LAVORO, POLITICA, SOCIETÀ, TEMPO

Dell’inciviltà della massa

Rileggere un testo a oltre novant’anni dalla sua scrittura e trovarvi elementi di attualità può restituire sensazioni ambivalenti; difficile disgiungere la sorpresa dalla preoccupazione, soprattutto se ci si confronta con uno dei primi libri ad aver trattato della cultura di massa, contribuendo a dar forma alla sua lettura critica sviluppatasi nel secondo novecento: La ribellione delle masse è il saggio che José Ortega Y Gasset (1883-1955) scrive nel 1930, analizzando aspetti della società di massa in Europa che non potevano che allarmarlo (e a ragione, dati i venti di guerra che da lì a poco avrebbero ripreso a soffiare). All’autore sta a cuore riflettere sulla società e sul ruolo disgregante assunto dalle nuove strutture statali basate sulla burocratizzazione e sulla violenza, ben rappresentata dall’aumento delle forze di polizia.

Rispetto al raffronto con il presente, a colpire è soprattutto è la descrizione di una nuova massa che dalle generazioni precedenti ha ricevuto in dono le sicurezze della civiltà – intesa come onerosa costruzione della coesistenza sociale – e le dà per scontate, come una eredità dovuta nei confronti della quale non nutre gratitudine ma supponenza. L’uomo nuovo descritto da Ortega Y Gasset ha la presunzione di sentirsi “come tutto il mondo”, senza darsene pensiero. La mancanza di responsabilità è la sua natura; la barbarie la condotta tramite cui attua la “ribellione” che dà titolo il libro:

Interverrà dovunque, imponendo la sua volgare opinione, senza miraggi, senza contemplazioni, senza tramiti né riserve, vale a dire, secondo un regime di “azione diretta”.

In tema di barbarie, per Ortega Y Gasset è cruciale l’intersezione con lo sviluppo delle scienze, informato dalla meccanizzazione. L’uomo-massa è un “saggio ignorante”, forte delle sue conoscenze parcellizzate ma del tutto all’oscuro dei saperi che la sua specializzazione non esplora, verso i quali si pone tuttavia con la petulanza di chi sa di sapere.

Impossibile non pensare non solo alle parole di George Bernard Shaw sull’ignoranza degli specialisti, ma soprattutto a quanto accaduto nei decenni successivi, in termini di fenomeni ambivalenti come l’alfabetizzazione di massa e il prevalere della cultura lavorativa di stampo “aziendale”, che hanno portato con sé conseguenze che oggi vediamo sviluppate nelle loro tristi derive: burocratizzazione di ogni ambito sociale; discredito dei saperi tradizionali e relativizzazione dei valori civili, rimozione del lato ideale dalla sfera politica. Ecco perché leggere un libro di oltre  novant’anni fa continua a restare molto prezioso per comprendere l’oggi.

[ Illustrazione: particolare da Metropolis di George Grosz, 1916-17, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid ]

IRONIA, LETTERATURA, SCIENZA, STORIE, TEMPO

Di quella volta che Einstein e Kafka (non) si incontrarono

Atlante occidentale, romanzo del 1985 di Daniele Del Giudice, è un manifesto allo spirito più puro e disinteressato dell’amicizia, quello grazie a cui persone perfettamente estranee e del tutto diverse fra loro possono incontrarsi per caso e scoprire quanto le loro “rotte” possano essere complementari e parallele (quello del volo è tema particolarmente caro a Del Giudice, nonché centrale in questo libro).

Un giovane fisico e un anziano scrittore stringono un’amicizia insieme estemporanea e profonda, che riesce a evocare simbolicamente anche un difficile – ma non impossibile – incontro a metà strada fra il campo scientifico e quello umanistico. In questo senso Del Giudice rende in forma di romanzo la stretta di mano fra i due mondi auspicata da Charles Percy Snow nel suo Le due culture (1959), saggio dedicato a denunciare la mancata integrazione fra cultura scientifica e umanistica. A rafforzare questa tesi, che rende ancor più importante un racconto di per sé già bellissimo, è lo spunto di uno dei due personaggi messi in scena da Del Giudice, che evoca i possibili incontri – o mancati incontri – fra un altro scienziato e un altro scrittore:

Forse ci sono tempi diversi dal nostro in cui Einstein e Kafka escono ogni giorno di casa, stanno per incontrarsi, tornano indietro; escono di nuovo, sono sul punto di farcela, ritornano a casa. O tempi ciclici in cui Einstein e Kafka si incontrano ogni tanti anni e dicono “Ancora lei!”, tempi dell’attesa in cui passano la vita aspettando d’incontrarsi e ogni istante potrebbe essere quello buono, ma non si incontrano perché in realtà si sono già incontrati senza che nessuno dei due se ne accorgesse; o tempi biforcuti in cui si incontrano e contemporaneamente non si incontrano, e il fatto è del tutto equivalente».

In realtà è possibile che almeno qualche fugace incontro fra i due ci sia stato, perché Albert Einstein – come scrive anche Del Giudice – insegnò fra il 1911 e 1912 all’Università di Praga ed era uso frequentare il Cafè Louvre, all’epoca ritrovo bisettimanale delle cerchie intellettuali della città (come approfondito in Praga al tempo di Kafka di Patrizia Runfola). Franz Kafka di certo conobbe la teoria della relatività, che forse arrivò a influenzare alcuni suoi scritti. È per esempio curioso ritrovare nel suo racconto di una pagina Una confusione che succede ogni giorno (1917), contenuto nella raccolta Il messaggio dell’imperatore, l’ironica narrazione di un incontro ostacolato da strani sfasamenti spazio-temporali (il tempo non più assoluto di Einstein?). Ecco l’incipit del racconto (cui Del Giudice, piace pensare, non può non essersi ispirato):

Un caso che succede ogni giorno: il risultato, una confusione che succede ogni giorno. A deve concludere un importante affare con B, che abita a X. Per prendere gli accordi preliminari si reca X, fa la strada di andata e ritorno in dieci minuti e si vanta, giunto a casa, di questa eccezionale velocità. Il giorno dopo torna X per concludere definitivamente l’affare. Poiché prevede che ciò esigerà parecchie ore, A si mette in istrada di mattina presto. Sebbene tutte le circostanze, almeno secondo l’opinione di A, siano perfettamente le stesse che il giorno prima, questa volta per giungere a X egli impiega 10 ore. Quando arriva là, stanco, a tarda sera, gli dicono che B irritato per l’assenza di A, mezz’ora prima s’è recato a cercare A al suo villaggio e avrebbero assolutamente dovuto incontrarsi per via. Consigliano A di aspettare. Ma A, inquieto per il suo affare, se ne va e s’affretta verso casa.

[ Illustrazione: fotografia di Fred Herzog, Two Men in Fog (1958) ]

ANTROPOLOGIA, COMPLESSITÀ, CONOSCENZA, CREATIVITÀ, INTERNET, IRONIA, SCUOLA, TECNOLOGIA, TEMPO

Perdere tempo su internet, guida all’uso

Kenneth Goldsmith è poeta, agitatore web e profeta della scrittura non creativa. La sua ultima trovata, sperimentata nelle vesti di docente universitario presso la University of Pennsylvania, è un corso dal sorprendente titolo “Wasting Time on the Internet”. L’insegnamento, lungi dal criticare il fenomeno della continua perdita di tempo sul web, lo eleva a fonte di ispirazione per la produzione di testi letterari.

Nella storia della cultura, le provocazioni offrono quasi sempre un doppio livello di lettura. C’è quello più superficiale, cui spesso si fermano i media di massa. Secondo quest’ottica, Goldsmith fa scalpore perché nobilita qualcosa di cui tutti si lamentano quotidianamente, scovando – proprio come faceva Baudelaire a metà ‘800 – il bello nell’effimero. C’è poi un senso più elevato, che si spoglia di valenze ironiche e riflette su mutamenti antropologici profondi. A ben vedere, Goldsmith non ci parla tanto di distrazione e passività (che del resto non sono certo invenzione di internet), ma della crisi di un modello di pensiero – quello della “cultura occidentale” – che continua a non riuscire a fare i conti con il susseguirsi dei mutamenti tecnologici.

La questione non è dunque demonizzare internet, ma sviluppare competenze che portino a saperlo usare con maggiore consapevolezza, nella vita personale e in quella lavorativa. E ben venga dunque un corso che aiuta i giovani universitari – una delle fasce di età che vivono il web con più immediatezza – a esplorare le potenzialità creative di un medium tanto ricco quanto spesso inestricabile. Questo è quanto è davvero in gioco; il resto è mero sensazionalismo da prima pagina.

[ illustrazione: il meme di internet noto come Nyan Cat ]

CINEMA, COMUNICAZIONE, MANAGEMENT, PERCEZIONE, TEMPO

Un film lungo 12 anni: Boyhood di Richard Linklater

Secondo il parere di molti, con Boyhood (2014) Richard Linklater ha realizzato il suo capolavoro. Di certo, i centosessantacinque minuti del film costituiscono un sontuoso sunto dei frammenti di americana quotidianità raccolti dal regista lungo un percorso ormai più che ventennale. La propensione per sceneggiature destrutturate, l’attenzione allo sviluppo dei personaggi, la sensibilità per i dialoghi che lo rende il “Rohmer americano”: chi ha imparato a riconoscere questi tratti di Linklater li ritroverà in Boyhood. E troverà quanto ha più fatto parlare del film, cioè un esperimento sul tempo mai portato al cinema prima d’ora. Dopo aver costruito una storia d’amore lunga diciotto anni con il trittico di Before Sunrise (1995), Before Sunset (2004) e Before Midnight (2013), Linklater concentra ora dodici anni di vita in un unico film. Si tratta ancora una volta di vita americana, ma soprattutto della vita dei protagonisti e degli attori che li interpretano. Il racconto di Boyhood riesce in un’impresa filmica di prim’ordine: raccontare una storia attraverso l’ordinarietà del tempo che passa, lasciando in secondo piano la straordinarietà degli eventi che da esso emergono.

Quanto alla sua dimensione progettuale, organizzativa ed economica, la realizzazione di Boyhood rappresenta una scommessa e un atto di fiducia nei confronti delle relazioni e del futuro. Nell’arco dei dodici anni di lavorazione si è girato in tutto per trentanove giorni, non più di tre-quattro all’anno. A fronte di un simile ritmo di riprese, nel corso del quale Linklater e i suoi attori principali hanno affrontato anche altri progetti, è stata un’amalgama particolarmente stretta di incertezza e fiducia a permettere al progetto di giungere a compimento. Linklater ha potuto fare affidamento fin dall’inizio su un eroico sostegno da parte della produzione, oltre che sull’opera di addetti alla fotografia e al montaggio che sono riusciti nell’impresa di rendere visivamente coeso e “naturale” un materiale visivo così esteso nel tempo. Quanto al rapporto con gli attori, il regista ha dovuto fare i conti con l’impossibilità di firmare contratti vincolanti su un ampio arco di tempo, riuscendo a costruire – soprattutto con il giovane Ellar Coltrane, il ragazzo protagonista del film – una forte relazione di stima. Pensando di nuovo ai dodici anni di lavoro, la capacità di presidiare il cambiamento e garantire una visione di insieme dimostrata da Linklater è espressione di doti di leadership che, al di là dei luoghi comuni sui registi factotum, non è scontato trovare su un set cinematografico.

[ illustrazione: still da Boyhood di Richard Linklater – 2014 ]

CREATIVITÀ, EPISTEMOLOGIA, INTERNET, LETTERATURA, SCRITTURA, TECNOLOGIA, TEMPO

Il “realismo istantaneo” del web

Il romanzo, così come l’abbiamo conosciuto, rischia di sparire. A metterne a repentaglio l’esistenza sarebbe, tanto per cambiare, il web, origine di praticamente ogni male contemporaneo. Siamo di fronte a una concreta minaccia, o si tratta dell’ennesimo bluff giornalistico? Tanto per cominciare, il tema non è esattamente una novità: la crisi del romanzo viene discussa da così tanto tempo – circa cento anni, nota lo scrittore inglese Will Self – da essere diventata un topos culturale. È se è pur vero che il tratto caratteristico dell’epoca contemporanea è l’allergia alla complessità, in tutte le sue manifestazioni estetiche, quanta parte di questo stato di cose è da imputare al famigerato web? È lo stesso Self, in un articolo per «The Guardian», ad analizzare la questione.

Come dedicare tempo di qualità alla lettura? Staccarsi da internet, spegnere la tv, zittire la radio, sfuggire al continuo chiacchiericcio che ci circonda. Disconnettersi è oneroso, ma fattibile. Ma cosa può succedere se, una volta immersi nella lettura, scopriamo che il testo con cui ci stiamo confrontando è frutto di un lavoro che non è riuscito a sfuggire alle distrazioni da noi faticosamente annullate? Quel che differenzia lo scrittore di oggi da chi l’ha preceduto, in epoca pre-internet, è la presenza di un surrogato immaginativo sempre a portata di mano. Sei in difficoltà nel trasformare in parole la sensazione di un’immagine, di un suono, di un gusto? Niente paura: basta cercare sul web, infinito deposito di “realismo istantaneo”, una soluzione pronto uso. Ecco la radicalità del punto di vista di Self: il web minaccia il romanzo non tanto perché distrae i lettori, ma perché impigrisce la fantasia degli scrittori.

[ illustrazione: Mario Schifano, 1970 ]

ARTE, CINEMA, FOTOGRAFIA, TEMPO

La luce del ricordo nelle fotografie di Andrej Tarkovskij

Quello della continuità, a fronte di variazioni di forma e mezzo, è un risultato difficile da perseguire per qualsiasi artista. Le istantanee di Andrej Tarkovskij (1932-1986) raccolte nel libro fotografico Luce istantanea (2002) riescono in questo difficile compito, restituendo sensazioni visive assai vicine a quelle trasmesse dal grande regista in film come Lo Specchio (1975) o Stalker (1979).

Verso la fine degli anni ’70 Tarkovskij “scoprì” la Polaroid, realizzando molte immagini durante i suoi spostamenti tra Russia e Italia. La “luce istantanea” di uno strumento fotografico semplice è messa al servizio di un’attenzione che si volge a piccoli frammenti domestici o a spazi naturali carichi di placida trascendenza. In tutte le immagini prevale la riflessione personale impressa dal regista sulla pellicola, attraverso un senso dell’esperienza che, come notato dal fotografo Giovanni Chiaramonte in un commento alla raccolta, si fa ricordo.

Queste immagini sembrano accompagnare la profonda indagine di Tarkovskij sul senso del tempo, tema centrale della sua produzione cinematografica oltre che delle più esplicite riflessioni del saggio Scolpire il tempo (1988). In relazione alle note contenute in questo testo riguardo al ruolo dell’arte per la conoscenza e più in generale a un’esperienza autenticamente fenomenologica del mondo, il senso delle Polaroid di Tarkovskij pare interamente catturato da questo pensiero:

«Naturalmente l’uomo si avvale di tutto il patrimonio di conoscenze accumulato dall’umanità, ma tuttavia l’esperienza di autoconoscenza morale, etica, costituisce l’unico scopo della vita di ciascuno e soggettivamente viene vissuta ogni volta come un’esperienza totalmente nuova».

[ illustrazione: Andrej Tarkovskij, Mjasnoe, 1980 ]

CAMBIAMENTO, CITTÀ, CULTURA, ECONOMIA, LAVORO, LETTERATURA, LIBRI, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TEMPO

Da Kansas City a Milano: Bianciardi, Parise e il cambiamento culturale

«Non siamo in America, dove non c’è cultura umanistica che affonda nel passato, e dove il paesaggio e la realtà giornaliera coincidono perfettamente con la cultura americana».

«Essendo il nostro paese molto vecchio permangono in molti suoi abitanti e nonostante il velocissimo processo di integrazione in corso che rende uguale ogni apparenza, alcuni frammenti di “cultura umanistica”: cioè autoctona, locale […]. Essi sono scomparsi completamente nella nuova borghesia imprenditoriale, piccola e grande, specialmente al Nord […], malata di una malattia americana: il pragmatismo».

Così scriveva Goffredo Parise (1929-1986) tra il luglio e l’agosto del 1974, in due articoli pubblicati su una rubrica di corrispondenza con i lettori da lui curata per il «Corriere della Sera» in quegli anni (di cui oggi viene presentata una piccola selezione in Dobbiamo disobbedire, 2013). Qui il tema è quello delle origini culturali e della loro cancellazione da parte del pensiero funzionalista diffuso dalla cultura lavorativa di stampo americano. Dalle parole di Parise emerge il riconoscimento di una cultura “umanistica”, retaggio di un passato agricolo, popolare paesano e cattolico, e insieme la consapevolezza di non poter fare nulla di fronte alla sua scomparsa, causata da quella che, in altri articoli tratti dalla sua rubrica, egli chiama con ineluttabile semplicità la “forza delle cose”.

Il frammento tratto da Parise ne evoca un altro di Luciano Bianciardi (1922-1971), estratto da Il lavoro culturale (1957-1964):

«Kansas City, Kansas City è la nostra realtà, altro che storie! Le origini della città? L’anno di fondazione? Ma era il 1944, né più né meno. Prima di allora non esisteva, era stata fondata dagli americani, che, giungendo fra noi, avevano spianato un campo per farvi atterrare gli aerei, aperto rivendite di coca-cola, spacci di generi alimentari, dancings, depositi di materiale, creando all’improvviso un centro di traffici nuovi».

Kansas City è per Bianciardi la sua Grosseto, percepita dai più giovani – di cui lo scrittore si sente parte – come senza origini, nonostante ci fossero ancora molti accapigliati a cercarle, per esempio indagando la storia degli Etruschi. Per Bianciardi il dialogo è fra Grosseto/Kansas City e Milano, città che rappresenta “il lavoro culturale” e in cui si trova incarnata, tanto nella sostanza quanto nella forma del “linguaggio aziendale”, l’ideologia pragmatista di stampo americano di cui parlerà poi anche Parise. Non a caso, Bianciardi si trasferirà proprio a Milano in cerca di lavoro e riconsidererà con amarezza la sua Kansas City.

Questi due frammenti, scritti in anni diversi da autori coevi, fotografano lo sforzo dell’intellettuale nel dar conto di un momento che, per il nostro Paese, è stato di effettiva svolta e di forzato scontro culturale. Le parole di Bianciardi e Parise testimoniano un cambiamento il cui destino è forse solo oggi possibile vedere nel pieno sviluppo delle sue conseguenze.

[ illustrazione: articolo di «Epoca» del 29 aprile 1962 ]

ANTROPOLOGIA, LAVORO, TECNOLOGIA, TEMPO

L’orologio da polso e la nascita del tempo lavorativo

Quella dell’orologio da polso è un’invenzione relativamente recente, posteriore per esempio rispetto a quella della fotografia. Se l’arte del far foto inizia a essere praticata tra gli anni ’20 e ’30 del XIX secolo, è solo nel 1868 che l’azienda svizzera Patek Philippe mette a punto il primo “montre au poignet”, confezionandolo per una contessa ungherese. Per gli uomini l’orologio da taschino rimane scelta d’elezione ancora per qualche decennio, finché le crude esigenze della prima guerra mondiale non convincono i più a passare alla praticità dell’orologio da polso.

Un fondamentale fenomeno legato alla diffusione dell’orologio da polso è l’invenzione del tempo del lavoro, o meglio di un tempo lavorativo coincidente con l’organizzazione industriale e con lo scientific management tayloristico, filosofia lavorativa che inizia a diffondersi proprio nei primi decenni del XX secolo. Non si tratta più, come avveniva nel caso del lavoro pre-industriale e agricolo, di una scansione temporale legata a cicli naturali, ma di una parcellizzazione della giornata che corrisponde all’organizzazione specialistica di compiti e mansioni. Il nuovo lavoro industriale definisce un nuovo tempo e genera perfino il concetto del “tempo libero” (cioè liberato dal lavoro).

Non a caso, il sociologo americano Lewis Mumford (1895-1990) ha definito l’orologio lo strumento chiave dell’era industriale. Il suo diventare portatile e addirittura indossato ha contribuito all’interiorizzazione di questo ruolo simbolico. Grazie all’orologio da polso, il tempo del lavoro diventa accessorio personale, non abbandonando mai chi lo indossa.

[ illustrazione: fotografia di Josef Koudelka scattata il 21 agosto 1968 mentre le truppe sovietiche invadono Praga ]