Steven Poole in un articolo per «The New Republic» – moltissime persone la percepiscono frustrata nella propria vita quotidiana, soprattutto nella sfera lavorativa. Non è del resto sorprendente che la ricerca di spontaneità occupi gran parte delle attività del “tempo libero”, concetto la cui fortuna di basa su simili presupposti.

Ma a cosa si aspira, quando si parla di spontaneità? Non propriamente alla libertà, idea troppo ampia, esorbitante, generatrice di disorientamento e horror vacui. Piuttosto, a un surrogato di scelta, un anelito di distintività all’interno della consapevolezza di essere massa. Poole cita la particolare forma di “spontaneità mediata” oggi offerta da molte app per smartphone, per esempio quelle orientate a incontrare sconosciuti. La dinamica tecnologica dell’incontro, alimentata da opzioni precostituite e da un rassicurante senso di controllo, restituisce all’utente una soddisfacente sensazione di spontaneità.

Poole coglie nel segno accostando la spontaneità alla mindfulness, altro concetto oggi in gran voga (in particolare nel mondo del business). La mindfulness promette una concentrazione sull’attimo, una sorta di immersione zen in quel che si sta facendo. Perdersi nel momento libera dalla sensazione di stress, ma non ne elimina le cause. Somiglia dunque a un’anestizzazione della coscienza critica, un’alienazione volontaria pericolosamente vicina alla passività e alla deresponsabilizzazione. Secondo Poole, forse è proprio per questo che piace tanto ai datori di lavoro.

Tanto spontaneità quanto mindfulness offrono rassicurazioni che si oppongono alle fatiche della preoccupazione, dello sforzo, del tempo dovuto. Alimentano l’ideologia del “tutto e subito” che l’accessibilità istantanea del mondo tecnologico – in realtà totalmente mediata – continuamente contribuisce ad alimentare. Per non restarne vittime, utile riconsiderare una celebre citazione del musicista e compositore Charles Mingus, nella sua semplicità perfetta per neutralizzare qualsiasi appello di illusoria spontaneità:

«Non si può improvvisare sul nulla».

[ illustrazione: fotogramma da Groundhog Day di Harold Ramis, 1993 ]

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CONCETTI, LAVORO, MARKETING, METAFORE, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, UFFICI

La nuova ideologia della “mindfulness”

«If Max Weber were alive today, he would definitely write a second, supplementary, volume to his Protestant Ethic, entitled The Taoist Ethic and the Spirit of Global Capitalism».

Così il filosofo sloveno Slavoj Žižek, a proposito dell’ideologia “new age” che guida la classe dirigente del nuovo capitalismo. A citarlo è, in un articolo per «The New Republic», Evgeny Morozov, esperto di new media bielorussso noto per le sue posizioni avverse al “cyber-ottimismo”.

Morozov si collega alle parole di Žižek per costruire un’argomentazione critica nei confronti della moda della “mindfulness”. Che l’espressione sia tanto diffusa quanto oscura è di fronte agli occhi di tutti, tanto che Morozov la descrive come la nuova “sostenibilità” (senza dubbio una delle categorie più abusate dell’ultimo decennio).

Quanto Morozov nota della mindfulness – interpretata soprattutto come volontà di “disconnessione” – è la viziosità del circolo che da ciò che la origina conduce alle sue soluzioni. L’artificialità degli stimoli in relazione ai quali nasce il bisogno di essere “mindful” corrisponderebbe fin troppo bene all’artificiosità delle risposte messe in atto da chi se ne professa seguace. Non a caso, tanto stimoli quanto risposte hanno origine dallo stesso substrato culturale, cioè quello di Silicon Valley (di qui il rimando a Weber, tramite Žižek). Soprattutto, la nota più debole del movimento della mindfulness sarebbe – secondo Morozov – l’incapacità di superare un approccio individuale “reazionario” per costruire una più autentica emancipazione su base collettiva.

[ illustrazione: uffici di Google a Tel Aviv ]

 

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CONCETTI, LAVORO, PERCEZIONE, SOCIETÀ

In cerca del silenzio, nuova frontiera del business

Se vi è capitato di acquistare, ben disposti al sovrapprezzo, un biglietto di treno che promette “area silenzio”, sapete di cosa si parla. Lo sapete anche se siete acquirenti di automobili ed elettrodomestici “silenziosi” o cuffie “noise-canceller” (comprate magari per contrastare gli effetti di un open-space lavorativo). Nonostante John Cage abbia dimostrato in tempi non sospetti che il silenzio non esiste, il business che riguarda la sua ricerca pare essere molto concreto. Un recente articolo della rivista «The New Republic» ne segue le tracce.

La ricerca del silenzio trae origine, più che dalla percezione di crescenti disturbi sonori in termini di decibel (per la cronaca, le città italiane più rumorose del 2013 risultano Roma, Milano, Genova e Napoli), da una brama di “assenze” intese come sinonimo di purezza e riconquistata originarietà. I vari slogan del “senza tossine/grassi/conservanti/eccipienti/”, fino al classico “senza zucchero”, paiono  rispondere a una simile ricerca di sottrazione. Tornando sul piano sonoro, secondo lo studioso Jonathan Sterne, autore del testo The Audible Past: Cultural Origins of Sound Reproduction (2003), il silenzio sarebbe diventato una metafora particolarmente calzante per la ricerca di una condizione utopica e irraggiungibile, agognata in reazione al cosiddetto rumore di fondo (in certi casi letterale, ma soprattutto simbolico) della quotidianità.

[ illustrazione: fotogramma dal film The Artist di Michel Hazanavicius, 2011 ]

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ARCHITETTURA, CITAZIONI, MUSICA

Genealogia di una citazione

«Scrivere di musica è come ballare di architettura».

In Panegirico (pubblicato postumo) Guy Debord – il cui nome è indissolubilmente legato al situazionismo e alla pratica del détournement – nota che «le citazioni sono utili nei periodi ignoranza o di credenze oscurantiste». A questo proposito sarebbe interessante indagare il legame tra citazioni e postmodernismo, ma questo richiederebbe molto spazio. Più modestamente, intendo qui soffermarmi su una delle citazioni che incontro con maggior frequenza, cioè quella riportata in cima a queste righe. Inizialmente pensavo fosse attribuibile a Frank Zappa (e nel 90% dei casi la si trova associata proprio a lui), ma poi, quando ho cominciato a incontrarla accostata anche ai nomi di Thelonious Monk, Elvis Costello e altri, ho scoperto che la questione della sua attribuzione è molto complessa.

Il sito web Quote Investigator ha messo in atto un insospettabilmente serio lavoro di ricerca per scoprire l’origine del celebre detto. La sua prima comparsa su carta stampata risale al 1979, quando ben due riviste musicali americane la attribuiscono al comico e cantante americano Martin Mull nella forma «talking about music is like dancing about architecture».  Poi, nel 1985, il Los Angeles Times attribuisce queste parole a Zappa. Negli anni seguenti hanno luogo molte altre attribuzioni, principalmente riconducibili a musicisti. Due delle più rilevanti sono quelle a Laurie Anderson ed Elvis Costello, i quali hanno tuttavia negato di esserne autori. La prima ha attribuito la paternità della citazione al comico Steve Martin, il secondo di nuovo a Martin Mull. Quest’ultimo, in base all’investigazione del sito, pare essere l’autore più probabile.

Nel 2000 qualcuno ha provato a domandare direttamente a Mull se la paternità fosse davvero sua: pare che la sua risposta sia stata affermativa, ma dato che questo riscontro proviene dal web – e da una fonte di terza mano – Quote Investigator lo accetta con un certo scetticismo (atteggiamento interessante e forse autoironico, dato che Quote Investigator altro non è, a asua volta, che un sito web).

A ogni modo la frase, anche se in forme diverse, sembrerebbe molto più antica del 1979. Pare sia apparsa, nella forma «writing about music is as illogical as singing about economics», in un articolo della rivista americana «The New Republic» datato 1918. L’autore non è noto.

[ illustrazione: Grant Snider ]

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