CONCETTI, CULTURA, SOCIETÀ

Il ruolo dell’intellettuale (secondo Tomás Maldonado)

Nel saggio del 1995 Che cos’è un intellettuale?, Tomás Maldonado si cimenta con l’analisi critica di una delle categorie più problematiche – e nonostante tutto cruciali – dell’epoca moderna e contemporanea.

Dopo aver individuato l’origine del concetto di intellettuale (e soprattutto del discorso a suo riguardo) nella Francia di fine Ottocento – e nello specifico in coincidenza con l’affare Dreyfus e il J’accuse di Félix Faure – Maldonado si cimenta tanto col cercarne antecedenti nell’antichità quanto nel leggerne gli sviluppi che conducono all’epoca contemporanea. Centrale rispetto alla “crisi” del ruolo dell’intellettuale sviluppatasi nel corso del ‘900 è la sua sovrapposizione con la figura dell’esperto o, se si preferisce, dello specialista di una disciplina scientifica o umanistica. Come Maldonado mostra in maniera eloquente, la svolta specialistica ha rappresentato un’interpretazione deteriore e riduttiva della figura originaria dell’intellettuale:

«Di norma, quello che noi chiamiamo ora intellettuale era un uomo che esercitava molti mestieri e che, pertanto, era impegnato personalmente nei più svariati ambiti dell’agire sociale. Nella stragrande maggioranza, gli intellettuali del passato sono stati, per così dire, uomini multiuso. Non assolvevano nella società un unico ruolo, ma molteplici. La ragione è ovvia. A pochi privilegiati era consentito “vivere del proprio mestiere”».

Un ulteriore tema critico riguarda il ruolo “oracolare”, cioè di influenza sull’opinione pubblica, che la figura dell’intellettuale ha perso nel corso del tempo. Questo, secondo l’autore, sarebbe accaduto soprattutto a causa dei media, che fungono da oracoli del nostro tempo. Maldonado scrive nel 1995, anni in cui era fra i primi in Italia a occuparsi di internet e di “reale e virtuale”. Difficile dunque non pensare al ruolo che la crescita di internet ha in seguito avuto nel propiziare una “parcellizzazione oracolare” che si estende oggi fino ai post e ai commenti dei social network, rendendo ancora più difficile la legittimazione di un’opinione forte e dunque il netto riconoscimento di figure intellettuali.

[ illustrazione: Francis Bacon, Study for Self-Portrait – 1985 ]

ARTE, COMPLESSITÀ, CULTURA, DIVULGAZIONE, MUSICA, POLITICA, SOCIETÀ

CIA e propaganda, da Pollock ai Nirvana

Un breve saggio del musicista e autore Adam Krause cerca di analizzare il ruolo rivestito da arte e musica all’interno della propaganda culturale sotterranea agita dalla CIA a partire dall’epoca della Guerra Fredda.

Rispetto all’arte visiva, quanto emerge dall’indagine – che si rifà a varie fonti raccolte nel corso degli anni e quindi non può considerarsi esattamente inedita – è la spiccata “preferenza” manifestata dalla CIA per l’espressionismo astratto, con una particolare connessione con il MOMA di New York e, ancor più nello specifico, con l’opera di Jackson Pollock. Per quali motivi l’action painting di Pollock è risultato così affine all’orientamento della CIA? Krause si esprime così:

«A lone cowboy figure like Pollock, born in Wyoming and transplanted to New York, heroically flinging paint with reckless abandon. The visual embodiment of “freedom.” Pure form. No content. Just an ideologically empty vessel waiting to be filled. And filled it was, as the CIA politicized this otherwise apolitical art, and by the power of the American dollar, helped make New York City the center of the art world».

Krause cerca di costruire anche rispetto alla musica un’interpretazione – in questo caso non comprovata da documenti attendibili e quindi più originale – del ruolo di sostegno svolto dalla CIA nei confronti di alcuni generi o artisti. Krause si focalizza in particolare sulla musica degli anni ’90 e sul raffronto fra due generi per molti versi distanti quali hip-hop e grunge:

«And is it really such a “coincidence” that “grunge” was heavily marketed to white suburban youth, inspiring them to strum guitars and mumble about their personal sadness, just as Public Enemy and NWA were successfully telling these same young people about the systemic racism of the United States? Why wouldn’t the CIA prefer flannel shirts to Malcolm X hats as the main sartorial signifier at suburban malls? Why would the U.S. Government want Chuck D saying “Fight the Power,” when it could have Kurt Cobain’s “Oh well, whatever, never mind”?»

[ illustrazione: Jackson Pollock in his East Hampton studio, summer 1950 – foto di David Lefranc ]

COLLABORAZIONE, COMPLESSITÀ, CONCETTI, LAVORO, MANAGEMENT, TEORIE

Ma che cos’è davvero la holacracy?

Un articolo di Steve Denning per Forbes mette in atto un’utile chiarificazione di alcuni aspetti centrali della logica organizzativa holacracy, recentemente salita alla ribalta delle cronache internazionali per via della sua adozione da parte dell’azienda americana Zappos. Le osservazioni contenute nell’articolo si basano su un’analisi della corposa”constitution” dell’approccio.

Il primo aspetto su cui Denning si sofferma è la supposta avversione alle gerarchie che molti articoli hanno attribuito alla logica holacracy. In realtà, ogni gruppo di lavoro – definito “circolo” è sì dotato di autonomia gestionale, ma strettamente dipendente quanto all’assegnazione di obiettivi dal circolo gerarchicamente superiore. In termini di lavoro per obiettivi, questo approccio non si distanzia dunque da quanto praticato da altri approcci organizzativi.

Un ulteriore “mito” su olacracy sfatato da Denning riguarda la dichiarata assenza di figure manageriali. Qui la questione è in verità molto semplice: se pur a fronte della dismissione del termine “manager”, il sistema prevede la presenza di ruoli e responsabilità altrove tipicamente etichettati in questo modo. Si tratterebbe quindi solo di una questione terminologica ed “estetica”.

Dalla lettura critica di Denning emerge un importante aspetto finora non messo in luce da altri commentatori, cioè il ruolo di secondo piano attribuito dalla holacracy alla figura del cliente. In questo senso, holacracy si mostra come una filosofia organizzativa molto autoriferita e priva di reali meccanismi di feedback con il cliente. Questo costituisce, secondo Denning, un aspetto decisamente critico soprattutto per le startup e limiterebbe quindi un efficace impiego della holacracy a imprese già solide rispetto al rapporto con i propri clienti (il caso di Zappos rientrerebbe secondo Denning in quest’ultima categoria).

[ illustrazione: Alexander Calder, Les Pyramides Grandes, 1973 ]

METAFORE, PAROLE

L’origine omerica dell’aggettivo “stentoreo”

Quale è l’origine dell’aggettivo “stentoreo”, che usiamo riferire a chi è dotato di una voce particolarmente potente?

Nell’Iliade di Omero compare – per la verità in una sola circostanza – un soldato dalla voce potente quanto quella di una una tromba. Non a caso, in lui si incarna la dea Era/Giunione per esortare i Greci alla battaglia:

«Presa la forma di Stèntore, che voce avea di ferro e pareggiava di cinquanta il grido, Giuno sclamò: Vituperati Argivi, mere apparenze di valor, vergogna!».

È dunque in relazione a questo personaggio epico “minore” che l’aggettivo entra in uso prima nella lingua latina e poi in quella italiana.

[ illustrazione: William Kentridge, schizzo per The Refusal of Time, 2011 ]

APPRENDIMENTO, BIGDATA, COMPLESSITÀ, CONCETTI, EPISTEMOLOGIA

Postmoderno e big data: “mode” diverse, simili fallacie

Un recente articolo del magazine on-line The New Inquiry mette in relazione le modalità conoscitive della logica del postmodernismo e quelle dei big data. Il tratto comune attribuito ai due modelli – oltre a quello di essersi proposti come “mode” epistemologiche –  è un approccio critico nei confronti dei dati empirici e della costruzione di senso. Entrambi i modelli sono inoltre figli di periodi storici caratterizzati da incertezza e messa in discussione di valori tradizionali. Quanto alle differenze, emerge quanto segue:

«Whereas Big Data sees a plurality of data points contributing to a singular definition of the individual, postmodernism negates the idea that a single definition of any entity could outweigh its contingent relations».

Quanto sfugge all’articolo è che, a fronte del costitutivo relativismo tipico della logica postmoderna, la forma mentis dei big data non offre di certo un paradigma conoscitivo più saldo. Detto altrimenti: la grande, spesso cieca fiducia nella potenza di calcolo dei big data nasconde una netta ammissione di ignoranza. La complessità che i big data sembrano essere in grado di abbracciare e fotografare non può essere spiegata risalendo ai suoi elementi primi, che se isolati restano dati insignificanti. Un osservatore non potrà dunque mai comprendere esattamente le ragioni di quel che accade. Sarà costretto a limitarsi ad applicare interpretazioni soggettive a dati la cui stessa evidenza è un atto di fiducia nei confronti di una macchina. Da questo punto di vista, dunque, i big data appaiono tanto relativisti ed epistemologicamente negativi quanto lo è stato il postmodernismo.

[ illustrazione: particolare da un’illustrazione del gruppo di pixel art eBoy ]

COMUNICAZIONE, PERCEZIONE, SCIENZA, STORIE, TECNOLOGIA

Atul Gawande e i differenti destini delle innovazioni

«This has been the pattern of many important but stalled ideas. They attack problems that are big but, to most people, invisible; and making them work can be tedious, if not outright painful».

Così si esprime, in un corposo articolo per il New Yorker, Atul Gawande, medico e giornalista statunitense autore del best-seller Checklist (2010). Quanto messo in luce riguarda la distanza tra l’efficacia sperimentale di una innovazione e la sua reale opportunità di utilizzo. Per motivare la sua tesi Gawande utilizza due esempi legati all’avanzamento della pratica medica: l’introduzione dell’anestetico e quella dell’antisettico.

La storia della diffusione dell’anestetico è sorprendente quanto a velocità, soprattutto se letta rispetto al suo contesto storico: nel novembre 1846 il medico di Boston Jacob Bigelow (1787-1879) rese pubblico su una rivista medica locale il risultato delle sue sperimentazioni con l’etere a fini sedativi. Nel febbraio 1847, in seguito a un giro di passaparola legato a incontri, lettere e pubblicazioni su riviste, l’anestesia in sala chirurgica si era già imposta come prassi in tutte le capitali europee.

Il caso dell’antisettico ha un esordio molto simile. Sulla base di alcune sperimentazioni di Louis Pasteur, il medico scozzese Joseph Lister (1827-1912) mise a punto un metodo per disinfettare le mani medici prima delle operazioni, riducendo così i rischi di setticemia. Pubblicò il suo resoconto scientifico a riguardo nel 1867, disponendolo a un successo simile a quello di Bigelow. Così non fu. A distanza di venti anni dal lavoro di Lister, le vecchie, antigieniche (e mortali) procedure da sala operatoria continuavano a essere usate. L’introduzione di pratiche realmente antisettiche impiegò per la sua diffusione oltre una generazione.

Come mai andò così? La spiegazione di Gawande si focalizza su un primo aspetto centrale: mentre una delle due innovazioni si indirizzava a un problema visibile (il dolore), la seconda era rivolta a qualcosa di invisibile (i microbi causa di infezioni). Nessuna sorpresa, quindi, che l’anestesia abbia avuto una più immediata comprensione e diffusione. In secondo luogo – aspetto forse ancora più cruciale – l’anestesia risultava per i medici una procedura semplice (e che metteva fuori gioco il paziente), mentre l’antisettico li obbligava a entrare in contatto con una sostanza sgradevole e in grado di bruciare l’epidermide al contatto.

Astraendo dai due casi, il principale apprendimento rimanda alla citazione iniziale: benché molte innovazioni si basino su un comprovato terreno di ricerca e sperimentazione, la loro applicazione spesso si arresta perché comprendere il loro effettivo valore non è unanimemente semplice e immediato e perché praticarle risulta molto oneroso. E questo accade tanto in sala operatoria quanto in azienda.

[ illustrazione: dagherrotipo del 1846 con la messa in scena di un’anestesia generale presso il Massachusetts General Hospital, di Boston ]

COLLABORAZIONE, COMPLESSITÀ, CONCETTI, LAVORO, MANAGEMENT, TEORIE

Zappos dice addio alla gerarchia grazie alla holacracy

È recente notizia l’ingresso di Zappos (impresa americana parte del gruppo Amazon e leader nell’e-commerce di calzature) nel novero delle aziende aderenti alla filosofia organizzativa della “holacracy”. Questo termine si ispira ai concetti di “olone” e “olarchia” elaborati da Arthur Koestler (1905-1983) nel testo Ghost in the Machine (1967): un olone rappresenta, all’interno di un sistema complesso, un elemento individuale relazionato a una moltitudine di altre entità. In termini di governance aziendale, la holacracy intende rifarsi a questo approccio sistemico dando vita a una struttura organizzativa in cui autorità e decisioni non sono emanazione di una scala gerarchica ma si sviluppano in maniera flessibile a partire da una rete di relazioni aperta.

Questo approccio organizzativo – vicino alle logiche agile e lean – è nato nel 2007 grazie alla sperimentazione condotta su una piccola startup di software, il cui fondatore Brian Robertson ha in seguito dato vita all’attività consulenziale oggi conosciuta sotto il nome di Holacracy. Secondo il parere di Robertson, il principale problema delle organizzazioni divisionali sarebbe legato al prevalere dei meccanismi di potere a scapito della concentrazione sul reale contenuto del lavoro. Per questo motivo, la holacracy mette al centro i ruoli e annulla il potere gerarchico delle posizioni (processo attualmente in corso in Zappos). In questo modo il sistema promette di gestire le attività secondo una “naturale” acquisizione di compiti e task che prende le mosse dall’organizzazione autonoma di “circoli” in grado di programmare, organizzare e valutare autonomamente il proprio lavoro.

[ illustrazione: Alexander Calder, Black Pyramids, 1970 ]

METAFORE, PERCEZIONE, STORIE

Titanic e Olympic: la forza simbolica degli eventi tragici

La storia del transatlantico britannico Titanic, varato il 10 aprile 1912 e affondato il successivo 15 aprile, è nota a tutti, se non altro grazie ai molti film che ne hanno parlato (quello del 1997 di James Cameron non è infatti l’unico). Meno noto è che il Titanic aveva due navi gemelle, il Britannic e l’Olympic.

Il Britannic venne messo in uso nel 1914 e dopo l’inizio della Prima guerra mondiale e fu utilizzato come nave ospedale fine al 1916, quando venne affondato nel Mar Egeo da una mina navale tedesca.

L’Olympic fu la prima delle tre navi a entrare in servizio, nel 1911. Subì immediatamente uno stop, dovuto a un incidente con l’incrociatore Hawke. Quest’ultimo rimase distrutto, mentre l’Olympic tornò in cantiere per riparazioni trovandosi per qualche tempo di fianco al Titanic, ancora in fasi di ultimazione. In breve la nave fu di nuovo in mare e venne utilizzata per trasporto passeggeri fino all’inizio del conflitto bellico, quando venne messa al servizio dell’esercito inglese e adibita al trasporto truppe. Tornò al trasporto passeggeri nel 1920 per rimanere attiva fino al 1934, anno in cui ebbe un incidente con la nave americana Nantucket, per il cui equipaggio l’evento fu fatale. In questo stesso anno la nave intraprese il suo ultimo viaggio, verso New York. Venne in seguito spogliata dei suoi ricchi arredi interni e infine demolita.

La storia di queste tre navi gemelle è un monito nei confronti della parzialità delle nostre memorie e del ruolo simbolico che affidiamo agli eventi. Il fatto che nel corso del tempo la tragica storia del Titanic abbia alimentato la nostra fantasia (filmica e più in generale metaforica) molto più di quella di successo dell’Olympic, di fatto sopravvissuto a ben due incidenti, dovrebbe dare da pensare.

[ illustrazione: l’Olympic fotografato nel 1911 in arrivo a New York ]

CINEMA, ECONOMIA, LAVORO, SOCIETÀ

Scorsese, Virzì e il capitalismo finanziario

The Wolf of Wall Street (2013) di Martin Scorsese e Il Capitale Umano (2014) di Paolo Virzì, benché accostabili in nome di una comune attenzione alla “finanzia creativa”, hanno a ben vedere poco da spartire. Al di là dell’essere ambientati in epoche differenti (per quanto il film di Scorsese giunga nelle sue immagini conclusive fino ai nostri giorni), quel che soprattutto distanzia i due racconti è il modo in cui i loro registi – e, si potrebbe dire, la cultura che rappresentano – mettono in scena storie di arricchimento basato su principi decisamente poco etici.

Scorsese guarda da vicino alla vicenda di Jordan Belfort (dal cui libro autobiografico il film è tratto) e partecipa alle sue scorribande con uno spirito di divertita indulgenza. Il messaggio che traspare – peraltro esplicitato da alcune battute chiave del film – è che nella situazione vissuta da Belfort fosse davvero difficile comportarsi altrimenti. Del resto Belfort ha pagato il suo debito con la giustizia e si è in seguito reinventato, a chiudere il cerchio della redenzione e del valore simbolico della sua parabola, come “motivational speaker”.

Da parte sua, Virzì non ha l’opportunità di guardare con distacco a una vicenda reale, ma trae spunto da un testo di fiction (il film è basato sull’omonimo romanzo dell’americano Stephen Amidon) per calarlo nella contemporaneità italiana. Quest’ultima è troppo vicina per essere guardata con un’ironia che non sia tragicomica – da qui l’evidente parentela del film con la classica commedia all’italiana degli anni ’60-70 – e come conseguenza l’atteggiamento del regista è, come simboleggiato dalle frequenti inquadrature in campo largo, di critica distanza dai suoi personaggi.

In definitiva, laddove Scorsese esorcizza i misfatti del “lupo” di Wall Street usando l’ironia e presupponendo la redenzione (ponendosi all’interno della filmografia americana come contraltare al dittico su Wall Street di Oliver Stone), Virzì descrive con preoccupato e impotente sdegno una vicenda che è ancora da metabolizzare. Lo scambio di battute simbolo del film, quello ripetuto in questi giorni in ogni articolo a riguardo, è in questo senso piuttosto chiaro:

«- Avete scommesso sulla rovina del nostro paese e avete vinto.
– ABBIAMO vinto: ci sei anche tu».

[ illustrazione: foto di scena da Il Capitale Umano di Paolo Virzì, 2014 ]

BIGDATA, LAVORO, LETTERATURA, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

“Il cerchio” di Dave Eggers e il pericoloso potere dei dati

«But my point is, what if we all behaved as if we were being watched? It would lead to a more moral way of life. Who would do something unethical or immoral or illegal if they were being watched?»

Così si esprime uno dei personaggi principali di Il cerchio (2013) di Dave Eggers. Pur non contraddistinto da grande valore letterario, il romanzo rappresenta una puntuale riflessione sulla direzione in cui lo sviluppo delle tecnologie “social” ci sta conducendo, sia dal punto di vista della creazione di monopoli economici (su tutti: Google e Facebook) che da quello della tutela della privacy. Quanto Eggers descrive nel suo libro ha ben poco di fantascientifico e potrebbe tranquillamente realizzarsi nel giro di pochi anni.

Un sotto-tema che emerge con forza dal testo è quello dei “big data”, intesi tanto come strumento di personal tracking quanto come risorsa economica a disposizione dei colossi informatici. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, l’enorme potere delle informazioni aggregate rappresenta un inedito strumento di controllo che si sta progressivamente concentrando nelle mani di pochi decisori. Le riflessioni di Eggers qui si avvicinano molto a quelle di uno dei più attenti osservatori dei fenomeni mediatici, cioè Evgeny Morozov.

Sul fronte dell’impatto dei social media sugli individui, Eggers si allinea con quanti sostengono che la tensione a controllare e rendere pubblico praticamente ogni aspetto della propria vita rischi di condurre a pericolose derive dei rapporti sociali e a nuove psicopatologie. Un interessante spunto su questo tema ha a che fare con i cambiamenti delle modalità lavorative: se quasi venti anni fa Jeremy Rifkin parlava di La fine del lavoro (1995), quanto The Circle preconizza è un abbattimento delle barriere tra vita lavorativa e privata in cui la spettacolarizzazione e pubblicità di entrambe le sfere diventa un potentissimo driver di “conversioni economiche” all’interno di qualsiasi momento dell’esistenza.

[ illustrazione: particolare dalla copertina di The Circle di Dave Eggers ]