ARTE, CREATIVITÀ, DIARI, LETTERATURA

David Sedaris e l’arte del diario

David Sedaris è uno scrittore particolarmente legato al racconto della propria esperienza personale e familiare. Libri come Me parlare bello un giorno (2005), di cui si ricorda soprattutto la “lotta” con la lingua francese, o Calypso (2018), dal nome immaginario di una tartaruga il cui rapporto con l’autore diviene centrale, sono raccolte piene di ironia, spesso crude ma sempre oneste e brillanti. Ciò che colpisce di Sedaris è la capacità di condividere con il lettore una visione del mondo personale e autentica, regalando al tempo stesso risate – Sedaris è uno dei pochi scrittori capaci di risultare incredibilmente comici semplicemente raccontando il quotidiano – e profondi spunti di pensiero critico.

Chi conosce Sedaris – e magari ha partecipato dal vivo a incontri con l’autore – sa che alla base della sua opera c’è un’attività diaristica che  lo accompagna dal 1977, momento in cui – all’età di 21 anni – ha iniziato a mettere nero su bianco le sue esperienze. Questo patrimonio di annotazioni – spesso diretta ispirazione per la sua produzione letteraria – è reso disponibile alla lettura grazie alla raccolta Ragazzi che giornata! Diari 1977-2002 (2017), che contiene le memorie prodotte dallo scrittore nell’arco di venticinque anni. All’interno vi si trova il percorso di una persona e la sua crescita: ci sono momenti di difficoltà e di smarrimento, così come lampi di consapevolezza e lettura critica del proprio percorso. L’autenticità è la costante del testo, che dà il meglio di sé quando letto – come suggerisce lo stesso Sedaris nell’introduzione – spulciando qua e là scoprendo frammenti di quotidiano sempre sorprendenti:

17 ottobre 1978 – Odell

Oggi le mie scarpe pesano il doppio. E sono verdi. Sono tutto verde, per via dell’ossido di cromo che uso per lucidare la giada di John. Ho il verde anche nelle orecchie. E nel moccio. John ha un blocco di giada lungo cinque metri per uno e mezzo, che inizialmente fu acquistato dal generale argentino Perón per farci scolpire una statua della moglie Eva. A sentire John costa 100.000 dollari. Meno i 14 che mi ha dato oggi per lucidarne qualche fettina.

I diari di Sedaris risultano affascinanti anche per il loro contenitore, vale a dire la forma fisica – rigorosamente analogica – che le raccolte di note (in media da due a quattro volumi all’anno) sono andate assumendo nel corso del tempo. Fin dall’inizio Sedaris ha preso l’abitudine di usare la copertina di ogni diario come spazio per spunti visivi che vanno bel oltre il decorativo (del resto Sedaris è diplomato all’Art Institute of Chicago e la sua prima ambizione è stata proprio quella di diventare un artista). Consapevole del valore estetico di questi artefatti, l’artista Jeffrey Jenkins, amico di lunga data dell’autore, ha compilato una raccolta completa delle copertine dei diari che, in questo caso, dal 1977 arriva fino al 2016. Il volume si intitola David Sedaris Diaries: A Visual compendium e riproduce con grande cura ogni copertina (vedi quella inserita qui sopra).

Dopo i primi anni di diaristica, basati su quaderni esistenti personalizzati con la tecnica del collage, dal 1985 Sedaris ha introdotto un formato basato sulla raccolta e rilegatura di fogli simili al formato A4, cui aggiungere una copertina rigida da connotare visivamente con quanto l’autore trovava intorno a sé nel periodo della scrittura. La creatività spazia tra fotografie, disegni e opere – del partner Hugh Hamrick o di altri artisti – , ritagli di giornali, quadri trovati al mercato delle pulci, copertine di dischi. La raccolta conduce il lettore in una passeggiata in equilibrio fra immagini trovate e cercate, la cui costante è un curioso e saldo senso estetico. Per chi già ami David Sedaris o voglia iniziare a conoscerlo, l’esplorazione parallela dei contenuti dei diari con Ragazzi che giornata! Diari 1977-2002 e delle loro copertine con  David Sedaris Diaries: A Visual compendium offrirà un’esperienza a tutto tondo capace di intrecciare arte visiva e letteratura.

[ Illustrazione: No.79 – Girl with Yellow Background (flea market) – June 1 – June 27, 1998 – Da: David Sedaris Diaries: A Visual compendium, 2017 ]

CREATIVITÀ, MUSICA, PROGETTO, STORIE

La nascita di un prodotto culturale: The Technological Breakthrough di Derek Senn

Forse non compare nelle classifiche degli album più popolari del 2014, ma The Technological Breakthrough di Derek Senn è uno dei migliori dischi dello scorso anno. La sua virtù? La semplicità. I dodici brani che lo compongono, sorretti da un solido tessuto acustico e impreziositi da una produzione calda e rotonda, appartengono alla più classica tradizione cantautorale americana. Senn se ne fa interprete autenticamente contemporaneo, dedicando particolare cura ai testi, che descrivono momenti di vita quotidiana con cui è facile mettersi in sintonia. Già dal primo ascolto, ci si sente a casa.

L’interesse di The Technological Breakthrough non termina con i suoi quarantasei minuti di musica. Il booklet che accompagna il disco contiene, oltre ai testi dei brani, alcune note a firma dello stesso Senn. Leggerle conduce in una dimensione musicale inaspettata, caratterizzata da un’impronta piacevolmente amatoriale. Quarant’anni, una moglie e due figli, Senn vive in California e di lavoro fa l’agente immobiliare. La musica è una passione entrata nella sua vita in tempi relativamente recenti, ma con forza tale da spingerlo immediatamente verso il songwriting. Per qualche tempo le canzoni di Senn, da lui interamente composte, cantate, suonate e mixate, non si spingono molto oltre il suo scantinato e la cerchia ristretta dei conoscenti. Poi, a inizio 2014, Derek decide che è arrivato il momento di fare sul serio.

Accompagnato dalla sua acustica Martin e da un pugno di canzoni, Senn parte alla volta di San Francisco per rinchiudersi insieme a un gruppo di musicisti locali nel Tiny Telephone di John Vanderslice, studio di incisione rigorosamente analogico che ha lavorato al servizio di nomi del cantautorato indie americano come Bob Mould, Mark Kozelek, The Mountain Goats e Okkervil River. Qui prendono velocemente vita, partendo da un’ossatura di chitarra e voce, i brani del disco. Dopo dieci giorni, Senn esce dal Tiny Telephone con quattro bobine di nastro pronte per essere spedite a Chicago per il mastering finale. Quando si reca all’ufficio spedizioni per l’invio, compila un modulo di assicurazione del valore di 10.000 dollari. Le persone in fila lo guardano con curiosità, immaginando che il pacco contenga gioielli o beni preziosi. In fondo, non si sbagliano di molto.

La storia di The Technological Breakthrough è semplice, proprio come la musica che contiene. Parla di passione e cura. Restituisce il senso di ciò che si dovrebbe intendere quando si parla di “prodotto culturale”.

[ illustrazione: fotografia di copertina di The Technological Breakthrough (2014) di Derek Senn ]

ANTROPOLOGIA, COMPLESSITÀ, CONOSCENZA, CREATIVITÀ, INTERNET, IRONIA, SCUOLA, TECNOLOGIA, TEMPO

Perdere tempo su internet, guida all’uso

Kenneth Goldsmith è poeta, agitatore web e profeta della scrittura non creativa. La sua ultima trovata, sperimentata nelle vesti di docente universitario presso la University of Pennsylvania, è un corso dal sorprendente titolo “Wasting Time on the Internet”. L’insegnamento, lungi dal criticare il fenomeno della continua perdita di tempo sul web, lo eleva a fonte di ispirazione per la produzione di testi letterari.

Nella storia della cultura, le provocazioni offrono quasi sempre un doppio livello di lettura. C’è quello più superficiale, cui spesso si fermano i media di massa. Secondo quest’ottica, Goldsmith fa scalpore perché nobilita qualcosa di cui tutti si lamentano quotidianamente, scovando – proprio come faceva Baudelaire a metà ‘800 – il bello nell’effimero. C’è poi un senso più elevato, che si spoglia di valenze ironiche e riflette su mutamenti antropologici profondi. A ben vedere, Goldsmith non ci parla tanto di distrazione e passività (che del resto non sono certo invenzione di internet), ma della crisi di un modello di pensiero – quello della “cultura occidentale” – che continua a non riuscire a fare i conti con il susseguirsi dei mutamenti tecnologici.

La questione non è dunque demonizzare internet, ma sviluppare competenze che portino a saperlo usare con maggiore consapevolezza, nella vita personale e in quella lavorativa. E ben venga dunque un corso che aiuta i giovani universitari – una delle fasce di età che vivono il web con più immediatezza – a esplorare le potenzialità creative di un medium tanto ricco quanto spesso inestricabile. Questo è quanto è davvero in gioco; il resto è mero sensazionalismo da prima pagina.

[ illustrazione: il meme di internet noto come Nyan Cat ]

APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, COMPLESSITÀ, CREATIVITÀ, DEMOCRAZIA, ECONOMIA, JAZZ, LAVORO, MANAGEMENT, POLITICA

Tradizione e innovazione: la lezione collaborativa del jazz

Un contributo per «Il Sole 24 Ore» del filosofo Arnold I. Davidson prende spunto da un album dell’ottetto del compositore e sassofonista americano Steve Lehman, Mise En Abîme (2014), per formulare acute osservazioni sulla relazione fra tradizione e innovazione e democrazia e individualità.

In termini di tradizione, Lehman mostra di coltivare nei confronti del suo principale maestro, il sassofonista Jackie McLean, un rapporto che riconosce l’influenza delle radici esponendola all’urgenza dell’innovazione. Il rapporto con una tradizione è un processo di adesione culturale che necessita – come Davidson nota nel suo articolo – un rischioso rispetto, cioè una dinamica relazione fra continuità e discontinuità che dà vita a una reinterpretazione di senso. Il jazz è del resto il genere di musica più incline a una continua rilettura creativa del passato: per convincersene basta pensare ai cosiddetti standard, brani tradizionali – spesso risalenti agli anni ’30 e all’epoca d’oro di Broadway – che continuano a essere suonati in maniera sempre nuova e personale attraverso il passaggio da una generazione all’altra di musicisti.

Rispetto alla relazione tra individuo e collettivo, il disco di Lehman offre un intreccio di improvvisazioni personali che riesce a suonare pieno di diverse sfaccettature e insieme coeso. Non appena si ascoltano le prime note del disco, la musica di Lehman e del suo ottetto risulta subito estremamente complessa, proprio come qualsiasi autentica interazione sociale. Lehman aderisce alla lezione della musica “spettrale”, cioè un approccio armonico costruito sui timbri piuttosto che sulle tradizionali relazioni tonali. Questo modo di relazionarsi richiede ai musicisti una grande disciplina creativa in cui, come nota Arnold I. Davidson, la democrazia “di massa” cui siamo soliti pensare lascia spazio a una democrazia degli individui nella quale diventa possibile esprimere la propria voce all’interno di una ricca interazione sociale. Seguendo Davidson:

«La coesione ricercata non è quella dell’unità, ma una coesione interattiva, e più fragile, tra delle personalità singolari».

È questa la preziosa lezione di democrazia offerta dal jazz – e nello specifico dall’ottimo disco di Lehman – a qualsiasi organizzazione sociale.

[ illustrazione: l’orchestra di Count Basie, in primo piano Lester Young e Basie, 1945 ]

CONCETTI, CREATIVITÀ, LAVORO, MANAGEMENT, PAROLE, SOCIETÀ, STORIE, TEORIE

Di quella volta che l’esercito americano inventò la creatività

Un titolo somiglia a un amo: vive per catturare l’attenzione e per riuscirci non disdegna ricorrere all’inganno. In questo caso la menzogna è parziale, poiché parlare di una invenzione della creatività è fuorviante solo in termini assoluti. Trattandosi anzitutto di un’etichetta, il senso della parola creatività dipende dalle condizioni di contesto in cui di volta in volta viene usata. Un articolo del «New Yorker» dal titolo Creativity Creep si cimenta in una ricognizione di queste progressive reinvenzioni.

La nostra creatività, quella di cui parla la tanta letteratura oggi a essa dedicata, è riconducibile a un agire centrato sull’individuo. Di questi tempi nessuno si sognerebbe, come invece accaduto in epoche remote, di attribuire il merito di una buona idea all’ispirazione divina o qualsivoglia altro fattore esterno alla volontà umana. L’interiorizzazione della creatività inizia a prendere forma a partire dal Romanticismo, in particolare con l’idea di immaginazione. Samuel Coleridge (1772-1834) ne distingueva due tipi: da un lato un’immaginazione mondana, deputata a stilare piani e risolvere problemi; dall’altro un’immaginazione più nobile, motore di un’ispirata esperienza del mondo. L’influenza di questi due orientamenti – una creatività pratica e una contemplativa – ha continuato a essere paritaria fino al momento in cui qualcuno ha suggerito che privilegiare una delle due direzioni potesse essere decisamente utile.

Nel settembre 1950, nel contesto di un congresso dell’American Psychological Association, venne pronunciato un discorso destinato a esercitare enorme influenza in tema di creatività. Un oscuro psicologo di nome J. P. Guilford rese pubblico il resoconto delle ricerche da lui condotte durante la seconda Guerra Mondiale dietro mandato dell’esercito americano. Incaricato di escogitare un metodo efficace per selezionare nuove reclute per l’aviazione, Guilford fece ricorso alla categoria di creatività, costruendo una serie di test orientati alla produzione di idee e al cosiddetto pensiero divergente. Chiunque sia stato coinvolto in giochi che pongono domande del tipo “quanti usi alternativi sai trovare per questa penna / graffetta?” sa di cosa si parla. Il successo dei test di Guilford è da attribuirsi a due fattori: enfasi sulla misurabilità e orientamento a un prodotto. Se il contesto di Coleridge era permeato di Romanticismo, quello di Guilford risente, oltre che dell’ideologia militare, di almeno quattro decenni di organizzazione scientifica del lavoro. Nessuna sorpresa nel constatare come negli anni seguenti il principale campo di azione di questa nuova e pragmatica accezione di creatività sia diventato il mondo delle aziende.

Cosa sostiene, dunque, l’odierna vulgata della creatività? Che coltivare l’immaginazione nobile di Coleridge non è sufficiente. Bisogna essere in grado di concretizzare le proprie idee. Di produrre un output, per dirlo in termini aziendali. L’interiorizzazione di questa linea di pensiero – nota l’articolo del «New Yorker» – rende impossibile parlare di creatività senza prefigurare un prodotto. Da buoni membri della società dei consumi, non ci limitiamo a proiettare i nostri desideri su oggetti presentati come frutto di creatività, ma vogliamo andare oltre: viviamo l’anelito stesso alla creatività alla stregua di un meta-consumo, cioè come un modo per risalire lungo la catena che dal produttore giunge a noi consumatori. La tensione verso la realizzazione di questo bisogno non potrebbe essere più lontana dalla disinteressata esperienza del mondo di cui parlava Coleridge.

[ illustrazione: lo “zio Sam”, opera di James Montgomery Flagg – 1917 ]

APPRENDIMENTO, CREATIVITÀ, LAVORO, MANAGEMENT

L’ozio fa bene alla creatività

In pausa. Come l’ossessione per il fare sta distruggendo le nostre menti (2014) è un curioso piccolo libro. Il suo autore, l’americano Andrew Smart, rientra nei copiosi ranghi degli studiosi di scienze cognitive che si ostinano a volerci spiegare cosa succede nel nostro cervello quando siamo al lavoro. La peculiarità del testo di Smart è di collocarsi in una linea di pensiero che avversa tutti gli One minute manager e  Detto, fatto! prodotti negli ultimi 50 anni dalla letteratura managerial-efficientista americana. Smart si cimenta con questa impresa in nome del recupero del valore costitutivo dell’ozio per la creatività e l’efficacia lavorativa. Non si tratta di un tema esattamente nuovo, dato che i cosiddetti momenti “a-ha” generati dall’ozio – noti anche come “effetti eureka”, con in cima alla lista il classico esempio della mela di Newton – sono stati abbondantemente studiati dalla letteratura psicologica sulla creatività. E tuttavia il testo di Smart offre alcuni spunti che ne rendono decisamente consigliata la lettura.

Anzitutto, Smart rende nota ai suoi lettori la scoperta di un meccanismo cruciale per il funzionamento del cervello, la cosiddetta rete neurale di default. Quest’ultima si attiva quando oziamo e grazie a essa il cervello entra in una fase di relativa autonomia (da qui il titolo originale inglese del testo, Autopilot) che libera energie che favoriscono creatività e autocoscienza. I ritmi di vita orientati alla massimizzazione dell’efficienza, al multitasking, al life-hacking e ai “people analytics” vanificano tutto questo. Tenetelo presente la prossima volta che vi troverete a confrontarvi con l’ottimizzazione delle vostre ore lavorative quotidiane.

Il libro di Smart contiene poi una piccola chicca che sarà apprezzata da chiunque conosca il metodo di gestione della qualità Six Sigma (inventato da Motorola negli anni ’80) e lo trovi discutibile. Six Sigma, nota Smart, produce nelle aziende lo stesso effetto che ha sul corpo umano l’epilessia. Durante una crisi, le variazioni fra i neuroni cerebrali vengono ridotte, generando un effetto di “ipersincronizzazione” che genera gravi danni per la mente e per la capacità di pensiero. A livello organizzativo, Six Sigma agisce nello stesso modo, inducendo una ipersincronizzazione che ha una conseguenza grave per qualsiasi azienda: omogeneizzare i contributi delle persone e ridurre drasticamente le insorgenze di comportamenti creativi e innovazioni, come testimoniato da diversi casi aziendali di aziende che hanno “esagerato” con Six Sigma (Smart cita quello di 3M). A onor del vero va anche notato come le persone con una maggiore attività nella rete neurale di default, dunque maggiormente creative e disposte all’innovazione, risultano essere quelle soggette a schizofrenia. Interessante è dunque riportare anche questo esempio a un livello organizzativo e notare come le aziende più innovative saranno quelle pronte a “sognare” assumendosi i rischi di una possibile deriva schizofrenica.

Non da ultimo, In pausa ha il merito di accompagnare le sue osservazioni scientifiche con solidi riferimenti alla storia del pensiero occidentale. Smart sa bene di non essere il primo a parlare dei benefici dell’ozio e dunque non manca di menzionare autori come Samuel Johnson (1709-1784), che fra il 1758 e il 1760 pubblicò una serie di saggi nota sotto il titolo di The Idler (l’ozioso), e Rainer Maria Rilke (1875-1926) , a più riprese citato da Smart come “maestro d’ozio e creatività”.

[ illustrazione: John William Godward, Dolce far niente, 1904 ]

ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, CREATIVITÀ, SCRITTURA, TECNOLOGIA

E se anche battere sui tasti aiutasse la creatività?

Negli ultimi mesi il dibattito sui benefici dello scrivere a mano è stato animato da diverse ricerche provenienti dal settore delle neuroscienze. Come riportato anche qui, scrivere con carta e penna pare abilitare lo sviluppo cognitivo e amplificare la capacità di apprendere.

Lo studioso americano Clive Thompson, autore del best-seller tecnofilo Smarter Than You Think (2013), prova a confrontare scrittura a mano e a computer, in cerca di qualche pregio da attribuire anche alla seconda modalità di produzione di testo. Quanto Thompson mette in luce in un articolo su «Medium» è che, se la scrittura a penna vince a mani basse quanto si tratta di memorizzare e assorbire conoscenze, la tastiera del computer regna sovrana se si parla di produrre nuovi contenuti.

Il punto non è semplicemente battere sui tasti, ma saperlo fare ad alta velocità. Diversi studi dimostrerebbero che esiste una stretta connessione tra capacità di ragionamento e velocità nel mettere nero su bianco quanto pensato. In buona sostanza, pensare “veloci” serve a poco se non si è in grado di scrivere altrettanto rapidamente. E in questo una scrittura a tastiera ben impostata sembrerebbe battere lo scrivere a mano.

Confrontare le posizioni di Thompson con quelle dei sostenitori di carta e penna fornisce una riprova del fatto che, con qualche teoria cognitiva alla mano, è possibile dimostrare tutto e il contrario di tutto. Evitando qui di parteggiare per l’una o per l’altra fazione (si lascia al lettore prendere posizione), è il caso di notare che, tanto per la scrittura a mano quanto per quella a tastiera, si tratta di utilizzare al meglio gli strumenti a propria disposizione, rendendoli estensione del proprio corpo e dunque veicoli di istanze creative e comunicative. A questo proposito, si dice che il trombonista jazz J.J. Johnson fosse solito ripetere ai suoi allievi:

«Qualsiasi idea che non sei grado di tirar fuori dal tuo strumento non ha nessun valore in questa musica».

Raffrontare un mezzo per antonomasia “creativo” come lo strumento musicale con oggetti quotidiani come la penna e la tastiera potrebbe sembrare fuorviante, ma a ben vedere aiuta a realizzare che la questione centrale per qualsiasi strumento è acquisire una perizia tecnica adeguata ai messaggi che si intende veicolare. Pochi fra noi hanno velleità da trombonisti, ma siccome tutti pretendiamo ogni giorno di esprimerci battendo sui tasti di una tastiera, forse è il caso di dedicare qualche sforzo al cercare di farlo meglio.

Compito a casa: imparare a scrivere senza guardare la tastiera. E, se avanza tempo per un vezzo retrò, frequentare un corso di calligrafia.

[ illustrazione: fotogramma dal film Populaire (2012) di Régis Roinsard ]

CREATIVITÀ, INNOVAZIONE, SEGNI, STORIE, TECNOLOGIA, VIDEOGIOCHI

La storia di Pong, il primo successo del mondo dei videogiochi

Maggio 1972, New York, quartier generale della neonata Atari: quando il giovane Allan Alcorn viene assunto come sviluppatore, si trova di fronte a una curiosa sfida. A lanciargliela sono Nolan Bushnell e Ted Dabney, co-fondatori dell’azienda e precedentemente ideatori di Computer Space (1971), cioè il primo coin-up (videogioco da bar azionato da moneta) della storia. Bushnell e Debney domandano ad Alcorn, completamente a digiuno di videogame, di realizzare una versione da sala giochi del “table tennis” del Magnavox Odyssey , prima console casalinga al mondo. Quanto a requisiti grafici, la richiesta è semplice: due barrette, una pallina, delle cifre per indicare il punteggio della partita. Niente di particolarmente creativo.

Alcorn affronta il suo compito in maniera spedita, aggiungendo alcuni dettagli che rendono il gioco più divertente: l’impatto con angoli diversi della barretta cambia la traiettoria della pallina, la cui velocità, scambio dopo scambio, aumenta progressivamente. Soddisfatti del lavoro, Bushnell e Dabney decidono di far debuttare il videogame di Alcorn in un bar newyorkese. L’idea è di testare il gioco per qualche tempo e, nel caso di buoni riscontri del pubblico, venderne i diritti a un’azienda informatica da scegliere tra Bally e Midway. Gli esiti della sperimentazione superano ogni aspettativa già a distanza di una settimana: code all’apertura del bar e videogame inceppato per le troppe monetine inserite. Bushnell e Dabney fanno rapidamente marcia indietro con Bally e Midway e decidono che sarà la stessa Atari a commercializzare il neonato Pong.

In seguito al lancio nel mercato dei bar, il videogioco incassa ben 35-45$ al giorno per macchina. La versione domestica arriva per il Natale del 1975, vendendo immediatamente 150.000 unità. Con questi numeri senza precedenti, il semplice esercizio di allenamento di un programmatore si impone come il primo vero successo commerciale del mondo dei videogame. Il boom di Pong frutta ad Atari anche un patteggiamento in tribunale per aver copiato il gioco originario del Magnovox Odissey, ma – si sa – la storia delle innovazioni passa non di rado anche dai tribunali.

[ illustrazione: schermata dal videogame Pong, 1972 ]

CREATIVITÀ, FILOSOFIA, INTERNET, LAVORO, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

Calibano e la tecnica: una critica di Lewis Mumford al paradigma scientifico

«Per spiegare la natura dell’uomo nella sua totalità, dobbiamo includere nella sua storia un elemento temporale che, dopo Aristotele, non ha avuto alcuna parte nei calcoli scientifici: la sfera del potenziale e del possibile, la sfera della reale creatività».

Da queste parole di Lewis Mumford (1895-1990), tratte da una lezione tenuta a New York nel 1954 e raccolte in forma scritta in Per una civiltà umana (2002), emerge una profonda critica nei confronti del paradigma scientifico che ha determinato il destino della nostra civiltà. Per sostenere le sue tesi, Mumford ricorre a un prestito metaforico da La Tempesta di William Shakespeare: i personaggi di Prospero e Calibano sono assimilati al pensiero di Sigmund Freud e alle diverse facoltà dell’uomo. Se Prospero rappresenta il superego, incarnazione delle facoltà superiori, l’animalesco Calibano è simulacro dell’id, cioè dell’io primitivo e inconscio. Mumford legge nella crisi del presente – il suo, del 1954, ma facilmente anche il nostro – il dominio di Calibano su Prospero, ovvero la perdita per l’uomo di una autodeterminazione spirituale causata del prevalere di istinti orientati al qui e ora e al mero possesso della materia.

Nella trattazione di Mumford, centrale per il prevalere di Calibano è la sua alleanza con la tecnica e l’approccio scientifico. Quando l’azione dell’uomo sulla natura – che è costitutiva della sua autopoiesi – assume un approccio “scientifico” che punta all’oggettivazione, alla misurazione e alla razionalizzazione di ogni pratica, genera un uomo-automa che procede nel perfezionamento della sua ricerca svincolandosi da scopi e dunque deresponsabilizzandosi rispetto all’umanità. Sono figli di questo atteggiamento, nota Mumford avvicinandosi qui fortemente al pensiero di Gunther Anders (ma anche di Arnold Gehlen), le barbarie della guerra e in particolare la progettazione di armi di distruzione di massa. Benché Mumford non le citi, riconducibili a questo approccio paiono anche barbarie meno disastrose ma sottilmente pervasive, quelle generate dall’approccio scientifico al lavoro. Il lavoratore-macchina può ben dirsi figlio di Calibano e della de-umanizzazione del lavoro.

L’alleanza tra Calibano e la tecnica rappresenta la sconfitta della cultura e la realizzazione di quello che Mumford definisce  – citando Henry Miller – un “incubo ad aria condizionata”, cioè la riduzione della vita a meccanismo dentro meccanismi, senza nessuna spinta teleologica. L’antidoto all’apparentemente irreversibile marcia di Calibano è identificato da Mumford nell’impegno, a livello individuale e politico, a produrre qualcosa che trascenda l’orizzonte di una singola persona e guardi a un progetto dal lungo orizzonte futuro. Per cogliere tutta l’attualità delle parole di Mumford, pur a distanza di 60 anni da quando sono state pronunciate, è utile leggere questo suo proposito personale, che suona come una critica in nuce a quanto internet avrebbe realizzato molti anni dopo:

«La mia norma consiste nell’evitare, nei limiti del possibile, la partecipazione a tutte le organizzazioni in cui sia impossibile la conoscenza e la relazione personale, in cui il rapporto di io-tu sia stato distrutto e al suo posto sia stato introdotto un sistema di controllo remoto».

[ illustrazione: Caliban, Miranda, Prospero, C.W. Sharp, 1875 ]

CREATIVITÀ, INDUSTRIA, INNOVAZIONE, MUSICA, STORIE, TECNOLOGIA

Ascesa e declino della pedal steel guitar (o: della resa dell’analogico al digitale)

La pedal steel guitar è familiare alle orecchie di molti, riconoscibile dagli occhi di pochi. Con pragmatica accuratezza di stampo USA, il suo nome dice pressoché tutto. Guitar: si tratta di uno strumento a corde che appartiene alla famiglia delle chitarre, per la precisione al sottoinsieme di quelle che si suonano da seduti (lap). Steel: l’elemento cruciale per il caratteristico suono “slide” è una barra di metallo lunga dieci centimetri, fatta scivolare sulle corde dalla mano sinistra. Pedal: oltre al lavoro delle mani, a determinarne la voce dello strumento è l’azione delle estremità inferiori del musicista, che azionano pedali atti a modificare l’intonazione delle corde. Per farsi un’idea di come suona una pedal steel guitar, si può ascoltare questo assolo di Paul Franklin.

Tutto nasce dalla steel guitar (quindi priva di pedali), la cui invenzione è attribuita all’hawaiano Joseph Kekuku, che sperimentò l’azione di una barra di metallo sulle corde di una chitarra già negli anni ’80 del XIX secolo. La storia della diffusione del nuovo strumento, raccontata dalla musicista americana Ginger Dellenbaugh in un articolo per «Oxford American» è curiosa: grazie a un riuscito mix di vendite porta a porta e di un battage mediatico per l’epoca inedito, la steel guitar si svincolò in breve dalla musica hawaiana per diventare strumento multi-genere, considerato già negli anni ’30 del XX secolo un classico della musica americana.

L’introduzione dei pedali arriva negli anni ’50: il primo brano di successo a farne uso è Slowly del musicista country Webb Pierce. Nasce così la pedal steel guitar, la cui forma può tuttavia dirsi definita solo in termini generali: ogni musicista crea una combinazione personalizzata del rapporto fra pedali, leve e corde, facendo sì che il meccanismo funzioni in maniera diversa da caso a caso. Lo strumento diventa emanazione delle peculiarità e delle scelte del musicista, facendo sì che non possa esistere un unico modo giusto per suonarlo (con ovvie difficoltà per le dinamiche di insegnamento e apprendimento). Il successo della pedal steel guitar è strettamente legato alle idiosincrasie di musicista e strumento. Trovare una voce personale implica, diversamente da quanto accade per gli strumenti di fabbricazione industriale, un percorso di adattamento agito su se stessi e sullo strumento. In definitiva, non esiste uno strumento “standard”, il che esclude anche la possibilità di una produzione industriale.

Gli anni ’70 registrano un picco nella diffusione della pedal steel guitar, che tuttavia già nel decennio successivo inizia a scomparire dalla maggior parte dei palchi musicali (fatta eccezione per quelli country). Un duro colpo alla futura diffusione di questo strumento sembra oggi venire impartito da un’azienda di software di nome Wavelore, che ne ha messo a punto una simulazione digitale pressoché perfetta. Quel che finora sembrava rendere la pedal steel guitar uno strumento unico, cioè l’unione “non standard” tra musicista e strumento, pare cedere il passo al progresso tecnologico. Questa ennesima vittoria del digitale sull’analogico è resa evidente dall’ampiezza del suo campo di azione: insieme alla pedal steel guitar, Wavelore riesce infatti a simulare anche altri strumenti tradizionalmente considerati inimitabili, come il dobro, il theremin o lo zither. A farne le spese è, al solito, la scintilla di creatività che solo una persona può instillare in uno strumento.

[ illustrazione: copertina di un metodo per steel guitar ]