APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, UFFICI

Corsi e ricorsi della flessibilità lavorativa, da Keynes a Richard Branson

I costumi manageriali si prestano ad analisi che possono rispondere, a seconda delle preferenze, a un’interpretazione evolutiva oppure ciclica. Un tema che ben si adatta a entrambe le chiavi di lettura è quello del work / life balance. Dall’introduzione delle otto ore lavorative alle keynesiane Possibilità economiche per i nostri nipoti, fino a giungere ai più contemporanei dibattiti sullo smart working, il tema affiora dal dibattito manageriale con periodica regolarità.

Il caso più recente è quello di Carlos Slim, magnate delle telecomunicazioni messicane – e uno degli uomini più ricchi del mondo – che propone, ispirandosi a Larry Page di Google, un modello lavorativo basato su tre giorni di lavoro alla settimana. Subito gli fa eco la Virgin di Richard Branson, che inizia ad applicare in GB e negli USA una politica di orario settimanale che concede più libertà ai propri addetti. Grande entusiasmo, ma funzionerà? Un esempio tratto dal recente passato può aiutare a considerare il tutto con la giusta prospettiva.

A partire dal 2003 Best Buy, il più grande rivenditore al dettaglio di elettronica di consumo negli Stati Uniti, è stato teatro di una piccola rivoluzione nel segno della flessibilità lavorativa. Ne sono state autrici due addette del settore HR dell’azienda, Cali Ressler and Jody Thompson. Grazie alla loro iniziativa, un nuovo vocabolo è entrato nel lessico aziendale: ROWE, acronimo di Results-Only Work Environment. Portando alle estreme conseguenze i principi base del lavoro per obiettivi, Ressler e Thompson hanno formulato una risposta a una domanda ricorrente in qualsiasi organizzazione: cosa accadrebbe se gli impiegati potessero lavorare come meglio credono sugli obiettivi loro assegnati?

Una maggiore libertà operativa nel raggiungimento dei risultati attesi ha un’immediata implicazione, vale a dire la possibilità di svincolare il lavoro dall’asfissiante – e poco efficiente – logica della presenza. L’unico modo per applicare con successo il ROWE è basare le relazioni lavorative sulla fiducia: un manager deve gestire il lavoro, non le persone; queste ultime, da parte loro, devono dar prova di una matura assunzione di responsabilità. Tutto ciò è stato formalizzato da Ressler e Thompson nel testo Perché il lavoro fa schifo e come migliorarlo (2008).

Il modello ROWE è stato applicato in Best Buy con successo per alcuni anni, passando al vaglio delle analisi accademiche e, soprattutto, registrando tassi di produttività direttamente proporzionali al calo del turnover. E sul lungo periodo? A distanza di dieci anni, con l’arrivo di un nuovo CEO – e grosso modo in parallelo con le impopolari scelte anti-telelavoro della Yahoo di Marissa Mayer – Best Buy è tornata alla più classica delle applicazioni del lavoro in presenza. Corsi e ricorsi delle mode manageriali.

[ illustrazione: fotogramma da Office Space di Mike Judge, 1999 ]

APPRENDIMENTO, CONOSCENZA, INTERNET, LAVORO, MEDIA, METAFORE, SCUOLA, TECNOLOGIA, UFFICI

Ecco come le distrazioni digitali ci mettono sotto scacco, a scuola e al lavoro

Sebbene il neo-luddismo vanti una solida tradizione di pensiero e azione, riconducibile – a seconda delle preferenze – tanto al Martin Heidegger di La questione della tecnica (1953) quanto a Unabomber, chi si azzarda oggi a criticare l’influenza di web, computer e smartphone raramente è preso sul serio. Viene anzi zittito da un coro inneggiante alle “magnifiche sorti e progressive” offerte dalla più recente tecnologia. Si è dunque colti da una certa curiosità nel leggere l’articolo pubblicato da Clay Shirky su «Medium», dove lo studioso americano – noto come autore di Surplus cognitivo (2010), testo che ha contribuito a legittimare internet come amplificatore di apprendimento – si scaglia contro l’invasività dei device digitali. Se anche i cyber-ottimisti iniziano a simpatizzare per il neo-luddismo, qualcosa sta forse cambiando.

Come docente universitario, Shirky afferma di aver registrato nel corso degli anni un fenomeno ormai comune a qualsiasi livello scolastico e in ambito di formazione degli adulti: il tasso di disattenzione è direttamente proporzionale alla presenza in classe di device digitali. La soluzione di Shirky? Un inaspettato diktat, peculiare soprattutto per chi come lui insegni teoria e pratica dei nuovi media: computer e smartphone rigorosamente spenti. Al suono di “lids down”, attenzione, vivacità, partecipazione e discussione hanno magicamente fatto ritorno in aula.

A essere qui chiamato in causa non è soltanto il multitasking, con le sue ormai note conseguenze nefaste. C’è in gioco altro, espresso da Shirky tramite due metafore. La prima è quella del fumo passivo: un computer aperto o uno smartphone luminoso agiscono come disturbatori anche nei confronti di chi viene a essi esposto indirettamente, generando una propagazione virale – e autolegittimante – della disattenzione. La seconda metafora è quella della concorrenza: in un’aula infestata da apparecchi elettronici, chi lavora sull’apprendimento dei suoi interlocutori si trova a dover fronteggiare l’assalto di hardware e software che sembrano pensati appositamente per costituire una coesa armata della disattenzione.

Con riferimento a un’immagine popolarizzata dallo psicologo Jonathan Haidt nel libro Felicità: un’ipotesi (2008), Shirky rivolge un monito a chiunque si occupi di apprendimento. Quando siamo in aula spesso pensiamo di poterci rivolgere unicamente alla razionalità dei nostri interlocutori, resa in metafora da Haidt come una guida o un conducente (rider). In realtà, il conducente controlla le redini di un animale piuttosto corpulento e lento: un elefante, cioè la parte emotiva del cervello. Senza una paritaria attenzione per queste due componenti, risulta difficile che qualcuno sia davvero coinvolto in un processo di apprendimento. Se le app hanno imparato molto velocemente a rivolgersi all’elefante, l’educazione e l’apprendimento di giovani e adulti non possono continuare a parlare solo alla guida.

[ illustrazione: immagine tratta dal film Computer Chess (2013) di Andrew Bujalski ]

ANTROPOLOGIA, ARCHITETTURA, CAMBIAMENTO, CITTÀ, LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, UFFICI

Un libro, anzi due, per capire il lavoro d’ufficio

Nikil Saval, editor della rivista americana «n+1», esordisce con un testo che nasce da una lunga ricerca sugli ambienti del lavoro impiegatizio. Si tratta di Cubed (2014), ricognizione multidisciplinare – design, management, riferimenti a letteratura e cinema – che aiuta a comprendere perché il lavoro d’ufficio, con i suoi spazi e la sua capacità di generare culture e comportamenti, è in grado di incidere così tanto sulla società nel suo insieme.

Saval apre il suo lavoro rendendo omaggio a un riferimento classico, quel White Collar (1951) di Charles Wright Mills (1916-1962) che è considerato uno dei capostipiti della sociologia organizzativa. A ben vedere – come nota la collaboratrice del «New Yorker» Jill Lepore in una recensione che merita una lettura a sé – l’approccio di Saval è, più che sociologico, storico. Quanto il libro dispone agli occhi del lettore è un ideale diorama che potrebbe intitolarsi “l’ufficio attraverso il tempo”.

Con una prevedibile focalizzazione sulla storia del lavoro in America, Saval prende le mosse dalle “counting house” di metà ‘800, ambienti che oggi sorprendono per la loro dimensione angusta e per la grande prossimità tra datori di lavoro e impiegati. Prossimità destinata a sparire in nome dell’astrazione delle gerarchie organizzative, facilitata dall’estensione verticale dei grattacieli che dagli anni ’50 hanno iniziato a cambiare la fisionomia delle grandi città americane. Pensando a New York, vengono subito in mente la “black box” del Seagram Building o l’AT&T Building progettato dall’architetto “postmodernista” Philip Johnson.

Nel frattempo, l’interno degli spazi di lavoro incontra un’evoluzione inaspettata. Alla fine degli anni ’50, gli studi di ergonomia condotti dall’inventore americano Robert Propst (1921-2000) generano il prodotto di maggior successo di Herman Miller, il cosiddetto “Action Office”, spazio modulare pensato per l’ottimizzazione delle attività individuali. La semplificazione e banalizzazione dell’Action Office ha in seguito dato vita, concretizzando l’incubo isolazionista prefigurato da alcune sequenze di Playtime di Jacques Tati (1967), a quanto è oggi universalmente noto come cubicolo.

Il salto temporale successivo coincide con le prospettive sulla smaterializzazione e delocalizzazione del lavoro offerte dalle nuove tecnologie, rispetto alle quali il piglio storiografico è evidentemente meno praticabile di quello che procede per ipotesi. In sintesi, “l’ufficio attraverso il tempo” presentato da Saval offre una istruttiva e coinvolgente genealogia di spazi abitati quotidianamente ma spesso vissuti senza sufficiente consapevolezza.

Un altro testo incentrato sullo studio del lavoro impiegatizio, fonte di particolare orgoglio perché a firma di uno studioso italiano, è Uffici (2011) di Imma Forino. In questo caso l’indagine è più spiccatamente orientata al design degli uffici e dei loro arredi – l’autrice è docente di architettura degli interni al Politecnico di Milano – , senza comunque mancare di offrire spunti manageriali e socio-antropologici. In particolare, il testo ha il merito – oltre che di assumere una prospettiva non esclusivamente americanocentrica – di costruire una linea temporale che viaggia a ritroso fino a epoche non toccate dal lavoro di Saval. Forino parte dallo scriptorium dei monaci medievali e affronta, prima di giungere al Novecento, un percorso che arriva fino alla nascita della burocrazia (letteralmente: potere dello scrittoio) sette-ottocentesca. Di particolare interesse per il lettore italiano sono poi le parti di libro dedicate ai “torracchioni” nazionali (come li chiama il Luciano Bianciardi di La vita agra) e ai raggiungimenti tecnologici dell’Olivetti.

Difficile pensare a una “doppietta di lettura” più adatta a comprendere il mondo degli spazi di lavoro di quella formata da Cubed e Uffici, testi che sorprendono per consonanza e reciproca capacità di integrazione.

[ illustrazione: fotogramma da Playtime di Jacques Tati, 1967 ]

BIGDATA, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, UFFICI

Ancora sul taylorismo 2.0: ecco il physiolytics e gli strumenti del “cottimo digitale”

Il sostantivo “cottimo”, termine dalla dubbia origine etimologica, suona oggi passatista e distante dalla realtà dei lavoratori del nuovo millennio. Peccato che, nota in un recente articolo Evgeny Morozov, proprio questi ultimi saranno le probabili vittime di una sua nuova e tecnologica versione.

Se Google e Apple si stanno affacciando sul mercato delle dimore automatizzate (evoluzione di quanto fino a ieri si etichettava come domotica), il fronte aziendale non sta a guardare e conia un termine – comparso per la prima volta a fine 2013 sulle pagine di «Harvard Business Review» – che suona decisamente sinistro: physiolytics. Crasi del suffisso physio- e della parola anaylitcs, la parola rappresenta il processo di integrazione tra dispositivi indossabili e analisi dei dati da essi raccolti, a tutto beneficio delle pratiche di gestione delle risorse umane e della performance.

Per godere di qualche anticipazione sui prodotti che prima o poi invaderanno uffici e officine basta fare un giro su Kickstarter e i siti web di alcune startup. Per esempio, XOEye Technologies produce occhiali “smart” simili ai celebri Google Glass, salvo il fatto che non sono pensati per essere indossati da geek californiani ma da operai. Rilevano il comportamento e i movimenti dei lavoratori, con particolare attenzione per quanto riguarda postura e sicurezza. Come nota Morozov, questi apparecchi possono essere estremamente ben recepiti dalle aziende: meglio investire in strumenti di controllo che permettano la prevenzione di infortuni che dover pagare – a fronte dell’assenza di un lavoratore – per assicurazioni e spese mediche.

Altri esempi? Robin, produce sensori orientati agli “smart offices” che monitorano gli spostamenti da un ufficio all’altro, tenendo sempre sotto controllo dove ci si trova e quel che si fa. Melon sta per immettere nel mercato una fascia che monitora l’attività celebrale in cerca di picchi cognitivi, ottimizzando di conseguenza il lavoro. L’orologio Spark promette di impedire che le persone prendano sonno nei momenti più importanti del loro lavoro, mentre il braccialetto Pavlok (il nome vi ricorda qualcosa?) ci punisce con una scossa quando manchiamo di completare un’attività programmata.

Il lato maggiormente critico della questione riguarda, poiché si tratta di dispositivi che vengono indossati, la progressiva estensione delle logiche di quantificazione proprie del lavoro ad aspetti della vita che in precedenza ne erano al riparo. Detto in altri termini, l’espressione “portarsi il lavoro a casa” è probabilmente destinata ad assumere un significato tutto nuovo.

[ illustrazione: fotogramma dal film Escape from New York di John Carpenter, 1981 ]

GIOCO, LAVORO, METAFORE, SOCIETÀ, UFFICI

Office Boy: prima di Monopoly, il gioco come strumento per l’educazione al lavoro

Parker Brothers è un’azienda americana produttrice di giochi da tavolo e giocattoli. La sua storia inizia nel 1883 a Salem (Massachusetts), quando il sedicenne George Parker mette a punto la sua prima creazione: “Banking” è un gioco che simula una scalata al successo mediata da prestiti bancari e scommesse di investimento. Nata come George S. Parker Company per iniziativa del solo George, con l’ingresso in società dei suoi due fratelli nel 1888 l’azienda diventa Parker Brothers. Il più grande successo giunge nel 1935 con “Monopoly”, al quale seguiranno nel decennio successivo altri giochi destinati alla celebrità come “Cluedo” e “Risiko!” Dalla fine degli anni ’60, l’azienda inizia a produrre meno innovazioni – nonostante un interessante avventura nel mondo dei videogame che produrrà titoli come “Q-Bert” – e a staccarsi dalla gestione familiare. Come ultimo esisto di una serie di acquisizioni, il marchio è attualmente proprietà del gruppo Hasbro.

Uno dei più peculiari giochi prodotti da Parker Brothers nei suoi primi anni di attività è, nel 1889, “Office Boy”. L’ispirazione economica già alla base di “Banking” viene in questo caso letta alla luce del più importante fenomeno sociale del momento: l’ascesa del lavoro d’ufficio. Coerente con lo spirito del “sogno americano” alimentato dai romanzi di Horatio Alger (1832-1899), “Office Boy” mette i giocatori nei panni di un ragazzo di bottega pronto a iniziare la sua avventura nel mondo del lavoro. Attraverso un semplice “gioco dell’oca”, l’office boy inizia la sua carriera dalle posizioni aziendali più basse (per esempio portatore o magazziniere) e, diventando poi venditore e dirigente, può aspirare a giungere a capo dell’intera organizzazione. Il cammino è costellato da elementi che consentono l’avanzamento del giocatore o lo costringono all’arresto, brillantemente rappresentati da atteggiamenti lavorativi di segno opposto: disattento/attento, disonesto/onesto, incapace/ambizioso. Attraverso un apparentemente semplice gioco da tavolo, il ragazzo medio americano inizia a fare esperienza dei valori lavorativi che il mondo degli uffici sta iniziando a diffondere nella società. Di lì a poco l’office boy, accompagnato dal suo ideale di scalata sociale e anelito al successo, diventerà il simbolo di più generazioni di colletti bianchi.

[ illustrazione: tabellone di gioco di “Office Boy” di Parker Brothers, 1889 ]

ARCHITETTURA, CITTÀ, INDUSTRIA, LAVORO, UFFICI

Olivetti e Ivrea: il fallimento del sogno industriale e il declino di una città

Il 1959 è un anno cruciale per Olivetti e per l’intera industria italiana: viene presentato Elea 9003, primo computer mainframe al mondo interamente basato su transistor. Olivetti è l’avamposto italiano della rivoluzione elettronica incarnata dai calcolatori, raccontata per l’occasione da un fantascientifico documentario (regia di Nelo Risi, musiche di Luciano Berio). Rispetto allo sviluppo sul territorio, dopo la sede aperta a Pozzuoli ci si volge all’area di Rho (alle porte di Milano), coinvolgendo l’architetto più in linea con il pensiero olivettiano, Le Corbusier. L’azienda – che complessivamente supera i 50.000 dipendenti – è guidata dall’imprenditorialità illuminata di Adriano Olivetti (1901-1960). Un riferimento che oggi, a oltre 50 anni di distanza, si continua a studiare e celebrare, unione di spirito scientifico e umanistico che affida ruoli dirigenziali a intellettuali e letterati (fra gli altri Musatti, Fortini, Volponi, Ottieri, Gallino). Ivrea, storica sede in cui il padre di Adriano, Camillo (1868-1943), diede avvio all’impresa nel 1908, è un esempio di welfare aziendale senza pari in Italia.

Pochi anni dopo, il sogno comincia a sgretolarsi. Nel 1960, dopo la morte di Adriano, è il figlio Roberto (1928-1985) a prendere in mano l’azienda e il piano per la nuova sede di Rho. Nel 1962 il progetto viene completato, ma vicende interne all’azienda ne rallentano la realizzazione: in seguito a difficoltà di gestione, la divisione elettronica viene venduta nel 1964 alla General Electric. Nel 1965 sopraggiunge la morte di Le Corbusier, che congela per sempre il progetto di Rho lasciandolo in eredità alle future speculazioni degli studiosi di architettura industriale – fra queste spicca il volume Le Corbusier e Olivetti. La «Usine Verte» per il Centro di calcolo elettronico di Silvia Bodei (2014). Alla morte di Roberto, nel 1985, l’azienda è già da quasi dieci anni in mano a Carlo De Benedetti, al quale si deve l’abbandono del mondo dell’informatica a favore di una forse coraggiosa ma certo sfortunata avventura nel mondo della telefonia mobile. Cosa è avvenuto in seguito? Come ricostruito da un articolo di «Pagina 99» del 14.06.14, Olivetti fu vittima di un progressivo piano di smantellamento da molti descritto come “omicidio industriale”.

Oggi l’azienda continua a esistere, come piccola controllata del gruppo Telecom. I suoi dipendenti sono meno di 600, impegnati nella progettazione e commercializzazione di prodotti per il settore bancario e postale che vengono realizzati in Cina. Del progetto di welfare olivettiano restano tracce ovunque a Ivrea: nelle architetture, nello spirito imprenditoriale che ha dato vita a diverse micro-imprese iperspecializzate e, soprattutto, nei risparmi delle classi lavorative degli anni passati, sulle cui spalle si appoggiano i più o meno fortunati tentativi imprenditoriali dei giovani lavoratori d’oggi. Cercando di svincolarsi dal suo passato industriale, Ivrea ha nel frattempo intrapreso due nuove avventure, quella dei call center (oggi messa in crisi dalle varie delocalizzazioni) e quella dello studio televisivo canavese Telecittà, dove si gira da anni il serial tv Centovetrine (che continua a dare lavoro a circa 300 persone, benché nel 2012 abbia rischiato la chiusura). Nel frattempo, la tradizionale “battaglia delle arance” di Ivrea ha segnato nel 2014 il suo record di presenze.

[ illustrazione: show room Olivetti in Svizzera, 1957 ]

CONCETTI, LAVORO, MARKETING, METAFORE, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, UFFICI

La nuova ideologia della “mindfulness”

«If Max Weber were alive today, he would definitely write a second, supplementary, volume to his Protestant Ethic, entitled The Taoist Ethic and the Spirit of Global Capitalism».

Così il filosofo sloveno Slavoj Žižek, a proposito dell’ideologia “new age” che guida la classe dirigente del nuovo capitalismo. A citarlo è, in un articolo per «The New Republic», Evgeny Morozov, esperto di new media bielorussso noto per le sue posizioni avverse al “cyber-ottimismo”.

Morozov si collega alle parole di Žižek per costruire un’argomentazione critica nei confronti della moda della “mindfulness”. Che l’espressione sia tanto diffusa quanto oscura è di fronte agli occhi di tutti, tanto che Morozov la descrive come la nuova “sostenibilità” (senza dubbio una delle categorie più abusate dell’ultimo decennio).

Quanto Morozov nota della mindfulness – interpretata soprattutto come volontà di “disconnessione” – è la viziosità del circolo che da ciò che la origina conduce alle sue soluzioni. L’artificialità degli stimoli in relazione ai quali nasce il bisogno di essere “mindful” corrisponderebbe fin troppo bene all’artificiosità delle risposte messe in atto da chi se ne professa seguace. Non a caso, tanto stimoli quanto risposte hanno origine dallo stesso substrato culturale, cioè quello di Silicon Valley (di qui il rimando a Weber, tramite Žižek). Soprattutto, la nota più debole del movimento della mindfulness sarebbe – secondo Morozov – l’incapacità di superare un approccio individuale “reazionario” per costruire una più autentica emancipazione su base collettiva.

[ illustrazione: uffici di Google a Tel Aviv ]

 

CAMBIAMENTO, CONCETTI, INDUSTRIA, LAVORO, SOCIETÀ, STORIE, UFFICI

Dalle 9 alle 5: brevissima storia delle 8 ore lavorative

La scansione della giornata in tre parti, di 8 ore ciascuna e dedicate rispettivamente a lavoro, svago e riposo, è un’invenzione del socialista utopista Robert Owen (1771-1858), che nel 1817 lanciò in Inghilterra una campagna di rivendicazione dei diritti dei lavoratori basata proprio su questo tipo di organizzazione temporale. L’idea di Owen nacque come reazione agli oppressivi orari di fabbrica imposti dalla rivoluzione industriale, i cui turni di lavoro giornaliero potevano raggiungere anche le 10-18 ore.

L’iniziativa di Owen non ebbe immediata fortuna, ma mise in moto una rivendicazione di diritti che prese corpo in una lunga serie di “factory acts”, cioè atti approvati dal Parlamento britannico e finalizzati alla progressiva riduzione dell’orario lavorativo di uomini, donne e bambini. La lotta per le 8 ore trovò nel 1884 un degno successore nel sindacalista Tom Mann (1856-1941), che con la sua “Eight Hour League” riuscì nell’impresa.

Le rivendicazioni inglesi diffusero la propria eco in tutta Europa e si manifestarono anche oltreoceano. Per la verità, i primi movimenti di protesta negli Stati Uniti nacquero già nel 1791 e il primo maggio del 1886 a Chicago ebbe luogo la prima May Day Parade della storia. La prima azienda americana a instaurare orari giornalieri di otto ore fu nel 1914 Ford Motor Company, che si rese protagonista anche di un inedito raddoppio dei salari degli operai. Pur a fronte dell’innovazione di Ford, solo nel 1937 le otto ore lavorative furono standardizzate in tutti gli Stati Uniti.

Quanto all’Italia, l’ufficializzazione di un orario basato su 8 ore giornaliere e 48 settimanali arrivò nel 1923, con un Decreto del primo governo Mussolini. Il provvedimento italiano fondò le sue radici in una lotta dal basso durata più di un secolo e mezzo, all’interno della quale i moti del 1848 rappresentarono una tappa fondamentale.

[ illustrazione: manifesto con il celebre proclama di Robert Owen ]

COMPLESSITÀ, PERCEZIONE, TECNOLOGIA, UFFICI

Semafori, termostati, bancomat. Ovvero: gli effetti placebo intorno a noi

Un articolo del blog di David McRaney, specialista di tranelli cognitivi e autore di You Are Not So Smart (2012) e You Are Now Less Dumb (2013), riflette sul cosiddetto “effetto placebo” osservandolo da un particolare punto di vista.

Fra le esperienze comuni ai pedoni di tutto il mondo rientra quella dei pulsanti che permettono, quando si aspetta che il semaforo diventi verde, di rendere l’attesa meno lunga. Ogni qual volta premiamo con fiducia uno di questi bottoni, stiamo facendo – almeno secondo McrRaney – una cosa probabilmente inutile. In quasi tutto il mondo i semafori stradali sono infatti gestiti da sistemi computerizzati e nella maggior parte dei casi i pulsanti per “chiamare il verde” si trovano ancora al loro posto – ormai inattivi – semplicemente per via degli alti costi legati alla loro disintallazione.

Sempre secondo McRaney, l’effetto generato da questi bottoni sarebbe quello di rassicurarci e farci sentire padroni della situazione, arrivando a credere in relazioni causa-effetto che sono in realtà inesistenti:

«Your brain doesn’t like randomness, and so it tries to connect a cause to every effect; when it can’t, you make one up».

Forse ancor più interessante è il caso di pulsanti il cui effetto placebo non è casuale ma deliberatamente indotto. Fra questi rientrerebbero i falsi termostati presenti in molti uffici americani. Come è noto, la percezione del calore ambientale è estremamente soggettiva e in un ufficio mediamente numeroso è molto probabile che la temperatura venga alzata e abbassata più volte nell’arco della giornata. I cambiamenti frequenti, oltre a essere fonte di possibili discordie, comportano per le aziende un significativo costo di gestione. Da qui sarebbe nata l’idea di falsi termostati – in certi casi accompagnati da suoni operativi altrettanto fasulli – capaci di accontentare le esigenze di ognuno senza in realtà modificare mai la temperatura ambientale. In tema di effetti placebo indotti, simile è il caso dei rumori prodotti dai distributori di denaro bancomat (ATM nel resto del mondo). Più fonti sostengono che anche questi suoni sarebbero studiati ad arte e finalizzati a rassicurare l’utente del fatto che il suo denaro è “in arrivo”.

La veridicità di questi esempi – o quantomeno la loro applicazione su larga scala e al di fuori dagli USA, contesto cui McRaney fa riferimento – resta tutta da verificare. Indubbia è la loro capacità di farci riflettere su quanto la presenza o assenza di un risposta positiva a un’azione sia in grado di influenzare la nostra soddisfazione. In secondo luogo, questi esempi mettono bene in luce quanto la mediazione di una “macchina” (categoria che include tanto semafori quanto termostati e bancomat) rispetto a un processo di feedback renda quest’ultimo ambiguo, opaco e altamente manipolabile.

[ illustrazione: foto di Berni Andrew ]

ARCHITETTURA, LAVORO, TECNOLOGIA, UFFICI

Alle origini dell’open space: il Larkin Building

Il Larkin Administrative Building venne edificato nel 1906 a Buffalo (stato di New York) su progetto di Frank Lloyd Wright (1867-1959). L’edificio – dalla struttura introversa a cinque piani – nacque di fianco alla fabbrica di saponi fondata da John Larkin (1845-1926) per assumerne il ruolo di quartier generale amministrativo, con una particolare focalizzazione sui sistemi di mail-order rispetto ai quali l’azienda rivestì un ruolo pionieristico.

Si trattò di un edificio per molti versi rivoluzionario, completamente a prova di incendio e dotato di un tecnologico impianto di aria condizionata. L’innovazione dell’edificio riguardò anche il suo dichiarato valore simbolico rispetto all’etica del lavoro. Sui parapetti delle sue gallerie erano incisi trittici di parole quali: “generosity altruism sacrifice; integrity loyalty fidelity; imagination judgement initiative; intelligence enthusiasm control; co-operation economy industry”.

L’aspetto più interessante del Larkin Administrative Building, nonché dell’organizzazione del lavoro da esso ospitata, fu l’eliminazione del concetto di stanza privata in favore di un’ottica di “open space” decisamente all’avanguardia. La valenza del progetto messo in atto da Wright fu, ancor prima che architettonica, ideologica. Come nota in proposito Imma Forino nel suo eccellente testo Uffici. Interni arredi oggetti (2011):

«La stanza non ha più senso: cristallizzerebbe le persone in assetti senza via d’uscita, limiterebbe l’autentico scambio, visualizzerebbe con evidenza i rapporti di subordinazione. Se libero, lo sguardo deve invece poter riandare al cielo, sotto la cui comune ala ogni impiegato può sentirsi a proprio agio con il datore di lavoro».

Durante gli anni ’40 l’azienda Larkin subì una progressiva decadenza che portò anche, nel 1950, alla demolizione del proprio edificio amministrativo.

[ illustrazione: esterno e interni del Larkin Administrative Building nel 1906 ]