CONCETTI, IRONIA, LAVORO, MANAGEMENT, MARKETING, PAROLE, SOCIETÀ, TEORIE

Alle origini dell’aziendalese

Nelle imprese italiane si parla una lingua semplicistica, meccanica e frammentaria – un vernacolo riduzionista, verrebbe da dire – , che tratta in maniera sprezzante l’idioma nazionale malmenandolo con sferzate di inglese mal masticato. Il linguaggio del management (in Italia rigorosamente pronunciato “manàggment”) denuncia in maniera impietosa una generale – e ahinoi diffusa ben oltre il mondo delle aziende – sudditanza nei confronti della cultura made in USA, alla quale certo si deve l’origine del management stesso ma cui si poteva forse evitare di pagare un così oneroso tributo linguistico. Indagare la nascita di questo parlare – il più delle volte uno straparlare – conduce a ripercorrere le tappe dello sviluppo del linguaggio aziendale americano. Un ricco e divertente articolo appena pubblicato da «The Atlantic» a firma di Emma Green si cimenta esattamente con questa impresa, ricostruendo le origini dell’office talk.

Si parte da Frederick Taylor (1856-1915), ovviamente, grazie al quale termini come “accuracy”, “precision”, incentives”, “maximed production” (per ovvi motivi d’ora innanzi riporterò le parole nella loro lingua originaria) iniziano a diffondersi nel linguaggio aziendale di inizio Novecento. In seguito, tanto accademici quanto consulenti contribuiscono, con ondate legate ai decenni successivi e a corrispondenti correnti di pensiero, ad arricchire il vocabolario del business.

Negli anni ’50 e ’60, durante i quali si sviluppano le teorie degli studiosi della Carnegie Mellon e del MIT, a lasciare il segno è soprattutto la “hierarchy of needs” di Abraham Maslow (1908-1970), cui si deve anche la pronunciata e duratura attenzione per la “self-actualization”.

Negli anni ’80 le parole chiave aziendali si dividono in due filoni. Il primo è rappresentato dal pensiero organizzativo ispirato a Peter Drucker (1909-2005) – padre del “management by objectives” – e al suo lavoro di consulenza per aziende come General Electric. Si parla di espressioni come “task cycle”, “operational efficiency”, “80-20” (richiamo a Vilfredo Pareto). Il secondo filone nasce dalla finanza aggressiva di Wall Street – idealmente identificabile con il Gordon Gekko interpretato da Michel Douglas nell’omonimo film di Oliver Stone – e fa sue parole a oggi ancora usatissime quali “leverage” o “added-value”.

Negli anni novanta il mondo del marketing non manca di dire la sua, diffondendo l’uso di espressioni quali “hard-sell”, “mind share” e il diffusissimo “ideation”. A metà del decennio fa la sua comparsa, associata all’idea di innovazione, una parola destinata a essere estremamente influente negli anni a venire. Si tratta della “disruption”, e il suo apostolo è il docente di Harvard Clayton Christensen. Negli stessi anni, la cultura di Silicon Valley diffonde nuove espressioni quali “top-down” e “bottom-up”, senza mancare di rivitalizzarne di antiche, come “entrepreneur” e “venture capitalist”.

Gli anni 2000 segnano la comparsa del movimento dei life-hackers (si veda il sito omonimo), che mette in circolo termini legati alla crescita personale come “journey”, “passion”, “energy”, “purpose”, insieme a una grande attenzione per il “work-life balance”.

La storia del linguaggio aziendale è destinata a non si fermarsi qui. Ripercorrerla fa sorridere – soprattutto pensando al suo passaggio dalla cultura americana a quella di altre nazioni, fra cui l’Italia – ma al tempo stesso spaventa per la sua capacità di influenzare in maniera sorprendentemente diretta pensiero e pratiche lavorative. Come si nota in chiusura dell’articolo del «The Atlantic»:

«Tutti trovano questo linguaggio un po’ ridicolo, ma i manager lo amano, le aziende dipendono da esso e in media i lavoratori finiscono per assorbirlo».

[ illustrazione: striscia di Dilbert del 1994 – © Scott Adams ]

APPRENDIMENTO, COMUNICAZIONE, CONOSCENZA, ECONOMIA, FILOSOFIA

Fritz Machlup, pioniere dello studio economico sulla conoscenza

Il nome di Fritz Machlup (1902-1983), economista di origine austriaca e in seguito cittadino americano, è legato alla nascita degli studi economici sulla conoscenza. Per curiosa coincidenza, Machlup sviluppò le proprie riflessioni su questi temi quasi contemporaneamente a quelle formulate da un altro austriaco naturalizzato statunitense, Peter Drucker (1909-2005), universalmente noto come il “guru” della knowledge economy.

Machlup pubblicò nel 1962 l’opera dal titolo The Production and Distribution of Knowledge in the United States, in cui mise in atto un progetto rivoluzionario: la quantificazione – e monetizzazione – dell’economia della conoscenza statunitense. Per la cronaca, Machlup la stimò (in base a rilevazioni del 1858) in 136.4 milioni di dollari, pari al 29% del prodotto interno lordo nazionale. Al di là di questo dato numerico, risulta soprattutto interessante, per il uso grado di innovazione e influenza sugli studi seguenti, il lavoro definitorio svolto da Machlup sul concetto di conoscenza.

Anzitutto, Machlup si premurò di superare un concetto meramente scientifico o astratto di conoscenza. Con riferimento agli studi filosofici di Gilbert Ryle e Michael Polanyi, assunse una concezione di conoscenza pratica e legata al fare. In relazione invece all’economista e filosofo austriaco Friedrich von Hayek (1899-1992) – e in particolare al suo saggio The Use of Knowledge in Society (1945) – fece propria una concezione soggettiva della conoscenza, interpretata in senso critico come opposizione alle informazioni supposte “perfette” dal pensiero economico. Come risultato di questa summa di ispirazioni, Machlup mise a punto la propria nomenclatura di cinque tipi di conoscenza: pratica (o professionale); intellettuale; del passatempo (cioè legata al divertimento e alla curiosità); spirituale; involontaria (acquisita incidentalmente).

Machlup non mancò di riflettere sui meccanismi di produzione e distribuzione delle conoscenze, identificando ben sei tipi di produttori: il trasportatore (distribuisce esattamente quel che ha ricevuto); il trasformatore (cambia la forma del messaggio, ma non il suo contenuto); l’elaboratore (interviene sia su forma che contenuto con procedure di routine e combinatorie); l’interprete (cambia forma e contenuto usando l’immaginazione e la traduzione); l’analista (utilizza il proprio giudizio critico al punto da mutare radicalmente il messaggio originario); il creatore (aggiunge così tanto grazie alla propria invenzione da allontanarsi in massima misura da quanto ricevuto).

Grazie al pensiero e alle definizioni che contiene, The Production and Distribution of Knowledge in the United States rappresenta un testo cruciale per lo studio sulla produzione e disseminazione delle conoscenze in ogni ambito sociale.

[ illustrazione: il platonico “mito della caverna”, allegoria della conoscenza, in un’incisione del 1604 di Jan Saenredam ]

JAZZ, MANAGEMENT, MUSICA

La metafora del jazz per le organizzazioni di impresa

La Terza Ondata (1980) è uno dei libri più profetici del futurologo Alvin Toffler. Con i suoi neologismi (tecnosfera, sociosfera, infosfera) e le previsioni di mutamento economico e sociale, risulta una lettura utile per capire molti “perché” dell’attuale società occidentale.

In uno dei passaggi incentrati sulle innovazioni introdotte dalla “seconda ondata”, identificabile in termini generali con la rivoluzione industriale e posizionata temporalmente da Toffler fra il 1750 e il 1955, l’autore si sofferma sull’influenza ideologica e strutturale che l’organizzazione industriale ha esercitato sull’ambito della musica.

Con riferimento allo  studioso di storia della musica Curt Sachs, che ricorda come nel XVIII secolo il passaggio da una cultura musicale prettamente aristocratica a una democratizzata comportò la necessità di disporre di sale per concerti sempre più grandi, che richiedevano un più alto volume del suono, Toffler osserva quanto segue:

«L’orchestra rifletté alcuni aspetti della fabbrica persino nella sua struttura interna. Inizialmente l’orchestra sinfonica non aveva un direttore oppure la direzione veniva curata a turno dagli orchestrali. Successivamente gli orchestrali, proprio come i lavoratori di una fabbrica o di un ufficio, furono divisi in reparti (settori strumentali), ognuno dei quali contribuiva alla produzione complessiva (la musica) ed era coordinato dall’alto da un capo (il direttore) e persino, più tardi, da un capo intermedio (il primo violino o il capo del settore strumentale)».

Le parole di Toffler sono una dimostrazione del perché la musica sinfonica può essere un’ottima metafora dell’organizzazione moderna del lavoro: semplicemente perché la strutturazione dell’orchestra ne è figlia. E dimostrano anche come questa metafora sia oggi – o, secondo Toffler, da quando siamo entrati nella “terza ondata” – del tutto inadatta a parlare delle imprese contemporanee, da lungo tempo definite come organizzazioni che apprendono. Del resto, studiosi come Peter Drucker (1909-2005) hanno parlato fin dagli anni ’60 della maggiore adeguatezza alle nuove organizzazioni della metafora del jazz. In un’intervista del 1994 Drucker afferma:

«The model of management that we have right now is the opera. The conductor of the opera has a very large number of different groups that he has to pull together. The soloists, the chorus, the ballet, the orchestra, all have to come together—but they have a common score. What we are increasingly talking about today are diversified groups that have to write the score while they perform. What you need now is a good jazz group».

[ illustrazione: Lucia Ghirardi ]