CINEMA, DECISIONE, STORIE, TECNOLOGIA

Curiosità e responsabilità per restare umani

La curiosità è uno dei tratti che più contribuiscono a renderci umani: senza voglia di scoprire, conoscere, trovare nuove connessioni non saremmo altro che automi privi di pensiero e subordinati alla ripetizione. Esattamente ciò che il nostro attuale rapporto con la tecnologia rischia di farci diventare, almeno secondo una riflessione di Don Norman – direttore del Design Lab presso la University of California – pubblicata su Fast Company.

Seguendo Norman, si consideri il caso degli incidenti automobilistici: l’opinione comune tende ad attribuirne la causa alla distrazione umana, spesso evocando l’evoluzione tecnologica come possibile salvezza. Questo approccio mette in luce una crescente sfiducia nei confronti dell’elemento umano e, in particolare, della nostra curiosità. La distrazione infatti altro non è che una delle vesti in cui si presenta la curiosità, abilità di essere ricettivi e sensibili ai cambiamenti di contesto che può spingersi fino all’incapacità di aderire agli schemi imposti dalla burocrazia meccanizzata che governa le nostre vite.

L’esempio di Norman sugli incidenti automobilistici riporta alla memoria il film di Clint Eastwood del 2016 Sully (a sua volta tratto dall’omonimo libro-memoriale del pilota aeronautico Chesley B. – “Sully” – Sullenberger), esemplare riflessione sul rapporto tra tecnologia e umanità, procedure, emozioni e scelte. La discrepanza tra l’atto di “doveroso eroismo” del pilota che salva il suo equipaggio e il processo cui viene successivamente sottoposto per non aver rispettato quanto imposto dalla “burocrazia delle emergenze” (esiste forse un più netto ossimoro?) è ben rappresentativa della paradossale situazione che viviamo ormai quotidianamente in una infinità di contesti personali e lavorativi, fortunatamente meno delicati – ma solo apparentemente meno rilevanti per il nostro essere umani – di quello di un atterraggio aereo di fortuna.

Il secondo aspetto cruciale della questione è dunque la responsabilità: se essere curiosi è ciò che ci rende capaci di guardare in maniera attiva e partecipe al contesto che ci circonda, la responsabilità è l’indispensabile correlato che ci aiuta ad agire come persone in mezzo a persone.

[ Illustrazione: fotogramma dal film Sully (2016) di Clint Eastwood ]

ESTETICA, ORIENTE

La bellezza oscura

E se l’egemonia culturale planetaria provenisse da oriente invece che da occidente? O quanto meno: quale mondo vivremmo oggi se l’oriente fosse stato in grado di mantenere le proprie culture più indipendenti da quelle occidentali? Sono domande tanto speculative quanto attuali e nello specifico a porsele è Jun’ichirō Tanizaki, autore noto per romanzi come La chiave e Neve sottile, nel suo saggio del 1933 Libro d’ombra. Dal testo emerge l’ambivalenza di una rivendicazione carica di orgoglio e disillusione: che parli di riscaldamento, illuminazione o allestimento dei bagni, Tanizaki mette in discussione l’egemonia occidentale e le risponde mettendo in luce un diverso modello valoriale, estetico e pratico.

Citando lo scrittore Saitō Ryokuu, in un passaggio del suo testo Tanizaki si sofferma sull’espressione “l’eleganza è fredda”, che descrive enigmaticamente la relazione orientale con il piacere estetico. Attorno a questa stessa espressione, reinterpretandola da par suo, nel 1982 Goffredo Parise costruisce il suo reportage romanzato sulla terra del sol levante, intitolato L’eleganza è frigida. Il testo di Parise descrive, quasi a confermare i timori di Tanizaki, un Giappone per lo più occidentalizzato –  senz’altro molto diverso dalla Cina autentica e rurale narrata dallo stesso Parise in Cara Cina nel 1966 – in cui la tradizione emerge come eccezione o curiosità orientata a uno sguardo turistico. Colpiscono in particolare alcuni passaggi sulla lucentezza e pulizia di automobili tirate a lucido, in netto contrasto con l’enfasi data da Tanizaki a ciò che definisce nare o “lustro delle mani”, cioè la patina che si deposita sulle cose con il loro uso nel corso del tempo. Alla brillantezza ricercata dall’occidente, Tanizaki oppone una bellezza oscura e offuscata, di cui diventa simbolo il toko no ma, nicchia domestica che valorizza piccoli oggetti (quadri, calligrammi o fiori) tramite una messa basata su un’ombrosa e sfumata nobiltà.

Seppur costantemente esposto a un rischio di smarrimento, vi è un senso estetico orientale – nello specifico giapponese – che attraversa le epoche e giunge a noi grazie all’espressione, difficile da tradurre letteralmente, wabi-sabi. Come esposto da Leonard Koren nel suo testo Wabi-sabi per artisti, designer, poeti e filosofi, questo concetto indica la valorizzazione dell’imperfetto, del diveniente e dell’incompleto. La bellezza del wabi-sabi sta in ciò che cambia, nel delicato e nell’effimero. Per questo, tornando a una delle riflessioni di Parise, per un giapponese una giornata piovosa può essere bellissima, per ragioni puramente estetiche molto lontane dai canoni occidentali di bellezza. La scoperta del concetto di wabi-sabi può aiutare anche un occidentale a scoprire che esiste, proprio come Tanizaki ha inteso suggerire, un diverso modo di guardare il mondo.

[ Illustrazione: Tohaku Hasegawa, Schermo con pini (Shōrin-zu byōbu 松林図 屏風), circa 1595 ]

ARTE, CREATIVITÀ, DIARI, LETTERATURA

David Sedaris e l’arte del diario

David Sedaris è uno scrittore particolarmente legato al racconto della propria esperienza personale e familiare. Libri come Me parlare bello un giorno (2005), di cui si ricorda soprattutto la “lotta” con la lingua francese, o Calypso (2018), dal nome immaginario di una tartaruga il cui rapporto con l’autore diviene centrale, sono raccolte piene di ironia, spesso crude ma sempre oneste e brillanti. Ciò che colpisce di Sedaris è la capacità di condividere con il lettore una visione del mondo personale e autentica, regalando al tempo stesso risate – Sedaris è uno dei pochi scrittori capaci di risultare incredibilmente comici semplicemente raccontando il quotidiano – e profondi spunti di pensiero critico.

Chi conosce Sedaris – e magari ha partecipato dal vivo a incontri con l’autore – sa che alla base della sua opera c’è un’attività diaristica che  lo accompagna dal 1977, momento in cui – all’età di 21 anni – ha iniziato a mettere nero su bianco le sue esperienze. Questo patrimonio di annotazioni – spesso diretta ispirazione per la sua produzione letteraria – è reso disponibile alla lettura grazie alla raccolta Ragazzi che giornata! Diari 1977-2002 (2017), che contiene le memorie prodotte dallo scrittore nell’arco di venticinque anni. All’interno vi si trova il percorso di una persona e la sua crescita: ci sono momenti di difficoltà e di smarrimento, così come lampi di consapevolezza e lettura critica del proprio percorso. L’autenticità è la costante del testo, che dà il meglio di sé quando letto – come suggerisce lo stesso Sedaris nell’introduzione – spulciando qua e là scoprendo frammenti di quotidiano sempre sorprendenti:

17 ottobre 1978 – Odell

Oggi le mie scarpe pesano il doppio. E sono verdi. Sono tutto verde, per via dell’ossido di cromo che uso per lucidare la giada di John. Ho il verde anche nelle orecchie. E nel moccio. John ha un blocco di giada lungo cinque metri per uno e mezzo, che inizialmente fu acquistato dal generale argentino Perón per farci scolpire una statua della moglie Eva. A sentire John costa 100.000 dollari. Meno i 14 che mi ha dato oggi per lucidarne qualche fettina.

I diari di Sedaris risultano affascinanti anche per il loro contenitore, vale a dire la forma fisica – rigorosamente analogica – che le raccolte di note (in media da due a quattro volumi all’anno) sono andate assumendo nel corso del tempo. Fin dall’inizio Sedaris ha preso l’abitudine di usare la copertina di ogni diario come spazio per spunti visivi che vanno bel oltre il decorativo (del resto Sedaris è diplomato all’Art Institute of Chicago e la sua prima ambizione è stata proprio quella di diventare un artista). Consapevole del valore estetico di questi artefatti, l’artista Jeffrey Jenkins, amico di lunga data dell’autore, ha compilato una raccolta completa delle copertine dei diari che, in questo caso, dal 1977 arriva fino al 2016. Il volume si intitola David Sedaris Diaries: A Visual compendium e riproduce con grande cura ogni copertina (vedi quella inserita qui sopra).

Dopo i primi anni di diaristica, basati su quaderni esistenti personalizzati con la tecnica del collage, dal 1985 Sedaris ha introdotto un formato basato sulla raccolta e rilegatura di fogli simili al formato A4, cui aggiungere una copertina rigida da connotare visivamente con quanto l’autore trovava intorno a sé nel periodo della scrittura. La creatività spazia tra fotografie, disegni e opere – del partner Hugh Hamrick o di altri artisti – , ritagli di giornali, quadri trovati al mercato delle pulci, copertine di dischi. La raccolta conduce il lettore in una passeggiata in equilibrio fra immagini trovate e cercate, la cui costante è un curioso e saldo senso estetico. Per chi già ami David Sedaris o voglia iniziare a conoscerlo, l’esplorazione parallela dei contenuti dei diari con Ragazzi che giornata! Diari 1977-2002 e delle loro copertine con  David Sedaris Diaries: A Visual compendium offrirà un’esperienza a tutto tondo capace di intrecciare arte visiva e letteratura.

[ Illustrazione: No.79 – Girl with Yellow Background (flea market) – June 1 – June 27, 1998 – Da: David Sedaris Diaries: A Visual compendium, 2017 ]

CINEMA, COMFORT, CONSAPEVOLEZZA, PERCEZIONE, SOCIETÀ

Praticare la scomodità

Due amici che parlano a cena: che cosa c’è di più normale e familiare? Perché farne un film, totalmente incentrato sulle discussioni e su primi piani dei volti, probabilmente destinato a risultare noioso per i più? Queste la domande che forse deve essersi posto il cineasta francese Louis Malle (1932-1995) di fronte alla sceneggiature propostagli dai due attori e registi teatrali Wallace Shawn e André Gregory.

Evidentemente, le risposte da lui trovate (o suggerite da Shawn e Gregory) devono essere state molto convincenti e c’è di che essergliene grati, perché con My Dinner with André (1981) Malle ci ha regalato un capolavoro – poco sconosciuto in Italia – che rappresenta un unicum all’interno del pur ampio filone dei film basati su un approccio teatrale, per la sua capacità di costruire una sorta di dialogo platonico cinematografico di grande profondità e valore per chiunque sia interessato a ragionare sul proprio posto nel mondo.

Tratto dalla già citata sceneggiatura scritta a quattro mani da Shawn e Gregory, di per sé un libro eccezionale, il film mette in scena una lunga conversazione dal taglio filosofico che prende le mosse da racconti di esperienze lavorative e personali – in larga parte autobiografiche – dei due attori, lo spirituale André (André Gregory) e il terreno Wally (Wallace Shawn), per costruire a poco a poco una riflessione generale sul senso della vita che non può lasciare indifferenti.

Uno dei passaggi più significativi del film è incentrato sul comfort e sulla critica del ruolo anestetizzante che esso riveste nei confronti della nostra percezione e consapevolezza. A partire da un apparentemente banale commento di Wally sulla piacevolezza di una coperta elettrica nel freddo inverno newyorkese, André costruisce una convincente argomentazione sull’importanza di praticare deliberatamente la scomodità per non rischiare di perdere contatto con ciò che più ci rende umani. Stare troppo comodi indebolisce l’acutezza dei nostri sensi e, alla lunga, ci allontana dalla costitutiva esperienza di essere parte del mondo. Ecco la scena in questione (in lingua inglese).

[ Illustrazione: fotogramma dal film My Dinner with André (1981) di Louis Malle ]