CREATIVITÀ, FILOSOFIA, INTERNET, LAVORO, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

Calibano e la tecnica: una critica di Lewis Mumford al paradigma scientifico

«Per spiegare la natura dell’uomo nella sua totalità, dobbiamo includere nella sua storia un elemento temporale che, dopo Aristotele, non ha avuto alcuna parte nei calcoli scientifici: la sfera del potenziale e del possibile, la sfera della reale creatività».

Da queste parole di Lewis Mumford (1895-1990), tratte da una lezione tenuta a New York nel 1954 e raccolte in forma scritta in Per una civiltà umana (2002), emerge una profonda critica nei confronti del paradigma scientifico che ha determinato il destino della nostra civiltà. Per sostenere le sue tesi, Mumford ricorre a un prestito metaforico da La Tempesta di William Shakespeare: i personaggi di Prospero e Calibano sono assimilati al pensiero di Sigmund Freud e alle diverse facoltà dell’uomo. Se Prospero rappresenta il superego, incarnazione delle facoltà superiori, l’animalesco Calibano è simulacro dell’id, cioè dell’io primitivo e inconscio. Mumford legge nella crisi del presente – il suo, del 1954, ma facilmente anche il nostro – il dominio di Calibano su Prospero, ovvero la perdita per l’uomo di una autodeterminazione spirituale causata del prevalere di istinti orientati al qui e ora e al mero possesso della materia.

Nella trattazione di Mumford, centrale per il prevalere di Calibano è la sua alleanza con la tecnica e l’approccio scientifico. Quando l’azione dell’uomo sulla natura – che è costitutiva della sua autopoiesi – assume un approccio “scientifico” che punta all’oggettivazione, alla misurazione e alla razionalizzazione di ogni pratica, genera un uomo-automa che procede nel perfezionamento della sua ricerca svincolandosi da scopi e dunque deresponsabilizzandosi rispetto all’umanità. Sono figli di questo atteggiamento, nota Mumford avvicinandosi qui fortemente al pensiero di Gunther Anders (ma anche di Arnold Gehlen), le barbarie della guerra e in particolare la progettazione di armi di distruzione di massa. Benché Mumford non le citi, riconducibili a questo approccio paiono anche barbarie meno disastrose ma sottilmente pervasive, quelle generate dall’approccio scientifico al lavoro. Il lavoratore-macchina può ben dirsi figlio di Calibano e della de-umanizzazione del lavoro.

L’alleanza tra Calibano e la tecnica rappresenta la sconfitta della cultura e la realizzazione di quello che Mumford definisce  – citando Henry Miller – un “incubo ad aria condizionata”, cioè la riduzione della vita a meccanismo dentro meccanismi, senza nessuna spinta teleologica. L’antidoto all’apparentemente irreversibile marcia di Calibano è identificato da Mumford nell’impegno, a livello individuale e politico, a produrre qualcosa che trascenda l’orizzonte di una singola persona e guardi a un progetto dal lungo orizzonte futuro. Per cogliere tutta l’attualità delle parole di Mumford, pur a distanza di 60 anni da quando sono state pronunciate, è utile leggere questo suo proposito personale, che suona come una critica in nuce a quanto internet avrebbe realizzato molti anni dopo:

«La mia norma consiste nell’evitare, nei limiti del possibile, la partecipazione a tutte le organizzazioni in cui sia impossibile la conoscenza e la relazione personale, in cui il rapporto di io-tu sia stato distrutto e al suo posto sia stato introdotto un sistema di controllo remoto».

[ illustrazione: Caliban, Miranda, Prospero, C.W. Sharp, 1875 ]

ANTROPOLOGIA, LAVORO, TECNOLOGIA, TEMPO

L’orologio da polso e la nascita del tempo lavorativo

Quella dell’orologio da polso è un’invenzione relativamente recente, posteriore per esempio rispetto a quella della fotografia. Se l’arte del far foto inizia a essere praticata tra gli anni ’20 e ’30 del XIX secolo, è solo nel 1868 che l’azienda svizzera Patek Philippe mette a punto il primo “montre au poignet”, confezionandolo per una contessa ungherese. Per gli uomini l’orologio da taschino rimane scelta d’elezione ancora per qualche decennio, finché le crude esigenze della prima guerra mondiale non convincono i più a passare alla praticità dell’orologio da polso.

Un fondamentale fenomeno legato alla diffusione dell’orologio da polso è l’invenzione del tempo del lavoro, o meglio di un tempo lavorativo coincidente con l’organizzazione industriale e con lo scientific management tayloristico, filosofia lavorativa che inizia a diffondersi proprio nei primi decenni del XX secolo. Non si tratta più, come avveniva nel caso del lavoro pre-industriale e agricolo, di una scansione temporale legata a cicli naturali, ma di una parcellizzazione della giornata che corrisponde all’organizzazione specialistica di compiti e mansioni. Il nuovo lavoro industriale definisce un nuovo tempo e genera perfino il concetto del “tempo libero” (cioè liberato dal lavoro).

Non a caso, il sociologo americano Lewis Mumford (1895-1990) ha definito l’orologio lo strumento chiave dell’era industriale. Il suo diventare portatile e addirittura indossato ha contribuito all’interiorizzazione di questo ruolo simbolico. Grazie all’orologio da polso, il tempo del lavoro diventa accessorio personale, non abbandonando mai chi lo indossa.

[ illustrazione: fotografia di Josef Koudelka scattata il 21 agosto 1968 mentre le truppe sovietiche invadono Praga ]