CONCETTI, INDUSTRIA, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT

Innovazione organizzativa: da ideologia a prassi

L’innovazione, processo fondamentale per la sopravvivenza di qualsiasi organizzazione all’interno di un mercato competitivo, è spesso ridotta a mera ideologia. Principali responsabili di questa distorsione percettiva sono le pubblicazioni manageriali sul tema, la cui presenza sugli scaffali delle librerie aumenta di anno in anno. Il problema della maggior parte di questi libri è duplice: da un lato presentano l’innovazione come un fine (e non come un mezzo); dall’altro forniscono l’illusoria promessa di “ricette dell’innovazione” applicabili in qualsiasi contesto. Qual è il risultato di questo tipo di propaganda? Un’applicazione generalizzata del linguaggio dell’innovazione, una conoscenza superficiale di casi di studio di successo. E poco altro. Soprattutto, pochissimi cambiamenti nei processi e nelle pratiche lavorative. Un articolo pubblicato dalla «Stanford Social Innovation Review» (basato su una ricerca condotta per la Rockfeller Foundation) analizza la questione sotto una nuova luce.

Anzitutto, l’innovazione non va intesa come un risultato, ma come un processo. In questo senso, ogni organizzazione dovrebbe mettere in atto un serio lavoro di analisi dei propri processi, facendo molta attenzione a distinguere l’innovazione cosiddetta “radicale” da quella incrementale. In molti casi – l’articolo cita quello dell’ospedale oftalmico Aravind di Madurai (India) – applicare uno stravolgimento delle pratiche organizzative che replica su larga scala quanto funzionato in un contesto limitato può portare a risultati nefasti. Questo implica che, soprattutto per quanto riguarda ambienti caratterizzati da povertà diffusa come quello di Madurai, un’innovazione incrementale basata su un sistema di competenze strutturato può funzionare molto meglio di cambiamenti radicali che non tengono in adeguata considerazione il contesto di riferimento. Comprendere tutto questo sembra estremamente razionale; tuttavia, come notano gli autori dell’articolo, l’impegno e il lavoro di routine non risulteranno mai “sexy” quanto l’innovazione radicale.

Un secondo tema di attenzione riguarda il sottovalutare i propri errori inerenti all’innovazione. Citando un secondo caso indiano, quello della non profit del settore idrico Gram Vikas, l’articolo mette in luce come imparare dai propri tentativi falliti di innovazione significa soprattutto mappare il proprio contesto di riferimento e rimuovere le barriere interne che ostacolano gli sviluppi innovativi. Soprattutto quest’ultimo punto è fondamentale per qualsiasi organizzazione: a fronte della faciloneria degli slogan della letteratura di settore, costruire una prassi dell’innovazione significa soprattutto imparare a superare gli ostacoli interni – nel 90% dei casi di matrice manageriale e culturale – che possono bloccare in partenza qualsiasi iniziativa di sviluppo. In mancanza di un’attenzione di questo tipo, i progetti di innovazione continueranno a suonare ideologici quanto le “diete miracolo” che promettono di far perdere sette chili in sette giorni.

[ illustrazione: Albert Edelfelt, Ritratto di Louis Pasteur, particolare – 1885 ]

ANTROPOLOGIA, BENI CULTURALI, CONCETTI

I beni culturali: oggetti o cose?

Quando si parla di beni culturali, la questione del rapporto fra substrato materiale e valore simbolico-immateriale è una delle più critiche. I monumenti, così come i quadri, le sculture, gli edifici, sono cose. O sono oggetti? La legislazione italiana definisce i beni culturali come “cose immobili e mobili”, ma purtroppo nelle sue pagine la parola “cosa” è priva di un’adeguata contestualizzazione.

Per disporre la parola “cosa” a un’analisi più accurata, è di aiuto affiancarla al termine “oggetto” e seguire una riflessione del filosofo Remo Bodei dedicata proprio a questa relazione. Nel suo La vita delle cose (2009), Bodei prende le mosse dall’indagine etimologica e sottolinea la natura profondamente diversa delle parole “cosa” e “oggetto”, usate per descrivere differenti modi di relazionarsi a entità di natura fisica.

L’oggetto è, seguendo Bodei, il referente di una relazione funzionale spesso conflittuale (in latino “obicere” significa “gettare contro”), che viene risolta nei termini di un assoggettamento, vale a dire di un piegarsi dell’oggetto al volere imposto dall’uomo.

La cosa è invece il risultato di un investimento emozionale: il soggetto vive con essa una relazione che scaturisce da attribuzioni di significato non funzionali – o, se si preferisce, disinteressate. In questo caso l’etimologia del termine, proveniente dal latino “causa” – che indica qualcosa di così importante da mobilitarci in sua difesa (da cui il detto “combattere per una buona causa”) – , trasmette tutta l’affezione emotiva implicata da questo tipo di rapporto.

Il passaggio dagli “oggetti” alle “cose” descrive bene la trasformazione di un’entità fisica dotata di un valore prettamente funzionale (per esempio un edificio) in una nuova entità, insieme fisica e simbolica, che per convenzione chiamiamo “bene culturale”. Ecco perché, seppur in maniera probabilmente inconsapevole, la legislazione ha ragione a definire i beni culturali come cose.

[ illustrazione: Giovanni Paolo Pannini, Galleria immaginaria di vedute di Roma antica, 1756 ]

ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, FILOSOFIA, LAVORO, MANAGEMENT, TECNOLOGIA

Arnold Gehlen e i danni dell’iper-specializzazione lavorativa

Il filosofo e antropologo tedesco Arnold Gehlen (1904-1976) è noto per le sue riflessioni sulla natura umana, incentrate sul superamento del dualismo cartesiano mente-corpo. Al centro del suo pensiero – di cui è sintesi l’opera L’uomo (1940-1950) – è una filosofia dell’azione che legge la storia umana come una somma di atti produttivi. L’uomo è caratterizzato da uno stato di non-definizione che lo contraddistingue dall’animale e che lo limita dal punto di vista delle possibilità fisiche. Questa condizione è tuttavia il punto di partenza per un progetto di “esonero” dalla mancanza, cioè una liberazione dagli obblighi e dai difetti naturali condotta attraverso un’emancipazione agita grazie a cultura e tecnica. L’uomo è dunque un essere non specializzato che vive grazie alla sua continua appropriazione del mondo.

Centrale, all’interno del discorso di Gehlen, è la considerazione della tecnica. In particolare nell’opera L’uomo nell’era della tecnica (1957), lo studioso tedesco mette in luce le conseguenze, spesso indesiderate, dell’affermazione del paradigma tecnico corrispondente alla forma di produzione industriale e capitalistica. Molte delle sue riflessioni riguardano il mondo del lavoro e la diffusione di una forma mentis che, per paradosso rispetto all’originaria non-specializzazione su cui è basato l’intero approccio di Gehlen, rende l’uomo un esperto che si allontana sempre più dalla vita quotidiana in cerca del “rendimento totale” propagandato dalle più avanzate evoluzioni tecnico-industriali.

Dalle parole di Gehlen emerge una lettura delle difficoltà di comprensione del proprio ruolo vissute dall’uomo aziendale, con pesanti conseguenze per il senso di appropriazione e responsabilità del proprio fare:

«Se uno ha l’impressione di essere soltanto una rotella facilmente sostituibile e un po’ consumata del gran meccanismo; se è convinto, e del resto con ragione, che questo funzionerebbe anche senza di lui, e se non vede mai le conseguenze del suo agire, ovvero non le vede che cifrate in linguaggio numerico e geometrico o addirittura unicamente sotto forma del conteggio della sua paga, il suo senso di responsabilità dovrà diminuire nella stessa proporzione con cui aumenta la sua sensazione di abbandono».

[ illustrazione: Giacomo Balla, particolare da Numeri innamorati, 1920 ]

ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, FRUGALITÀ, INDUSTRIA, INNOVAZIONE, LAVORO, TECNOLOGIA

Dopo i maker, ecco i fixer, nuova frontiera del DIY

Sai come funziona il tuo computer? Sapresti cambiarne l’hard-disk o la scheda madre? E reinstallare il sistema operativo? Domande come queste, per lo meno le prime due, generano inquietudine nell’utente medio di computer, cioè nel 99% delle persone. In aiuto a chi decide di fare da sé, non mancano suggerimenti on-line raccolti da siti come lifehacker o affini. Insomma, a patto di essere disposti a rimboccarsi le maniche, on-line c’è una soluzione per quasi ogni problema legato ai nostri apparecchi elettronici.

Oggi c’è chi, sostenuto non a caso dalla rivista «Wired» (già apripista per il movimento dei maker), reclama la necessità di mettere a punto una filosofia dell’arte di “accomodare” i propri gadget tecnologici. Ecco dunque una nuova etichetta, “fixer”, e un nuovo manifesto, prodotto dal sito web di suggerimenti per la riparazione iFixit. Intervistato da «Pagina99», Miroslav Djuric di iFixit racconta lo spirito dei fixer con queste parole:

«Essere in grado di aggiustare il tuo pc o la tua auto significa sapere di più non solo su quello che fanno, ma su come lo fanno. E instilla in te un nuovo senso di proprietà, che non nasce con il mero atto dell’acquisto».

Fenomeno tutto americano, i fixer sono parenti stretti dei maker, discendenti dell’ampio filone del DIY e, andando più indietro del tempo, dell’Arts and crafts movement di origine anglosassone. Non si limitano a fornire guide on-line per le riparazioni e ad aprire “repair café” sul territorio. Sono anche innovatori dotati di uno spirito decisamente jugaad, capaci di lanciare nel mercato prodotti come la felpa garantita per almeno dieci anni o il mastice attacca-tutto. Al riparare si affianca il ritorno a produrre cose fatte per durare, innestando una controtendenza che punta al consumo sostenibile e al risparmio.

[ illustrazione: particolare di una tavola da La nascita di un sogno, storia a fumetti dedicata al brand Ferragamo dall’illustratore Frank Espinosa ]

CULTURA, INDUSTRIA, LAVORO, LETTERATURA, MANAGEMENT

Il ruolo dell’intellettuale in azienda, secondo Ottiero Ottieri

Ottiero Ottieri (1924-2002) è uno dei protagonisti della letteratura industriale italiana, nonché membro di un privilegiato gruppo di intellettuali scelti da Adriano Olivetti per il suo progetto industriale insieme scientifico e umanistico (fra gli altri: Giovanni Giudici, Franco Fortini, Paolo Volponi, Leonardo Sinisgalli, Geno Pampaloni, Libero Bigiaretti). L’esperienza in Olivetti è raccontata da Ottieri, oltre che nella sua opera più celebre Donnarumma all’assalto (1959), in una raccolta di taccuini redatta fra il 1948 e il 1958 e pubblicata prima sulla rivista «Menabò» come Taccuino Industriale e infine, nel 1963, per l’editore Bompiani con il titolo La linea gotica.

L’arco temporale 1948-1958 è per Ottieri cruciale nella formazione del suo punto di vista rispetto all’azienda industriale italiana. Giovane di buona famiglia e intellettuale mai davvero integrato, Ottieri si avvicina al mondo delle grandi aziende anzitutto per comprendere se stesso e il proprio tempo, muovendosi tra Roma e Milano e memore della propria gioventù toscana (luogo sentimentale in cui si colloca la personale  “linea gotica” del titolo).

Da un passaggio aziendale all’altro – cruciale quello dallo stabilimento Olivetti di Pozzuoli, spunto per molte osservazioni di questo testo e del già citato Donnarumma all’assalto – , Ottieri si confronta con l’ethos aziendale e con i suoi strumenti (su tutti, la gestione delle risorse umane e la psicotecnica), senza riuscire a giungere a una sintesi fra elementi costruttivi e contraddizioni del proprio ruolo. In questo senso, le parole di Ottieri costituiscono una testimonianza fondamentale per riflettere sul ruolo dell’intellettuale in azienda, figura del resto ormai scomparsa.

«Visto che lavoro molto, tutto il giorno, potrei diventare un dirigente […]. Il mondo lo vuole. Il buon senso lo vuole. Ma un intellettuale ha, per assurdo, una mentalità da operaio, che, sgobbando, sogna i soldi facili, la libertà. Delude il mondo, perché la sera aspetta il campanello per fuggirsene a casa, dove incomincia un pezzettino di vita».

[ illustrazione: stabilimento Olivetti di Pozzuoli, operai del reparto presse, anni ’50 ]

APPRENDIMENTO, CULTURA, DEMOCRAZIA, DIVULGAZIONE, LAVORO, POLITICA, SCUOLA, SOCIETÀ

Piero Calamandrei: la scuola e le radici della democrazia

Piero Calamandrei (1889-1956) è stato scrittore e giurista di chiara fama, tra i fondatori del Partito d’Azione e da sempre antifascista e parte attiva della Resistenza. Il volume del 2008 Per la scuola raccoglie tre testi (due discorsi pubblici e un articolo) risalenti al periodo 1946-1950 e dedicati al tema dell’istruzione pubblica.

Per Calamandrei l’istituzione scolastica, pubblica e laica, è l’organo centrale della democrazia, l’unico in grado di garantire la costruzione di una classe dirigente basata sul merito e sulla mobilità sociale. Rileggere gli scritti di Calamandrei e confontarne le tesi con la politica scolastica italiana degli ultimi 50 anni significa comprendere retrospettivamente le ragioni di un fallimento nazionale che è civile, sociale ed economico. Leggere e fare leggere le sue pagine dovrebbe essere una prerogativa di chiunque si occupi di apprendimento ed educazione, a ogni livello. Un buon punto di partenza per recuperare il pensiero di Calamandrei è questo splendida metafora:

«Quando io penso a questo concetto della classe dirigente aperta in continuo rinnovamento, che deriva dall’affluire dal basso di questi elementi migliori, cui la scuola deve dare la possibilità di affiorare, mi viene in mente (se c’è qui qualche collega botanico mi corregga se dico degli errori) una certa pianticella che vive negli stagni e che ha le sue radici immerse al fondo, che si chiama la vallisneria e che nella stagione invernale non si vede perché è giù nella melma. Ma quando viene la primavera, quando attraverso le acque queste radici che sono in fondo si accorgono che è tornata la primavera, da ognuna di queste pianticelle comincia a svolgersi uno stelo a spirale, che pian piano si snoda, si allunga finché arriva alla superficie dello stagno: e insieme con essa altre cento pianticelle e anche esse in cerca del sole. E quando arriva su, ognuna, appena sente l’aria, fiorisce, ed in pochi giorni la superficie dello stagno, che era cupa e buia, appare coperta da tutta una fioritura, come un prato. Anche nella società avviene, dovrà avvenire qualche cosa di simile. Da tutta la bassura della sorte umana originaria, dall’incultura originaria dovrà ciascuno poter lanciare su, snodare il suo piccolo stelo per arrivare a prendere la sua parte di sole. A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità. Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali».

[ illustrazione: Robert Doisneau, L’information scolaire, 1956 ]

LAVORO, LETTERATURA, MANAGEMENT, STORIE

Come far carriera nelle grandi amministrazioni: gli scritti aziendali di Giorgio Voghera

La vita dello scrittore Giorgio Voghera (1908-1999) è strettamente legata a Trieste, alla cultura della comunità ebraica e alla tradizione del grande romanzo novecentesco. L’opera più importante di Voghera è Il segreto (1961), romanzo di formazione che tanto ha fatto parlare di sé perché pubblicato a nome di un “anonimo triestino” – e dallo stesso Voghera sempre attribuito, fino al momento della morte, al padre Guido.

Un aspetto solo apparentemente secondario dell’opera di Voghera riguarda la rappresentazione del mondo del lavoro, costruita in relazione all’esperienza quasi trentennale come impiegato nell’assicurativa RAS. Voghera vi entrò nemmeno ventenne lavorandovi fino al 1939, quando emigrò, a causa delle leggi razziali, in Palestina. Tornato a Trieste nel 1948, fu riassunto in RAS dove continuò a lavorare fino al 1962, anno in cui decise di dedicarsi esclusivamente alla scrittura. La figura di “scrittore-impiegato” avvicina Voghera alle sorti di altri letterati quali Kafka, Pessoa e il più celebre degli autori triestini, Italo Svevo. La descrizione delle organizzazioni di impresa che emerge dalle sue pagine è carica di accenti complessi e spesso contrastanti, che oscillano tra l’ironico e il disilluso, tra il rancoroso e il consapevole.

La prima opera “aziendale” di Voghera è un leggero pamphlet pubblicato nel 1959 sotto lo pseudonimo di Libero Poverelli. L’emblematico titolo dello scritto è Come far carriera nelle grandi amministrazioni. In questo momento Voghera è ancora impiegato RAS (forse di qui la scelta dello pseudonimo) e quanto emerge dal libro è un distaccato punto di vista sui meccanismi di carriera che contraddistinguono le grandi organizzazioni. Accanto alle dinamiche di de-responsabilizzazione e alle meschine strategie per mettersi in vista di fronte ai superiori, colpisce in particolar modo la descrizione della competenza chiave dei manager:

«Egli dovrà sviluppare tutta una tecnica della superficialità. Dovrà saper parlare a lungo e brillantemente di qualsiasi questione, senza conoscerne la vera sostanza; eludere le domande precise dei superiori, approfittando della loro ignoranza, e quelle degli inferiori, facendosi scudo della propria autorità […]; evitare possibilmente di impegnarsi in ogni concreta azione, che potrebbe mettere in luce la sua incapacità, e impedire nello stesso tempo ai subordinati di svolgere un’azione autonoma: e tutto ciò, pur cercando di dare l’impressione che egli stesso e il suo ufficio sono impegnati in una febbrile attività».

Voghera torna a parlare di vita d’azienda nel 1974 con il romanzo breve Il direttore generale. A distanza di diversi anni dal primo scritto, il tono si fa esplicitamente autobiografico e si dota di una struttura narrativa più forte. In maniera non dissimile da quanto fatto da Goffredo Parise ne Il padrone (1964), la lettura delle dinamiche organizzative passa attraverso la messa in scena del rapporto tra il protagonista, semplice impiegato, e il vertice assoluto dell’impresa: il direttore generale. La critica di Voghera si fa meno didascalica e più complessa, orientandosi non tanto a far emergere il lato grottesco delle dinamiche aziendali – come fatto da Paolo Villaggio nel 1971 con Fantozzi – quanto a descrivere l’intrinseca ambiguità del potere gerarchico, che mescola la meccanica “malvagità” della posizione organizzativa con l’umanità della persona:

«Mi sorrise. Non era il sorriso professionale del dirigente che sa che in determinate situazioni è bene mostrarsi gentili con i sottoposti; non era nemmeno il sorriso con cui si cerca di mettere a proprio agio un ragazzo che può sentirsi timido e sperduto. Era un sorriso affettuoso, il sorriso di un uomo che offre e cerca affetto, e sa, forse, quanto è difficile trovarne di sincero. Un sorriso, a ogni modo, assai singolare sulle labbra di una persona che, a torto o a ragione, ritenevo una dei principali sovvenzionatori del fascismo: delle squadre d’azione che avevano ucciso, manganellato, evirato, incendiato».

[ illustrazione: Edward Hopper, Office in a Small City, 1953 ]

CINEMA, LETTERATURA, RAPPRESENTAZIONE, STORIE, TECNOLOGIA

Cuore di Tenebra di Orson Welles: un film che non abbiamo potuto vedere

Nel capitolo ambientato a Roma del libro-intervista con Peter Bogdanovich, Orson Welles racconta del suo antico desiderio di trasformare in film Cuore di tenebra (1902) di Joseph Conrad, testo con il quale aveva già ottenuto un grande successo radiofonico. Era il 1939 e tutto fallì, come spesso accadeva a Welles, in mancanza di un budget adeguato. L’amarezza per un progetto mancato è aggravata dal fatto che esisteva già una sceneggiatura completa.

A Welles non andava di interpretare il temibile Kurtz (sarebbe stata una scelta troppo scontata), ma piuttosto il capitano Marlow. Attraverso i suoi occhi, grazie a una ripresa in soggettiva, avremmo vissuto l’intera vicenda. Poiché la maggior parte della narrazione vede il protagonista al comando della sua imbarcazione, Welles avrebbe potuto riprendere il suo volto riflesso nel vetro della cabina di pilotaggio, lasciandovi scorrere sotto il fitto paesaggio della foresta.

Se alla RKO l’idea di Welles fosse andata a genio, la soggettiva avrebbe debuttato al cinema con otto anni di anticipo su The lady in the lake, film del 1947 di Robert Montgomery. Quest’ultimo ha il principale merito di essere stato il primo a dimostrare che la soggettiva cinematografica rischia di fallire, quando protratta per un intero film (L’arca russa di Alexandr Sokurov è forse un’eccezione che conferma la regola). Nata per restituire l’autenticità e l’immediatezza dell’esperienza visiva, la soggettiva cinematografica finisce paradossalmente per risultare un espediente del tutto artificioso: vediamo sì con gli occhi del protagonista, ma non possiamo girare la testa dove vogliamo. Ma come sarebbero andate le cose, se fosse stato Orson Welles il primo a portarla al cinema?

[ illustrazione: Orson Welles in Citizen Kane, 1941 ]

APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, COLLABORAZIONE, GIOCO, LAVORO, VIDEOGIOCHI

Il videogioco come strumento educativo

Esce finalmente anche in Italia, a dieci anni dalla sua originaria pubblicazione, Come un videogioco. Insegnare e apprendere nella scuola digitale (2003), saggio seminale sui “game studies” dello studioso americano James Paul Gee (docente di studi letterari presso l’Arizona State University).

Il testo mette in gioco i concetti di apprendimento e alfabetizzazione, facendone metro di paragone per un confronto fra l’esperienza del videogioco e quella lezione in classe: siamo proprio sicuri che giocare con un videogame sia sempre una perdita di tempo? E di converso: gli strumenti tradizionali dell’insegnamento scolastico sono ancora efficaci? Queste le domande cui Gee tenta di rispondere col suo percorso videoludico, il cui approdo è rappresentato dall’enunciazione di 36 “principi di apprendimento”, ovvero competenze pratiche e teoriche che la frequentazione dei videogiochi può aiutare a sviluppare.

I videogame, intesi come mezzo di apprendimento attivo e critico, mettono l’utente in condizione di imparare dall’esperienza, di entrare in contatto collaborativamente con “gruppi di affinità” (persone che condividono un medesimo contesto di significati e risorse), di sviluppare abilità di problem solving, di comprendere i meccanismi sociali legati a un determinato contesto di pratiche. Anche se Gee non vi allude, è evidente come lo sviluppo di competenze di questo tipo risulti valido non soltanto in un contesto scolastico, ma anche per la formazione degli adulti. A questo proposito, particolare interesse suscitano le riflessioni legate a ciò che precede o segue il momento della “partita” col videogame: la conoscenza dei “mondi videoludici” che si trasferisce attraverso riviste, siti web, forum, non è individuale ma distribuita, messa in opera attraverso un pensiero pratico e sociale, che porta alla formazione di reti e dei già citati “gruppi di affinità”. La conoscenza è a disposizione di tutti, pronta per essere usata.

Il confronto instaurato da Gee tra l’apprendimento via videogame e gli strumenti tradizionali dell’educazione scolastica si risolve con un bilancio nettamente negativo a sfavore di questi ultimi, che continuano a risultare poco coinvolgenti, troppo astratti e slegati da concrete pratiche di lavoro e condivisione del sapere. D’altro canto, è pur vero che i videogame esplicitamente educativi al momento non sono molti, anche se le grandi potenzialità di questo medium (che del resto si trova ancora a uno stato nascente e poco raffinato) fanno ben sperare per future applicazioni nel campo dello studio, della formazione, del lavoro. L’innegabile pregio dei videogame risiede in ogni caso nel modo del tutto peculiare in cui riescono a favorire apprendimento e sviluppo dell’identità mediante la dimensione del gioco. A questo proposito, l’unica critica che pare lecito muovere al lavoro di Gee è quella di essere troppo spesso sbilanciato verso il fronte “video” e poco verso quello “game”: se i videogame funzionano in un determinato modo è soprattutto perché sono giochi, e quindi la gran parte delle osservazioni fatte risulta valida non soltanto per un gioco giocato davanti a uno schermo, ma anche per ogni attività ludica tout court.

[ illustrazione: immagine dal videogioco Outrun, 1986 ]

ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, CREATIVITÀ, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT

La competenza più importante per il mondo del lavoro? L’intelligenza artigiana

La tesi di Futuro artigiano (2011), testo a firma di Stefano Micelli, Docente di Economia e gestione delle imprese presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, è perentoria: per ridare forza all’economia italiana e, più in generale, per agire con efficacia nello scenario business odierno risulta vitale recuperare un’attitudine artigianale al lavoro. La novità del messaggio sta nel suo essere rivolto non tanto ai mestieri artigiani di un tempo, ma piuttosto a chiunque – piccole, medie e grandi imprese – abbia a cuore sopravvivere nel mercato del lavoro del nuovo millennio.

Presupposto della tesi di Micelli – premiato nel 2014 con il Premio Compasso D’oro – è una lettura critica delle promesse della “knowledge economy”, uno dei temi manageriali cui più pagine sono state dedicate tra gli anni ’90 e 2000. La prospettiva del tempo oggi mostra come l’auspicata emancipazione basata sul lavoro intellettuale abbia in realtà prodotto una classe di “travet della conoscenza”, cioè impiegati di concetto vittime dell’ennesima, sofisticata reincarnazione dei paradigmi fordisti dell’organizzazione del lavoro.

Non stupisce, di fronte al fallimento della valorizzazione del lavoro intangibile, il prepotente recupero della dimensione del “fare” di cui siamo oggi testimoni. Dall’uomo artigiano di Richard Sennett ai contesti di innovazione di Steven Johnson; dai maker americani alla jugaad indiana: il concetto di lavoratore verso cui ci stiamo dirigendo incarna il bisogno di riprendere il controllo, sperimentare e innovare usando in maniera efficace le risorse di contesto. Mettendo in primo piano due valori fondamentali: il piacere e la passione per il lavoro.

Micelli elabora la preziosa definizione di intelligenza “A” (artigiana), opposta all’ormai abusata intelligenza “T”, quella dei test del QI. L’intelligenza artigiana non lavora meramente sulla razionalità, ma si basa sull’esperienza, sull’adattamento alla situazione e sull’apprendimento continuo e collettivo. Nel descrivere questo modello di intelligenza lavorativa Micelli chiama in causa quanto osservato da Claude Lévi-Strauss (1908-2009) in Il pensiero selvaggio (1962), citandone in particolare un passaggio che descrive il diverso set di competenze dell’ingegnere e del “bricoleur”:

«Il bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma diversamente dall’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e di arnesi procurati o concepiti espressamente per la realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè a un insieme via via “finito” di arnesi e materiali».

[ illustrazione: Gustave Caillebotte, Les raboteurs de parquet, 1875 – Musèe d’Orsay, Parigi ]