APPRENDIMENTO, CINEMA, COLLABORAZIONE, DIVULGAZIONE, JAZZ, METAFORE, STORIE

Ecco perché Whiplash non parla di apprendimento (anche se è un film da Oscar)

Whiplash (2014), lungometraggio del ventinovenne Damien Chazelle, è candidato per la cerimonia degli Oscar 2015 a ben cinque premi, fra cui miglior film e miglior attore non-protagonista. Il film narra l’apprendistato di un giovane batterista jazz (interpretato dal giovane Miles Teller), il cui percorso di studi è guidato da un insegnante (un intenso J.K. Simmons) i cui metodi, basati sulla violenza verbale e fisica, sono alquanto discutibili.

Il film è una tesa e inquietante messa in scena di un rapporto maestro-dicepolo basato sull’abuso di potere e sulla manipolazione. Gli attori sorreggono perfettamente la sceneggiatura e J.K. Simmons in particolare si produce in una performance superba, decisamente degna di un Oscar.

Whiplash gioca su un piano morale controverso e, come dichiarato in un’intervista dallo stesso Chazelle, pone lo spettatore di fronte a un dilemma: il fine giustifica i mezzi? Nel porsi questo domanda bisogna fare attenzione a non cadere in inganno. Whiplash non parla, come a tutta prima potrebbe sembrare, di apprendimento. Né di motivazione propriamente intesa. Come notato, il film è incentrato su un abuso di potere che non può in nessun modo essere inteso come una lezione sull’efficacia di un insegnamento condotto, con stampo militaresco, in maniera punitiva e violenta.

Sono in molti a essersi scagliati contro il messaggio potenzialmente controverso del film. In particolare, gli appassionati di jazz hanno trovato indebito l’utilizzo di un aneddoto loro particolarmente caro, cioè quello sull’episodio in cui il sassofonista Charlie Parker imparò qualcosa di decisivo per il suo apprendimento. Nella versione cinematografica, l’episodio è raccontato in questi termini: quando Parker era, appena sedicenne, agli inizi del suo apprendistato musicale, gli capitò di suonare in jam session con l’orchestra del grande pianista Count Basie. Quando salì sul palco, il suo assolo fu immediatamente bloccato dal batterista Joe Jones, che gli scaraventò addosso, mancando di poco di colpirlo alla testa, un piatto della batteria. In seguito a questo episodio – narra nel film il dittatoriale maestro di musica – Parker fuggì dal palco e si rinchiuse in casa a studiare per evitare di incorrere di nuovo in simili punizioni sul palco. Fu così che, lavorando duramente su se stesso, Parker divenne poi “bird”, cioè il più grande sassofonista di tutti i tempi. Come ogni appassionato di jazz sa bene – e come notano le riviste «Slate» e, con particolare acrimonia, «New Yorker» – , non andò proprio così.

L’episodio è piuttosto noto, raccontato da diversi libri dedicati a Charlie Parker fra i quali il più recente è l’ottimo Fulmini a Kansas City (2014) di Stanley Crouch. Il batterista Joe Jones non tirò il piatto addosso a Parker per colpirlo, ma lo gettò a terra a mo’ di gong, come a dire: “il tuo tempo sul palco è scaduto, pivello”. Questo gesto, una consuetudine delle jam session della band di Basie, bollava ironicamente la performance di un musicista suggerendogli di tornare a far pratica. Parker se ne andò dal palco in effetti sconsolato, ma dal quel momento prese per lui avvio uno studio della musica molto attento alla dimensione relazionale, sorretta dal positivo rapporto con maestri, mentori e compagni di jam session. L’aneddoto non racconta dunque né di un gesto violento e punitivo né di un supposto valore perfezionista di una pratica solitaria (quella su cui si concentra il protagonista di Whiplash). Trasferisce al contrario un gesto tutt’al più ironico e, soprattutto, il senso di un apprendimento autentico perché relazionale. Questa è la lezione più preziosa offerta dal jazz a chiunque si confronti con l’imparare. Una lezione che un film pur ottimo come Whiplash manca totalmente di cogliere.

[ illustrazione: fotogramma dal film Whiplash di Damien Chazelle – 2014 ]

APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, COMPLESSITÀ, CREATIVITÀ, DEMOCRAZIA, ECONOMIA, JAZZ, LAVORO, MANAGEMENT, POLITICA

Tradizione e innovazione: la lezione collaborativa del jazz

Un contributo per «Il Sole 24 Ore» del filosofo Arnold I. Davidson prende spunto da un album dell’ottetto del compositore e sassofonista americano Steve Lehman, Mise En Abîme (2014), per formulare acute osservazioni sulla relazione fra tradizione e innovazione e democrazia e individualità.

In termini di tradizione, Lehman mostra di coltivare nei confronti del suo principale maestro, il sassofonista Jackie McLean, un rapporto che riconosce l’influenza delle radici esponendola all’urgenza dell’innovazione. Il rapporto con una tradizione è un processo di adesione culturale che necessita – come Davidson nota nel suo articolo – un rischioso rispetto, cioè una dinamica relazione fra continuità e discontinuità che dà vita a una reinterpretazione di senso. Il jazz è del resto il genere di musica più incline a una continua rilettura creativa del passato: per convincersene basta pensare ai cosiddetti standard, brani tradizionali – spesso risalenti agli anni ’30 e all’epoca d’oro di Broadway – che continuano a essere suonati in maniera sempre nuova e personale attraverso il passaggio da una generazione all’altra di musicisti.

Rispetto alla relazione tra individuo e collettivo, il disco di Lehman offre un intreccio di improvvisazioni personali che riesce a suonare pieno di diverse sfaccettature e insieme coeso. Non appena si ascoltano le prime note del disco, la musica di Lehman e del suo ottetto risulta subito estremamente complessa, proprio come qualsiasi autentica interazione sociale. Lehman aderisce alla lezione della musica “spettrale”, cioè un approccio armonico costruito sui timbri piuttosto che sulle tradizionali relazioni tonali. Questo modo di relazionarsi richiede ai musicisti una grande disciplina creativa in cui, come nota Arnold I. Davidson, la democrazia “di massa” cui siamo soliti pensare lascia spazio a una democrazia degli individui nella quale diventa possibile esprimere la propria voce all’interno di una ricca interazione sociale. Seguendo Davidson:

«La coesione ricercata non è quella dell’unità, ma una coesione interattiva, e più fragile, tra delle personalità singolari».

È questa la preziosa lezione di democrazia offerta dal jazz – e nello specifico dall’ottimo disco di Lehman – a qualsiasi organizzazione sociale.

[ illustrazione: l’orchestra di Count Basie, in primo piano Lester Young e Basie, 1945 ]

JAZZ, LETTERATURA, METAFORE, MUSICA, SCRITTURA

Ritratti in jazz: il Murakami che non ti aspetti

Chi conosce Murakami Haruki sa che nei suoi libri sono disseminate tracce di una riconoscibile passione musicale. In particolare, l’amore per il jazz – in maniera simile a quello per il podismo raccontato in L’arte di correre (2007) – ha accompagnato momenti importanti della vita dello scrittore giapponese (che ha anche gestito un jazz club per diversi anni), e questo si coglie leggendo i suoi romanzi, a partire dal “beatlesiano” Norwegian wood (1987).

Recentemente pubblicato in Italia da Einaudi, Ritratti in jazz (2013) costituisce un’ottima introduzione al Murakami jazzofilo. A partire da due serie di illustrazioni di  Makoto Wada, composte da ritratti di musicisti jazz di varie epoche e stili, Murakami si diverte a mettere sul piatto del giradischi un album per ciascuno dei jazzisti ritratti da Makoto, lasciando che sia la musica a guidare il moto della penna sulla carta (o, se si preferisce, il battito delle dita sulla tastiera). Il risultato è un piccolo “manuale del jazz” sui generis, buono tanto per neofiti quanto per ascoltatori esperti, nel quale la dimensione affettiva prevale su qualsiasi pretesa filologica.

Si può ben dire che Murakami, scrivendo di jazz, improvvisi. Le sue note mostrano una passione di lunga data, sorretta da una profonda conoscenza di questo genere musicale. La padronanza dell’argomento gli permette di divagare senza troppe remore, per esempio iniziando a scrivere di un musicista e finendo per tessere le lodi di un altro. Il giornalismo musicale è un mestiere arduo – come non citare, anche in questa occasione, la massima “scrivere di musica è come ballare di architettura? – e Murakami mostra di non avere particolare cura di adeguarsi ai suoi canoni.

Poiché l’approccio è smaccatamente autobiografico, la scrittura può prendersi libertà che a un giornalista non sarebbero concesse. Diventa dunque ancor più piacevole confrontarsi con il ricco lavoro sul tessuto narrativo – e in particolare sull’aggettivazione e le metafore – svolto da Murakami. Nelle sue brevi schede il contrabbasso di Scott LaFaro è “fresco come la primavera e profondo come un bosco”, il suono del pianista Thelonious Monk “sembra scalfire un duro pezzo di ghiaccio”, la voce del sax tenore di Johnny Griffin suona “dura come un nigiri ben compresso”. Ogni pagina di Ritratti in jazz è fresca, coinvolgente e capace di far crescere in chiunque l’amore per quella magnifica musica che risponde al nome di jazz.

[ illustrazione: Thelonious Monk in un disegno di Wada Makoto ]

APPRENDIMENTO, INNOVAZIONE, JAZZ, LAVORO, MUSICA

Il controllo? Una cosa da principianti

Il mondo delle organizzazioni di impresa si regge sui presupposti della sicurezza e del controllo. Il controllo è premessa di sicurezza, perfino riguardo l’innovazione di prodotto. La sperimentazione che precede ogni lancio sul mercato è un “allenamento” alla perfezione: quando il prodotto giunge a essere privo difetti, allora è giunto il momento di lanciarlo. Sfortunatamente, questa condotta è soggetta a un problema non indifferente: dedicandosi troppo a lungo all’allenamento, spesso si smarrisce il senso del contesto e del tempismo. E il mercato non sta a guardare.

Nel 1946 l’americana AT&T mise a punto la tecnologia su cui si basa il funzionamento dei telefoni cellulari. Per l’azienda l’ingresso commerciale in questo settore avvenne tuttavia solo nel 1994, anno in cui AT&T acquisì la società competitor McCaw Cellular. A cosa fu dovuto questo ritardo? Al fatto che, mentre altre aziende iniziavano a mettere sul mercato servizi sperimentali che vennero ottimizzati “sul campo”, AT&T preferì continuare ad allenarsi in cerca della perfezione, restando così indietro di 50 anni rispetto alla concorrenza.

Gli stalli causati dalla tensione alla perfezione sono un fenomeno ben noto anche ai musicisti. Il tempo dell’allenamento deve necessariamente giungere a una conclusione: il principiante, dopo aver reso solide le sue competenze di base, ha bisogno di lasciarsi andare, di allentare il controllo. Qual è il segreto di una performance musicale che tende all’innovazione? Permettere che fare individuale e collettivo siano uniti da un presupposto: prendere distanza dal controllo e considerare la possibilità di errore come una pratica costitutiva.

Il genere musicale che sotto questo punto di vista più ha da insegnare alle aziende è il jazz: l’improvvisazione altro non è che la continua rimessa in gioco delle proprie competenze rispetto al contesto. Qui e ora, in tempo reale e in rapporto ad altri musicisti. Allentare i vincoli del controllo e mettere alla prova le proprie sicurezze significa anche, all’interno di un lavoro collettivo, essere generosi nel concedere spazio di azione ad altri. Un approccio “jazz” all’innovazione offre dunque due lezioni al mondo del business: il nuovo emerge allentando il controllo; la performance si rafforza conferendo fiducia.

[ illustrazione: da sinistra a destra, Billy Bauer, Eddie Safranski, Charlie Parker e Lennie Tristano, New York, 1949 – foto di Herman Leonard ]

APPRENDIMENTO, COMPLESSITÀ, CREATIVITÀ, FRUGALITÀ, INNOVAZIONE, JAZZ, LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ

Jugaad: l’approccio “jazz” all’innovazione che viene dall’India

Fa il suo arrivo nelle librerie italiane Jugaad innovation di Navi Radjou, Jaideep Prabhu e Simone Ahuja. L’editore Rubbettino – con la curatela di Gianni Lo Storto e Leonardo Previ – porta finalmente in Italia il libro che ha reso famoso in tutto il mondo un approccio al 100% indiano che ha molto da insegnare a quanti si sentono oggi chiamati, tanto nelle aziende quanto nella quotidianità, a fare di più con meno.

“Jugaad”, termine Hindi pressoché intraducibile in maniera letterale, è un sinonimo di creatività, quella vera. Vale a dire: niente di geniale o magico, ma grande abilità nel trovare nuove soluzioni per vecchi problemi, usando al meglio le risorse di contesto. Del resto, come affermava il matematico Henri Poincaré  (1854-1912):

«Essere creativi significa esercitare la capacità di combinare elementi esistenti in modo nuovo e utile».

Questo è il nucleo centrale dell’approccio jugaad: un grande patrimonio di esempi frugali provenienti da una nazione che ha saputo fare di più con meno per risolvere problemi quotidiani e per produrre un nuovo modello di innovazione per il mondo delle imprese. Ed è proprio in tema di innovazione che l’approccio jugaad ha più da offrire:

«Per troppo tempo il modello di innovazione occidentale è stato simile a un’orchestra: top-down, rigido e guidato dagli alti livelli organizzativi. Questo tipo di modello funziona bene in un mondo stabile e ricco di risorse. Ma poiché quello che le aziende occidentali dovranno affrontare nei prossimi anni è un contesto business complesso e imprevedibile, esse hanno bisogno di un approccio alternativo, più simile a quello di un gruppo jazz: bottom-up, capace di improvvisare, fluido, collaborativo e inserito in una cornice di profonda conoscenza. L’approccio jugaad rappresenta quest’alternativa».

Questo passaggio di Jugaad Innovation rende particolarmente evidente che in un momento di crisi economica globale è diventato necessario, anche per le aziende occidentali, assumere un diverso paradigma di innovazione, non più basato su un’aspettativa di abbondanza ma sulla capacità di muoversi al meglio nella scarsità e nell’imprevedibile. Gli autori del testo esemplificano questa idea facendo uso della più potente metafora di innovazione e collaborazione emergente che le imprese hanno a disposizione: quella del jazz.

L’organizzazione come orchestra, metafora ancora oggi piuttosto popolare in molte aule di formazione, ha fatto il suo tempo. Per innovare – e ancor prima sopravvivere – in un contesto di scarsità c’è oggi bisogno di coltivare le competenze tipiche di un jazzista: ascolto, interplay, improvvisazione. Solo volgendosi in questo modo al contesto è possibile fare di più con meno. Ecco cos’ha da insegnarci, arricchendo questo messaggio della saggezza e dell’esperienza indiana, l’approccio jugaad.

[ illustrazione: particolare dalla copertina del disco Jazz Meets India di Irene Schweizer Trio & Dewan Motihar Trio, 1967 ]

ARTE, INNOVAZIONE, JAZZ, MUSICA, SOCIETÀ, STORIE

Il rito della primavera: da Stravinskij a The Bad Plus, passando per Walt Disney

The Bad Plus è un ensemble americano che nel corso degli anni si è imposto come una delle più interessanti declinazioni contemporanee della classica formazione jazz del piano-trio, ideale erede – insieme al gruppo guidato dal pianista Brad Mehldau – dei celebri trio di Bill Evans e Keith Jarrett. Una delle caratteristiche che hanno portato The Bad Plus alla notorietà è la capacità di rileggere in chiave jazz alcuni “standard” della musica pop e rock originariamente composti da band e artisti come Nirvana, Pixies, Pink Floyd, David Bowie, Black Sabbath. Nel marzo 2014 è uscito il loro The Rite of Spring, quasi in coincidenza con l’equinozio di primavera e in esatto ritardo di un anno rispetto al centenario de Le Sacre du printemps, il celebre concerto per balletto e orchestra composto da Igor Stravinskij (1882-1971) e andato in scena per la prima volta il 29 maggio 1913 a Parigi, presso l’allora appena inaugurato teatro degli Champs-Élysées. Cimentarsi con il materiale di Stravinskij è per The Bad Plus una prova del tutto nuova, che la band riesce ad affrontare con successo, mantenendo la propria identità e senza cadere nella banale trappola di una “versione jazz” di Stravinskij.

Le musiche di quella che in italiano è stata malamente tradotta come La sagra della primavera rappresentano uno dei materiali più importati e rivoluzionari della musica novecentesca. Stravinskij fu capace di innovare con questa partitura su più fronti: tanto sulla tonalità, quanto sul metro; tanto sulla dissonanza, quanto sul ritmo. La forza dirompente delle musiche di Stravinskij è pienamente dimostrata dai resoconti d’epoca, che narrano di un ormai “mitologico” tumulto – oggi irripetibile, dato il cambiamento dei costumi musicali e più in generale culturali – scoppiato tra le mura del teatro degli Champs-Élysées nella notte del 29 maggio 1913. Per la verità, critiche violente continuarono a presentarsi anche nelle successive repliche – a partire dalla seconda, cui presenziò un indignato Giacomo Puccini – e nelle messe in scena in altre nazioni.

Le Sacre du printemps arrivò negli Stati Uniti solo nel 1930, finalmemente accompagnato da un clima di maggiore comprensione dell’opera. Fra i suoi ascoltatori più entusiasti spiccò Walt Disney (1901-1966), che decise di utilizzare buona parte del concerto per il proprio film Fantasia (1940), interamente basato sull’interazione fra animazione e musica sinfonica. La parte di Fantasia che utilizza Le Sacre du printemps è quella che narra l’origine della Terra, dalla comparsa delle prime forme viventi fino all’estinzione dei dinosauri. Come ben argomentato da un articolo del «Washington Post», la versione filmica di Disney ha reso molta più giustizia a Le Sacre du printemps di quanto siano riuscite a fare nel corso del tempo moltissime coreografie di balletto, dalla prima, deludente, di Vaslav Nijinsky, fino a quella altamente controversa messa in scena da Pina Bausch nel 1975. Le musiche di Stravinskij, che narrano di un rito pagano che risale alle origini della civiltà, si sposano perfettamente con la danza delle forze naturali messa in scena da Disney. Guardare il brano di Fantasia, farlo seguire da un ascolto della reinterpretazione di The Bad Plus – e poi concludere con una più tradizionale interpretazione come quella diretta dal finlandese Esa-Pekka Salonen – è il miglior modo per celebrare i cento anni di una composizione fondamentale per la storia della musica occidentale.

[ illustrazione: caricatura di Jean Cocteau che rappresenta Igor Stravinsky intento a suonare la Sagra della Primavera, 1913 ]

ARTE, CULTURA, JAZZ, RAPPRESENTAZIONE, STORIE

Un viaggio nel jazz delle origini: King Zulu di Jean-Michel Basquiat

Qualche anno fa, visitando la mostra “Il Secolo del Jazz” presso il MART di Rovereto, mi sono trovato di fronte alla grande tela di King Zulu, dipinto del 1986 di Jean-Michel Basquiat (1960-1988). Sfogliando il catalogo della mostra, si trova l’opera così descritta: «Questa tela esibisce su un bel fondo blu un trombettista e qualche altro strumentista». Queste parole, che descrivono per sommi capi quel che l’opera rappresenta, possono essere sufficienti per molti, soprattutto per chi non sia stato colpito in presenza dalla sua forza. Di certo non sono sembrate sufficienti allo storico del jazz Francesco Martinelli, autore di un profondo lavoro di indagine capace di restituire il senso simbolico di ogni riferimento iconografico contenuto nell’opera e, soprattutto, il rispetto e l’amore di Basquiat per il jazz.

Anzitutto, il “king zulu” del titolo altri non è che Louis Armstrong, il quale tornando nel 1949 alla nativa New Orleans venne celebrato come “re zulu” della festa di Mardi Gras. Un’immagine d’epoca associa a questo evento la stessa maschera qui rappresentata. Ecco allora che il quadro si rivela un omaggio ad Armstrong, ricco di riferimenti rispecchiabili nell’autobiografia scritta dal musicista nel 1954. E così si prosegue con la scritta, poco visibile sotto a “king zulu”, “do not stand in front of orchestra”, segnale per il pubblico che campeggia in alcune foto dell’orchestra “natante” sul Mississipi del pianista Fate Marable, uno dei primi musicisti a cogliere il valore di Armstrong. La figura di trombettista in primo piano è probabilmente tratteggiata pensando a una foto di Bunk Johnson, altro musicista di New Orleans, mentre la piccola immagine di sassofonista in alto sulla destra rimanda forse al celeberrimo Lester Young o più probabilmente al meno noto Norman Mason, che suonava con Armstrong nell’orchestra di Marable. Il trombonista sulla sinistra è con tutta probabilità Bill Mathews, mentre la misteriosa figura in bianco sulla destra si rifà alla silhouette di una foto del trombettista Henry “Kid” Rena, entrambi nuovamente riconducibili alla scena di New Orleans. Per concludere, la “G” che si trova sotto alla scritta “king zulu” riproduce il lettering del logo dell’etichetta discografica Gennett. La “G” è accompagnata da un numero di matricola precisamente riconducibile a un disco, cioè l’incisione di Sensation del 1924 a opera dei Wolverines, band di musicisti bianchi in cui spiccava il grande trombettista Bix Beiderbecke. Il racconto del jazz delle origini condotto da Basquiat si chiude quindi con la celebrazione della relazione fra Armstrong e Beiderbecke, fra le radici afroamericane di questa musica e uno dei primi musicisti bianchi ad abbracciarla.

Questo non è che uno sbrigativo sunto dell’attenta indagine di Martinelli, che offre molto più che un gioco di “riconoscimenti” e vale per lo meno la pena di seguire in questa presentazione. Quanto all’opera di Basquiat, si possono qui riprendere le parole dell’ottimo blog Jazz from Italy (fonte di diverse illustrazioni qui riportate):

«King Zulu usa i codici e le parole, come fossero pennellate, per accedere nel mondo del non detto, permettendoci di seguirlo, per avvicinarsi all’universo ignorato dalla cultura dominante, al cosmo cancellato dalle storie precedenti, al creato dell’emotivo reale, eppur invisibile ai più».

[ illustrazione: King Zulu di Jean-Michel Basquiat, 1986 ]

APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, INNOVAZIONE, JAZZ, MANAGEMENT, MUSICA, STORIE

Beatles e Duke Ellington fra managerialità e collaborazione

Un recente articolo di Adam Gopnik raffronta due casi musicali raramente giustapposti, quelli di Duke Ellington e dei Beatles. Principale oggetto del confronto è la relazione con la creatività musicale – personale e altrui – messa in atto da musicisti così diversi.

Quel che anzitutto colpisce è la “mediocre” perizia tecnica che i due casi hanno in comune: Ellington era un pianista poco più che discreto e i Beatles non erano certo grandi strumentisti. Ciononostante, entrambi furono in grado di costruire qualcosa di unico sviluppando in massima misura un’importante competenza musicale, quella dell’orecchio. Competenza che qui si può provare a leggere anche in chiave manageriale.

Ellington esercitò orecchio nei confronti dei tanti musicisti di talento di cui seppe circondarsi, spesso reali autori di molti dei successi registrati a suo nome, come Take the A Train o Caravan. Alcune voci hanno addirittura tacciato Ellington di sfruttamento nei confronti di questi musicisti, ma resta indubbio il fatto che senza le sue capacità di visione e gestione, idee altrui indubbiamente assai brillanti sarebbero rimaste semplicemente tali senza mai concretizzarsi. Fare attenzione a questo, come nota Gopnik, dovrebbe metterci in guardia contro la classica tentazione “romantica” del dar più valore alle idee che al lavoro che le realizza.

Quanto ai Beatles, l’orecchio si mostrò anzitutto nel loro riuscire sempre, anche a fronte delle abilità musicali non eccelse di cui si è detto, a cantare perfettamente in tono, cosa non scontata e in ogni caso decisamente legata alla competenza dell’ascolto. In termini di relazione con idee altrui, i Beatles furono grandissimi divulgatori e interpreti di quanto di musicale erano in grado di raccogliere intorno a loro. L’eclettismo che che caratterizzò i successi della parte finale della loro carriera venne fondato ai loro esordi grazie all’abilità di risultare credibili mescolando “ingredienti” presi tanto da Chuck Berry quanto da Roy Orbison e molti altri. Anche in questo caso, una capacità manageriale di relazione e contestualizzazione mostra di essere ben più importante di un non ben qualificato “talento”.

[ illustrazione: foto dei Beatles agli esordi ]

JAZZ, MANAGEMENT, MUSICA

La metafora del jazz per le organizzazioni di impresa

La Terza Ondata (1980) è uno dei libri più profetici del futurologo Alvin Toffler. Con i suoi neologismi (tecnosfera, sociosfera, infosfera) e le previsioni di mutamento economico e sociale, risulta una lettura utile per capire molti “perché” dell’attuale società occidentale.

In uno dei passaggi incentrati sulle innovazioni introdotte dalla “seconda ondata”, identificabile in termini generali con la rivoluzione industriale e posizionata temporalmente da Toffler fra il 1750 e il 1955, l’autore si sofferma sull’influenza ideologica e strutturale che l’organizzazione industriale ha esercitato sull’ambito della musica.

Con riferimento allo  studioso di storia della musica Curt Sachs, che ricorda come nel XVIII secolo il passaggio da una cultura musicale prettamente aristocratica a una democratizzata comportò la necessità di disporre di sale per concerti sempre più grandi, che richiedevano un più alto volume del suono, Toffler osserva quanto segue:

«L’orchestra rifletté alcuni aspetti della fabbrica persino nella sua struttura interna. Inizialmente l’orchestra sinfonica non aveva un direttore oppure la direzione veniva curata a turno dagli orchestrali. Successivamente gli orchestrali, proprio come i lavoratori di una fabbrica o di un ufficio, furono divisi in reparti (settori strumentali), ognuno dei quali contribuiva alla produzione complessiva (la musica) ed era coordinato dall’alto da un capo (il direttore) e persino, più tardi, da un capo intermedio (il primo violino o il capo del settore strumentale)».

Le parole di Toffler sono una dimostrazione del perché la musica sinfonica può essere un’ottima metafora dell’organizzazione moderna del lavoro: semplicemente perché la strutturazione dell’orchestra ne è figlia. E dimostrano anche come questa metafora sia oggi – o, secondo Toffler, da quando siamo entrati nella “terza ondata” – del tutto inadatta a parlare delle imprese contemporanee, da lungo tempo definite come organizzazioni che apprendono. Del resto, studiosi come Peter Drucker (1909-2005) hanno parlato fin dagli anni ’60 della maggiore adeguatezza alle nuove organizzazioni della metafora del jazz. In un’intervista del 1994 Drucker afferma:

«The model of management that we have right now is the opera. The conductor of the opera has a very large number of different groups that he has to pull together. The soloists, the chorus, the ballet, the orchestra, all have to come together—but they have a common score. What we are increasingly talking about today are diversified groups that have to write the score while they perform. What you need now is a good jazz group».

[ illustrazione: Lucia Ghirardi ]