ARTE, RAPPRESENTAZIONE, SCRITTURA

La parola, immagine delle cose

Vi è un frammento di Simonide (556 – 468 a.C), poeta lirico greco originario dell’isola di Ceo, che icasticamente descrive la relazione fra parola, percezione e racconto attraverso un parallelismo con il mondo delle immagini:

La parola è un’immagine delle cose.

Secondo la poetessa e saggista americana Anne Carson, la possibilità di pensare in questi termini la parola – e dunque l’opera poetica – è offerta a Simonide dalla trasformazione della pittura in atto nella Grecia del quinto secolo a.C., sulla scorta dell’opera di Polignoto di Taso e degli artisti  che lo seguirono. Nel suo Economia dell’imperduto (1999, tradotto in italiano nel 2020) Carson nota come scorcio, prospettiva lineare e gradazione delle sfumature abbiano trasformato la superficie piana in un mondo di miraggi, capace di ispirare Simonide e la scrittura a venire a un’inedita arte mimetica:

Nessun altro scrittore greco di quel periodo, tranne forse Eraclito, usa il linguaggio in questo modo, come un’unità «sintetica e in tensione» che mette in scena la realtà di cui parla. Questa è la mimesi nel suo meccanismo più radicale. Questa è la struttura ossea dell’inganno poetico.

Con un considerevole salto nel tempo, nella multiforme e personalissima opera Una vita dolce (2022) di Beppe Sebaste la scrittura torna a trovare una sua similitudine nella pittura:

Immagino di scrivere facendo scorrere il pennello sul muro, e far cosí apparire fili di parole morbide e compatte, frasi pescate dal pennello nei barattoli di vernice. C’è bisogno di una trama per pitturare un muro, per far crescere una bougainvillea? La storia non è già l’uomo o la donna che scrive, che dipinge il muro, che innaffia i fiori?

Sebaste prosegue descrivendo la sua fascinazione per l’opera di Paul Cézanne (1839-1906), un altro innovatore della pittura costantemente alla ricerca dell’essenza delle cose. Sebaste guarda a Cézanne come a un’ispirazione per la sua scrittura, riconoscendosi in compagnia di illustri predecessori come Allen Ginsberg (1926-1977), che ammirava la capacità di Cèzanne di “dipingere il guardare” ed Ernest Hemingway (1899-1961), in uno dei cui racconti il pittore francese riveste un ruolo importante. In Scrivere, contenuto nella raccolta I racconti di Nick Adams (1972), Hemingway scrive così del suo Nick:

Lui voleva scrivere come Cézanne dipingeva. Cézanne cominciò con tutti i trucchi. Poi demolì tutto e costruì la cosa vera. Fu tremendo da fare. Fu lui il più grande. Il più grande d’ogni tempo e per sempre.

L’ambizione del Nick di Hemingway, prendendo le mosse dalla trasfigurazione del reale che troviamo in Cèzanne, conduce la scrittura alla ricerca di quell’immagine delle cose che, secondo l’antico sapere di Simonide, la parola può evocare. In un cammino fra mimesi e astrazione, seguire i percorsi che collegano immagine e parola offre spunti per descrivere l’ambizione forse più alta della scrittura, quella di farsi libera, leggera, ammaliante.

[ Illustrazione: Paul Cèzanne, Il lago di Annecy, 1896. Londra, Courtauld Institute Galleries ]

ARTE, CREATIVITÀ, DIARI, LETTERATURA

David Sedaris e l’arte del diario

David Sedaris è uno scrittore particolarmente legato al racconto della propria esperienza personale e familiare. Libri come Me parlare bello un giorno (2005), di cui si ricorda soprattutto la “lotta” con la lingua francese, o Calypso (2018), dal nome immaginario di una tartaruga il cui rapporto con l’autore diviene centrale, sono raccolte piene di ironia, spesso crude ma sempre oneste e brillanti. Ciò che colpisce di Sedaris è la capacità di condividere con il lettore una visione del mondo personale e autentica, regalando al tempo stesso risate – Sedaris è uno dei pochi scrittori capaci di risultare incredibilmente comici semplicemente raccontando il quotidiano – e profondi spunti di pensiero critico.

Chi conosce Sedaris – e magari ha partecipato dal vivo a incontri con l’autore – sa che alla base della sua opera c’è un’attività diaristica che  lo accompagna dal 1977, momento in cui – all’età di 21 anni – ha iniziato a mettere nero su bianco le sue esperienze. Questo patrimonio di annotazioni – spesso diretta ispirazione per la sua produzione letteraria – è reso disponibile alla lettura grazie alla raccolta Ragazzi che giornata! Diari 1977-2002 (2017), che contiene le memorie prodotte dallo scrittore nell’arco di venticinque anni. All’interno vi si trova il percorso di una persona e la sua crescita: ci sono momenti di difficoltà e di smarrimento, così come lampi di consapevolezza e lettura critica del proprio percorso. L’autenticità è la costante del testo, che dà il meglio di sé quando letto – come suggerisce lo stesso Sedaris nell’introduzione – spulciando qua e là scoprendo frammenti di quotidiano sempre sorprendenti:

17 ottobre 1978 – Odell

Oggi le mie scarpe pesano il doppio. E sono verdi. Sono tutto verde, per via dell’ossido di cromo che uso per lucidare la giada di John. Ho il verde anche nelle orecchie. E nel moccio. John ha un blocco di giada lungo cinque metri per uno e mezzo, che inizialmente fu acquistato dal generale argentino Perón per farci scolpire una statua della moglie Eva. A sentire John costa 100.000 dollari. Meno i 14 che mi ha dato oggi per lucidarne qualche fettina.

I diari di Sedaris risultano affascinanti anche per il loro contenitore, vale a dire la forma fisica – rigorosamente analogica – che le raccolte di note (in media da due a quattro volumi all’anno) sono andate assumendo nel corso del tempo. Fin dall’inizio Sedaris ha preso l’abitudine di usare la copertina di ogni diario come spazio per spunti visivi che vanno bel oltre il decorativo (del resto Sedaris è diplomato all’Art Institute of Chicago e la sua prima ambizione è stata proprio quella di diventare un artista). Consapevole del valore estetico di questi artefatti, l’artista Jeffrey Jenkins, amico di lunga data dell’autore, ha compilato una raccolta completa delle copertine dei diari che, in questo caso, dal 1977 arriva fino al 2016. Il volume si intitola David Sedaris Diaries: A Visual compendium e riproduce con grande cura ogni copertina (vedi quella inserita qui sopra).

Dopo i primi anni di diaristica, basati su quaderni esistenti personalizzati con la tecnica del collage, dal 1985 Sedaris ha introdotto un formato basato sulla raccolta e rilegatura di fogli simili al formato A4, cui aggiungere una copertina rigida da connotare visivamente con quanto l’autore trovava intorno a sé nel periodo della scrittura. La creatività spazia tra fotografie, disegni e opere – del partner Hugh Hamrick o di altri artisti – , ritagli di giornali, quadri trovati al mercato delle pulci, copertine di dischi. La raccolta conduce il lettore in una passeggiata in equilibrio fra immagini trovate e cercate, la cui costante è un curioso e saldo senso estetico. Per chi già ami David Sedaris o voglia iniziare a conoscerlo, l’esplorazione parallela dei contenuti dei diari con Ragazzi che giornata! Diari 1977-2002 e delle loro copertine con  David Sedaris Diaries: A Visual compendium offrirà un’esperienza a tutto tondo capace di intrecciare arte visiva e letteratura.

[ Illustrazione: No.79 – Girl with Yellow Background (flea market) – June 1 – June 27, 1998 – Da: David Sedaris Diaries: A Visual compendium, 2017 ]

ARTE, CINEMA, CITTÀ, DECISIONE, PERCEZIONE, VISIONE

Museum Hours: una questione di sguardi

Museum Hours (2012) del regista americano Jem Cohen è un film fondamentale per chiunque sia interessato ad approfondire i misteri della visione. La “trama” è in realtà molto semplice, quasi al punto da apparire sciatta: Johann lavora come guardasala al Kunsthistorisches Museum di Vienna. È qui che incontra per caso Anne, cittadina canadese appena giunta in Austria per far visita alla cugina, ricoverata in ospedale e in coma. Johann aiuta Anne a orientarsi su una mappa di Vienna e successivamente, superando un iniziale senso di sfiducia nei confronti degli estranei, inizia a condurla in brevi esplorazioni della città. Questo è l’inizio di una genuina amicizia interculturale basata su una serie di conversazioni ospitate da un luogo pubblico molto particolare – un museo – e dall’ambiente pubblico per eccellenza, la città.

Gli strumenti di ripresa utilizzati per il film creano una differenza di qualità visiva fra le scene realizzate all’interno del Kunsthistorisches Museum, girate in digitale in HD, e quelle degli esterni viennesi, realizzate con una cinepresa a 16mm. Pur a fronte di questa differenza, lo sguardo che Jem Cohen intende suggerire allo spettatore è di fatto lo stesso, sia nel mondo interno che esterno: un occhio curioso e senza pregiudizi che resta costantemente aperto, in modo immediato e spesso naif, di fronte all’inaspettato.

Commentando alcune opere di Pieter Bruegel Il Vecchio – che svolgono un ruolo importante nel film e, più in generale, nella collezione del Kunsthistorisches Museum  – Cohen costruisce una similitudine fra l’osservazione dei dipinti e quella di alcune scene di strada: «Forse la cosa più incredibile che mi ha colpito stando in quelle stanza è stata il non sapere dove fosse il centro di ognuno dei quadri. È questo l’aspetto con cui mi sono più messo in relazione, perché quando giro in strada il primo piano e lo sfondo tendono a fondersi e lo sguardo dell’osservatore vaga perché non è diretto verso un punto focale» (da un’intervista a CinemaScope).

L’assenza di un punto focale predefinito rappresenta la possibilità di una scelta. Come notato dal grande critico d’arte inglese John Berger (1926-2017) – il cui nome non a caso compare nei ringraziamenti dei titoli di coda del film –

Vediamo solo ciò che guardiamo. Guardare è un atto di scelta. Il risultato di tale atto è che quanto vediamo si pone alla nostra portata. Anche se non necessariamente alla portata della nostra mano.

E ancora: «La relazione fra quello che vediamo e quello che sappiamo non è mai conclusa». Queste frasi riassumono il pensiero di Berger sul ruolo della visione, così come espresso nel suo libro del 1972 Questione di sguardi (e nella serie televisiva a esso legata Ways of Seeing).

Museum Hours accompagna lo spettatore in una immediata e insieme profonda riflessione sul nostro modo di vedere, suggerendo che coltivare uno sguardo curioso sul mondo – rappresentato nel film dal personaggio di Anne, una straniera in un Paese straniero – sia cruciale per apprezzare la bellezza nascosta nell’ordinario.

[ Illustrazione: fotogramma dal film Museum Hours (2012) di Jem Cohen ]

ARTE, CAMBIAMENTO, CULTURA, INNOVAZIONE, MARKETING, MUSICA, SOCIETÀ, STORIE

Alex Steinweiss, l’uomo delle copertine

L’arte delle copertine di disco, provvidenzialmente rinvigorita dal revival vinilistico dell’ultimo decennio, ha una data di origine: 1938. Questo fu l’anno in cui l’allora ventiduenne grafico newyorkese Alex Steinweiss (1917-2011) venne assunto dalla Columbia Records.

Per il marketing della musica, si trattò di una vera e propria rivoluzione: la celeberrima sinfonia n. 3 di Ludwig van Beethoven, apparentemente un disco non certo bisognoso di particolare promozione, beneficiò di un incremento delle vendite di quasi il 900% dovuto alla versione con copertina illustrata da Steinweiss.

Ma che aspetto avevano le copertine prima del 1938? Fino a quel momento, tutti i dischi – allora in formato 78 giri – erano accompagnati da una spartana custodia che ne indicava esclusivamente titolo e autore. Steinweiss, annoiato da un design di così basso profilo – e ispirato dai manifesti modernisti tedeschi e francesi – propose ai dirigenti della Columbia di poter mettere alla prova la sua creatività. Per nostra fortuna, questa opportunità gli venne di buon grado concessa: Steinweiss divenne in breve direttore artistico dell’etichetta discografica e nel corso della sua carriera realizzò oltre 250.000 copertine.

Gli amanti dei vinili devono a Steinweiss anche un’altra innovazione: nel 1947, anno di nascita del disco a 33 giri, Steinweiss inventò le buste di carta che contengono i vinili, completando così un formato di packaging che oggi, a quasi settant’anni dalla sua introduzione, continua a dimostrarsi ineguagliabilmente bello ed efficace.

[ illustrazione: copertina di Alex Steinweiss per il disco Bing: A Musical Autobiography di Bing Crosby, 1954 ]

ARTE, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, INDUSTRIA, LAVORO, LETTERATURA, SOCIETÀ, STORIA

White collar, la graphic novel italiana del 1938 che racconta la grande depressione

Genovese, emigrato negli Stati Uniti a soli diciotto anni, Giacomo Patri (1898–1978) può essere considerato fra i precursori dell’attuale graphic novel. Più correttamente, l’arte di Patri – attivo come illustratore e docente a Los Angeles – rientra nella categoria delle “wordless novel”, racconti in forma di sole immagini realizzati con tecniche di incisione e stampa a rilievo. Storicamente, il primo esempio di questo genere narrativo – fortemente debitore nei confronti dell’arte espressionista – è la novella del 1918 25 images de la passion d’un homme, realizzata dal belga Frans Masereel (1889-1972) a partire da incisioni su legno e incentrata sulle peripezie della classe operaia nella società industriale.

A simili tematiche si lega il capolavoro di Giacomo Patri, l’opera in linografia (incisioni su linoleum) White Collar (1938), frutto di tre anni di lavoro e di una paziente opera di stampa e rilegatura operata dall’autore stesso con la moglie. Con toni parzialmente autobiografici, la novella di Patri racconta le gesta di un illustratore pubblicitario che vive il suo sogno di ascesa sociale, senza troppo curarsi dei movimenti di protesta dell’attivismo operaio. Ma la cattiva sorte è in agguato, sotto forma della crisi finanziaria del 1929, che causa al protagonista la perdita del lavoro e l’accumulazione di una serie di debiti. La spirale di sfortune nella quale il protagonista e la sua famiglia precipitano sembra non avere fine, con la difficoltà nel sostentare l’ultimo nato, un lavoro indipendente fallito, un impiego da travet conclusosi con un licenziamento, la conseguente perdita della casa. Ormai in mezzo alla strada, il protagonista si libera finalmente dal suo “colletto bianco”, simbolo delle false speranze di scalata sociale e della stessa crisi del ’29, e si unisce al movimento operaio.

La splendida opera di Patri, che fu utilizzata dal movimento operaio americano per mettere il luce il comune pericolo corso in tempi di crisi sia dai colletti bianchi che da quelli blu, è oggi facilmente reperibile nel volume Graphic Witness (2007), che raccoglie quattro fra le migliori wordless novel delle origini (compresa 25 images de la passion d’un homme di Masereel).

[ illustrazione: tavola da White Collar di Giacomo Patri, 1938 ]

APPRENDIMENTO, ARTE, CREATIVITÀ, SCRITTURA

Per una scrittura non creativa

Kenneth Goldsmith, poeta e studioso americano, è autore di Uncreative Writing (2011), saggio che analizza la frammentazione della scrittura nell’era digitale. Per comprendere come il web ha cambiato il nostro modo di scrivere, Goldsmith suggerisce un parallelo: così come la nascita della fotografia ha mutato per sempre il ruolo della pittura, l’avvento di internet ha influito profondamente, forse in maniera irreversibile, sullo statuto della scrittura.

Il nuovo ruolo del lettore come “curatore”; le pratiche di manipolazione e re-visione del testo all’interno di molteplici canali; la sovversione delle norme di copyright e la disgregazione dell’autorialità: tutto questo rende urgente una riconsiderazione delle pratiche di scrittura. Alle ormai abusate pratiche di “scrittura creativa”, Goldsmith oppone una dichiarata non-creatività del testo che prende le mosse da un’attenta riflessione sul ruolo della tecnologia e si ispira ai protagonisti delle avanguardie artistiche più importanti del Novecento, dal situazionismo fino ad Andy Warhol, profeta anticreativo in tutta la sua opera.

Uno dei passaggi centrali del lavoro di Goldsmith chiama in causa un autore-faro del pensiero novecentesco sui rapporti tra cultura e tecnologia, Walter Benjamin. In Strada a senso unico (1928) lo studioso tedesco costruisce una metafora che esplica con chiarezza l’utilità della trascrizione di un testo, una delle pratiche cardine della scrittura non creativa. Trascrivere è un lavoro non solo sulla scrittura ma dentro di essa, che permette di comprendere su se stessi qualcosa che resta inaccessibile alla sola pratica della lettura:

«La forza di una strada è diversa a seconda che uno la percorra a piedi o la sorvoli in aeroplano. Così anche la forza di un testo è diversa a seconda che uno lo legga o lo trascriva. Chi vola vede soltanto come la strada si snoda nel paesaggio, ai suoi occhi essa procede secondo le medesime leggi del terreno circostante. Solo chi percorre la strada ne avverte il dominio, e come da quella stessa contrada che per il pilota d’aeroplano è semplicemente una distanza di terreno essa, con ognuna delle sue svolte, faccia balzar fuori sfondi, belvedere, radure e vedute allo stesso modo che il comando dell’ufficiale fa uscire i soldati dai ranghi. Così, solo il testo ricopiato comanda all’anima di chi gli si dedica, mentre il semplice lettore non conoscerà mai le nuove vedute del suo spirito quali il testo, questa strada tracciata nella sempre più fitta boscaglia interiore, riesce ad aprire: perché il lettore obbedisce al moto del suo io nel libero spazio aereo delle fantasticherie, e invece il copista lo assoggetta a un comando».

[ illustrazione: Gustave Caillebotte, Portrait de E.-J. Fontaine, Libraire – 1885 ]

ARTE, BENI CULTURALI, CAMBIAMENTO, MEDIA, TECNOLOGIA

La “computer art” di Warhol e l’obsolescenza degli artefatti digitali

L’immagine qui sopra risale al 1985 ed è una delle ultime opere di Andy Warhol (1928-1987). È stata realizzata con un personal computer Amiga 1000 ed è rimasta fino a oggi nascosta in un floppy disk.

Warhol fu, insieme alla cantante dei Blondie – e icona dell’underground newyorkese – Debbie Harry, testimonial dell’Amiga 1000. Ne fu anche designer dell’aspetto esteriore e grande utilizzatore. L’Amiga 1000 era per l’epoca un computer all’avanguardia, basato sul più avanzato sistema operativo disponibile (il “workbench”) e capace di rendere a schermo ben 4096 colori (la maggior parte dei computer dell’epoca arrivava al massimo a 16).

L’esistenza di una serie di floppy disk su cui Warhol poteva aver registrato sue immagini è stata nota per lungo tempo, ma fino a poco tempo fa nessuno si era ancora avventurato negli archivi del Warhol Museum di Pittsburgh (Pennsylvania) per scovarli. In questa impresa si è imbarcato un team di ricercatori del “Computer Club” della Carnegie Mellon University. Il loro lavoro sui preziosi e fragili floppy disk ha richiesto ben tre anni di “hacking” e attenta estrazione e conversione dei file. Il risultato del lavoro consiste in 18 immagini inedite, realizzate dal grande artista americano elaborando foto o disegnando direttamente con il mouse. Le immagini hanno una risoluzione di appena 300×200 pixel.

L’aspetto che più colpisce di questa vicenda – al di là dell’ossessione per l’ennesima opera postuma (in questo caso di dubbio valore) di un grande artista – riguarda la curiosa “archeologia digitale” che il recupero delle immagini di Warhol ha chiamato in causa. I tre anni di lavoro sui file sono stati necessari perché oggi, a trent’anni di distanza, i documenti salvati con un Amiga 1000 sono del tutto illeggibili senza l’intervento di un esperto di informatica. La macchinosità di questo processo suscita una constatazione: se, operando un salto indietro nel tempo limitato alla cosiddetta era Gutenberg (sarebbe infatti possibile tornare anche a epoche più remote), diversi esemplari della prima Bibbia stampata a caratteri mobili –  datata 1455 – sono attualmente ben conservati e facilmente leggibili (a patto che si conosca il latino), i file di computer risalenti anche solo a 30 anni fa soffrono di scarse chance di conservazione e, come dimostrato dalle immagini di Warhol, difficilissime possibilità di lettura. In un’epoca in cui tutto il frutto del lavoro e sapere quotidiano risiede su eterei “cloud” e fragili hard-disk, una riflessione sulla conservazione e trasmissione degli artefatti digitali diventa vitale.

[ illustrazione: computer graphics di Andy Warhol, 1985 ]

ARTE, PERCEZIONE, STORIE

L’invenzione della Pop Art

Una relazione di amicizia, una lettera persa nel tempo, un nuovo tassello aggiunto alla storia dell’arte. Questo il racconto di Jean-Jacques Lebel nel piccolo volume Elogio di «Funny Guy» Picabia, inventore della pop art, appena dato alle stampe da Johan & Levi.

Quando si pensa alla Pop Art si pensa anzitutto a Warhol e più in generale a un fenomeno culturale “made in USA”. Tuttavia l’arte pop nasce in Inghilterra e a ricordarlo basta il collage di Richard Hamilton (1922-2011) Just What Is It Makes Today’s Homes So Different, So Appealing? (1956), tradizionalmente considerato la prima opera di questa corrente artistica.

Antecedenti della Pop Art possono essere rinvenuti, sempre in Europa ma in anni precedenti, tanto in Courbet quanto in Picasso e, come ci aiuta a scoprire Jean-Jacques Lebel, Francis Picabia (1879-1953). Ad accreditare questa tesi è il ritrovamento di una busta a lungo considerata dispersa, inviata nel 1923 da Picabia all’amico André Breton. La busta conteneva, insieme a un breve scritto e a una poesia, dodici piccole illustrazioni pensate per la rivista «Littérature», ovviamente mai pubblicate dato lo smarrimento della lettera. In questi piccoli disegni, realizzati semplicemente con inchiostro nero su carta, Picabia si diverte a citare e sovvertire le regole della comunicazione di massa, rendendo arte l’annuncio pubblicitario – completo di prezzo e varianti di colore – di un cappello o di un tavolino pieghevole.

Lebel chiama in causa Aby Warburg e con lui la dea greca Mnemosyne nell’evocare il fascino di una archeologia delle immagini che superi la lettura univoca di un’attribuzione puntuale – l’invenzione della pop art – grazie alla ricerca di affinità sottili e complesse che rendono più ricca l’indagine della storia dell’arte.

[ illustrazione: disegno di Francis Picabia, 1923 ]

ARTE, CITTÀ, CULTURA, SOCIETÀ

La costruzione di un mito: Saint-Germain-des-Prés

Nessuna visita a Parigi può essere prova di una tappa a Saint-Germain-des-Prés, quartiere-simbolo della vita intellettuale francese del secondo dopoguerra. Culla del movimento esistenzialista e avamposto europeo del jazz, al quartiere – e soprattutto a locali come i caffè De Flore e Deux Magots – sono inscindibilmente legati nomi e gesta di personaggi come Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Boris Vian, Juliette Gréco.

Un libro appena pubblicato dallo storico e giornalista canadese Eric Dussault, intitolato L’invention de Saint-Germain-des-Prés (2014), mette in discussione l’immagine del quartiere giunta fino a noi. Ad averla generata sarebbero stati gli stessi esistenzialisti, con il sostegno della stampa e per la gioia dei commercianti della zona. Secondo Dussault, la Saint-Germain-des-Prés che è passata alla storia – e di cui si continua a celebrare la memoria – rappresenta una visione letteraria ed edulcorata di un quartiere in realtà caratterizzato da povertà e conflitti sociali.

Chi ha raccontato la Saint-Germain-des-Prés degli anni ’40-’60 – in particolare la stessa de Beauvoir in L’età forte (1960), si sarebbe dunque fatto cantore di un mondo autoreferenziale e chiuso su se stesso, bisognoso di costruirsi un proprio mito celebrativo. Mito cui va in ogni caso riconosciuto il merito di saper conservare a oggi – nonostante il libro di Dussault – tutta la sua forza.

[ illustrazione: il Café de Flore negli anni ’40 ]

 

ARTE, LETTERATURA, POLITICA, SOCIETÀ

La letteratura come insurrezione: Max Frisch e il Quadrato Nero di Malevič

Nella seconda di due lezioni sulla letteratura tenute nel novembre 1981 presso il City College di New York, Max Frisch racconta di un ambasciatore straniero in visita al museo dell’Ermitage. L’ambasciatore si mostra curioso di poter vedere un’opera nascosta negli archivi del museo, negata al pubblico perché considerata socialmente pericolosa. L’opera in questione è il Quadrato Nero di Kazimir Malevič, tela del 1915 che costituisce l’esempio forse più noto dell’arte suprematista, descritta dal pittore in questi termini:

«Questo disegno avrà una importanza enorme per la pittura. Rappresenta un quadrato nero, l’embrione di tutte le possibilità che nel loro sviluppo acquistano una forza sorprendente».

La richiesta dell’ambasciatore viene esaudita e la sua reazione è uno sbigottito “tutto qui?”. Che bisogno c’è di tenere nascosta un’opera che, a ben vedere, il popolo non degnerebbe di uno sguardo? La risposta che l’ambasciatore riceve è la seguente: è vero, il popolo non riuscirebbe a capire il senso del quadrato nero, ma tramite esso vedrebbe che oltre alla società e allo Stato esiste altro. In questo “esiste altro” c’è il senso della letteratura per Frisch, la missione di un’arte che possa contrapporsi al potere.

Quello di Frisch è un discorso politico interamente incentrato sul ruolo della parola e della scrittura: il potere impone una lingua che informa e determina la percezione di sé e il racconto. È la lingua che impariamo a scuola, fatta di luoghi comuni, frasi fatte e stereotipi tarati sugli interessi della classe dominante. Il mestiere di chi scrive è quello di liberare sé e i propri lettori da questa egemonia, andando in cerca di una lingua più autentica, che possa avvicinarsi all’esperienza. Questo è il valore della letteratura come “quadrato nero”:

«Accade che la sua lingua mi liberi […]. Può darsi che inizialmente mi riduca al silenzio, giacché scopro grazie alla letteratura che quelle con le quali convivo sono tutte frasi fatte. E questo significa che non vivo me stesso. [La letteratura] mi sfida. Per dirla in breve: mi fa insorgere. Se questo non succede, leggere è superfluo».

[ illustrazione: Kazimir Malevič, Quadrato Nero, 1915 ]