ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, IRONIA, LAVORO, METAFORE, SOCIETÀ

Chi ha paura della barba manageriale?

È probabile siano in molti ad aver notato sul volto di Sergey Brin, co-fondatore di Google, lo spuntare di una barba; quasi certo è che Stephen Mihn, collaboratore del «New York Times», sia il solo ad aver pensato di tratteggiare un’analisi manageriale ispirata a questa emergenza pilifera.

Assecondando il punto di vista di Mihn, la storia degli intrecci fra capitale e irsutismo facciale può essere riassunta da un’opposizione binaria: quando a primeggiare è l’idiosincratica affermazione imprenditoriale del singolo, le barbe germogliano; nei periodi in cui il mercato impone la lingua spersonalizzata e inglobante delle corporation, sono invece schiuma e rasoio a dettar legge.

Per gran parte dell’età moderna, i rappresentanti di spicco del mondo economico – tanto in Europa quanto negli USA – hanno dato prova di avere a cuore un volto ben rasato. Attorno alla prima metà dell’800, questo trend è stato ulteriormente rafforzato dalle scelte estetiche dell’élite intellettuale socialista: le barbe di Marx ed Engels si sono rapidamente imposte come simbolo della lotta al capitalismo, spingendo chi stava dall’altra parte della barricata, terrorizzato, ad ancor più frequenti visite al barbiere di fiducia.

I moti nazionali del 1848 in Europa, così come la guerra civile in terra americana, segnarono un’inversione di rotta, associando i peli facciali all’affermazione di un patriottico e borghese senso di mascolinità. In seguito a questo rivolgimento sociale, la barba diventa tratto essenziale della classe capitalista. Titanici uomini d’impresa come Andrew Carnegie o Henry Clay Frick – peraltro passato alla storia come “peggior amministratore delegato di sempre” – fecero della loro barba larger than life un amuleto di individualismo e dominio sul mercato.

Le cose cambiarono di nuovo a fine ‘800: la ribellione della forza lavoro mondiale generò leader operai contraddistinti da lunghe, spettinate barbe. Il vello facciale tornò a spaventare il capitalismo, che non poté fare a meno di riprendere a rasarsi con cura (in suo aiuto giunse, nel 1901, il primo rasoio di sicurezza Gillette). Negli corso del Novecento barba e baffi sparirono, lasciando campo al dominio del liscio, inespressivo volto del dirigente delle grandi multinazionali.

Negli anni 2000, la barba appare priva di particolari connotazioni ideologiche e non spaventa più nessuno. Ecco perché sembra così adatta – al netto della moda hipster, secondo molti ormai in calo – per il volto del capitalismo geek rappresentato da Sergey Brin.

[ illustrazione: Robert Taylor, Dictionary of Beards,  2010 ]

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DECISIONE, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, MARKETING, METAFORE

Il bluff come strategia manageriale

Durante la prima guerra mondiale, le forze degli Alleati escogitarono un modo per contrastare gli Imperi Centrali che non implicava l’uso della forza bruta ma dell’ingegno. Nacquero così i cosiddetti “dummy tank”, vale a dire falsi carri armati realizzati con strutture in legno coperte da teli dipinti per simulare l’aspetto dei mezzi originali. I dummy tank vennero utilizzati per ingannare le flotte aeree nemiche, mostrando loro forze di terra particolarmente numerose, ma solo in apparenza. Sorta di cavallo di Troia alla rovescia, il dummy tank prese rapidamente piede presso gli eserciti di ogni nazione e vide il suo uso consolidarsi durante il secondo conflitto bellico mondiale, anche nella forma inversa di carro armato mimetizzato come semplice camion. È a tutt’oggi un espediente utilizzato dalle forze armate di tutto il mondo.

La strategia del bluff di cui il dummy tank si fa simbolo non è esente da implicazioni manageriali. Spesso, soprattutto nel campo del marketing, saper bluffare rappresenta una competenza cruciale per rivolgersi al mercato con il giusto tempismo. Per trovare esempi di questa condotta non è necessario scavare troppo indietro nel tempo né pensare ad aziende misconosciute. È sufficiente tornare al 9 gennaio 2007, giorno in cui sul palco del Moscone Center di San Francisco, Steve Jobs presentò la più recente novità Apple, cioè l’iPhone. Non molti sono a conoscenza del fatto, descritto in un articolo del «New York Times» di qualche tempo fa, che il lancio di questo prodotto rappresentò un azzardo condotto dall’allora CEO di Apple. Nelle sue mani, durante lo speech di presentazione, c’era un prototipo che era poco più di un bluff, un”dummy tank” credibile quanto al suo guscio ma con gravi problemi hardware e software. Ciononostante, un progetto durato lunghi anni e costato circa 150 milioni di dollari meritava di essere sostenuto con un’audace scommessa. L’aspettativa generata dalle parole di Jobs necessitò di essere sostenuta dall’alacre lavoro del team di tecnici Apple, che dovettero lavorare duramente per far sì che l’iPhone giungesse al mercato con caratteristiche all’altezza di quanto il suo pubblico era ormai tenuto ad aspettarsi.

Di nuovo in tema di relazioni tra business e arte del bluff, un recente articolo di «Fast Company» ha chiamato in causa il gioco del poker come ispirazione per strategie da giocare nel mondo del lavoro. Pare che l’ampia manualistica dedicata a questo gioco d’azzardo rientri fra le letture preferite dai giovani imprenditori della Silicon Valley, che si ispirano agli insegnamenti di giocatori come Phil Hellmuth Jr., nove volte campione mondiale di poker. Il suo principale consiglio? Bluffare è una vera e propria strategia, non una scappatoia. Per questo va affrontato in maniera ponderata, utilizzando economia di mezzi, attenzione al contesto e una giusta dose di pazienza.

[ illustrazione: dummy tank utilizzato dall’esercito americano durante la seconda guerra mondiale ]

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ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, CREATIVITÀ, EPISTEMOLOGIA, SCRITTURA, TECNOLOGIA

Scrivere a mano serve ancora a qualcosa?

Un recente articolo del «New York Times» raccoglie e commenta le più aggiornate opinioni della neuroscienza riguardo lo scrivere a mano. Se il decadimento dello studio della calligrafia nelle scuole è un dato di fatto – che trova un ironico contraltare nella nuova “alfabetizzazione manuale” imposta alle dita di ragazzi e adolescenti da smartphone e tablet – , quel che soprattutto conta chiedersi è se scrivere a mano e a computer siano attività equivalenti rispetto alle capacità di ragionamento e apprendimento.

Partiamo dai più piccoli: quando un bambino scrive usando una penna, produce parole più velocemente che con una tastiera. Non solo, afferma la neuroscienza: è anche in grado di recepire più idee. Passando alle aule universitarie, chi prende appunti su carta è uno studente più produttivo rispetto a chi lo fa con un computer. Si badi: nonostante quanto l’intuito potrebbe suggerire, la posizione di svantaggio del computer non ha molto a che fare con le distrazioni offerte da una connessione a internet. Ciò di cui il battere sui tasti pare privo è la relazione con un processo di riflessione e manipolazione concettuale che solo lo scrivere a mano è in grado di innescare.

Pensare con carta e penna attiva aree del cervello legate all’apprendimento che restano “spente” quando lavoriamo con un computer; aiuta a memorizzare, a organizzarsi, a sviluppare senso del controllo. La materializzazione del pensiero resa possibile dallo scrivere a mano rappresenta dunque una risorsa fondamentale e a oggi insuperata per lo sviluppo cognitivo e per la capacità di apprendere.

[ illustrazione: foglio dal manoscritto di Elsa Morante per L’isola di Arturo, edito nel 1957 ]

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DIVULGAZIONE, FOTOGRAFIA, METAFORE, SEGNI, STORIE

L’ultima foto di Lincoln e il valore culturale degli artefatti

Il cineasta e studioso di fotografia Errol Morris ha recentemente redatto un saggio in più “puntate” per il New York Times. Oggetto della sua indagine è una foto di Abramo Lincoln nota come “the cracked one”. La foto è particolarmente celebre per due motivi: 1) la si ritiene l’ultima immagine di Lincoln prima della morte; 2) il frammento spezzato nella parte alta della foto, la cui linea di rottura coincide con la sommità del capo del sedicesimo presidente americano, ha assunto un ruolo metaforico rispetto alla sua morte di quest’ultimo. Queste due caratteristiche sono così radicate nell’opinione comune che nel 2005 Barack Obama, allora senatore dell’Illinois, volle proprio questa foto per un suo articolo dedicato a Lincoln.

A partire dalla fama e dal ruolo simbolico di questa immagine Errol Morris si cimenta, con un piglio indagatore che ha largamente praticato nel suo eccellente testo Believing Is Seeing: Observations on the Mysteries of Photography (2011), nella ricerca delle origini della foto, che comunemente si ritiene scattata dal fotografo Alexander Gardner il 10 aprile 1865, cioè cinque giorni prima dell’uccisione di Lincoln. Quel che Morris riesce a scoprire, giovandosi di un’indagine legata a storici e collezionisti, è che in realtà questa data non è corretta ma frutto di un’attribuzione più o meno fortunosa. In realtà Lincoln si recò nello studio del fotografo Gardner il 5 febbraio del 1865, quindi circa due mesi prima. Tutto ciò fa sì che l’ultima immagine di Lincoln sia in realtà un’altra, cioè quella scattata dal fotografo Henry Warren il 6 marzo 1865.

Morris è in grado, con un affascinante lavoro di ricerca che prende le mosse da un’immagine (e che vale la pena di leggere in originale), di farci riflettere sulle modalità con cui diamo valore ad artefatti. Tutto il significato della foto del 5 febbraio di Gardner va attribuito al valore simbolico che essa ha acquisito. Le circostanze in cui è stata scattata sono quindi del tutto secondarie rispetto ai processi culturali di cui è stata ed è tramite.

[ illustrazione: ritratto di Abraham Lincoln realizzato da Alexander Gardner il 5 Febbraio 1865 ]

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APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, FILOSOFIA, LAVORO, PERCEZIONE

Fallimento e consapevolezza

In tempi di recessione, riflettere sul senso del limite e del fallimento offre una preziosa opportunità per riconsiderare gli usuali punti di vista. La lettura di un articolo del New York Times offre diversi spunti di riflessione a riguardo.

Anzitutto, il fallimento è consustanziale alla nostra natura di esseri finiti. Ci ricorda che tutti i piani di grandezza, crescita e prosperità devono prima o poi confrontarsi con un limite:

«Failure is the sudden irruption of nothingness into the midst of existence. To experience failure is to start seeing the cracks in the fabric of being, and that’s precisely the moment when, properly digested, failure turns out to be a blessing in disguise».

Comprendere come affrontare il fallimento si rivela una capacità fondamentale, che ci aiuta ad acquisire consapevolezza della nostra imperfezione e, in senso propositivo, del continuo slancio che esiste tra quel che siamo e quel che possiamo diventare.

[ illustrazione: foto di John Dominis, Mickey Mantle Having a Bad Day at Yankee Stadium, New York, 1965 ]

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ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, LETTERATURA, LIBRI

Leggere in digitale: quali novità?

All’interno del dibattito riguardo vita, morte e risurrezione del libro, un aspetto sembra continuare a sfuggire: la dimensione antropologica della lettura. Parlando di come trasmettiamo conoscenza e narriamo storie in forma scritta, ci si continua a focalizzare sulla smaterializzazione dell’oggetto libro favorita da internet, senza indagare con cura le nuove modalità di lettura introdotte dal medium digitale.

In termini di fruizione individuale e sociale, l’esperienza della lettura resta oggi sorprendentemente simile a quella che poteva vivere chi nel 1455 avesse ordinato una copia della Bibbia stampata da Johann Gutenberg. A conti fatti, i più efficaci “e-book reader” sono quelli che cercano di somigliare maggiormente a un libro tradizionale riproducendone la natura di oggetto monofunzionale (a differenza dei tablet, sui cui si naviga, si gioca o più genericamente ci si intrattiene).

Quanto ai tentativi di rendere il libro più tecnologico e “social”, un curioso articolo del «New York Times» si cimenta nello stilare un elenco. Il tratto comune di questi esperimenti sembra essere soprattutto quello di mettere in pratica le opportunità che la tecnologia oggi offre, e non tanto quello di rispondere alle esigenze dei lettori. E i risultati sono, nella maggior parte dei casi, fallimentari.

Il tema che pare più rilevante per il futuro della lettura è quello della progressiva frammentazione delle porzioni di testo che siamo in grado di “digerire” continuativamente. Senza dubbio, la gran mole di dati e la velocità di distribuzione di internet – nonché strumenti di scrittura e lettura “minimalista” come Twitter – hanno influito pesantemente su questo aspetto. Ma, anche in questo caso: rendere disponibili i contenuti di libri in forma più leggera e di rapida assimilazione non risale forse a esperimenti ormai vecchi di quasi cent’anni come il Reader’s Digest?

[ illustrazione: foto di Henri Cartier-Bresson ]

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CITTÀ, COMPLESSITÀ, CULTURA, ECONOMIA

La manhattanizzazione di Londra

Un articolo del New York Times descrive un fenomeno preoccupante: la fuga dalla città di Londra. Si tratta di un esodo paradossale, soprattutto se letto alla luce di un dato tangibile: nel corso del 2012, ben 133 miliardi di sterline sono stati investiti in proprietà immobiliari cittadine. La maggior parte di questo denaro non proviene tuttavia da cittadini inglesi, ma da facoltosi investitori stranieri. Ecco svelato il paradosso: i nuovi ricchi, in gran parte stranieri, stanno costringendo la classe media cittadina – ma anche i “vecchi ricchi” – ad abbandonare la città.

Fuggire da Londra diventa per molti l’unica soluzione praticabile, per la difficoltà nel trovare un alloggio e a causa del costo della vita (levitato in proporzione agli standard imposti dagli abitanti più ricchi). A ciò si aggiunge anche una questione meno evidente ma prospetticamente più preoccupante, cioè quella relativa alla tassazione dei nuovi ricchi. Se questi ultimi non hanno residenza in Gran Bretagna, di fatto non vengono tassati; questo significa che i fondi per i servizi pubblici cittadini saranno sempre meno, pur a fronte di una popolazione cresciuta del 14% circa negli ultimi dieci anni. Per le giovani generazioni e per l’istruzione le notizie non sono buone: difficilmente sorgeranno nuove scuole e le classi di quelle esistenti dovranno accogliere sempre più studenti.

Londra sembra seguire, con sue proprie modalità, il processo di “manhattanizzazione” di cui è vittima New York. Se per la città americana è chiaro che l’operato del sindaco deve principalmente confrontarsi con questo tema, mantenere viva la cultura autoctona appare una priorità anche per Londra.

[ illustrazione: Untitled di Dieter Roth ]

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MUSICA, STORIE

Jason Everman: dal grunge all’oblio, una lezione sul successo

Jason Everman è stato una meteora della musica grunge, transitata – e cacciata – sia dai Nirvana che dai Soundgarden prima di intraprendere una carriera militare che l’ha portato a prestare servizio in Afghanistan. Oggi, 45enne e ormai congedato, è reduce dal conseguimento di una laurea in filosofia e pare non avere grandi aspirazioni se non quella, forse, di fare il barista.

Leggendo la sua storia – ottimamente scritta per il New York Times da Clay Tarver (già chitarrista nella band Chavez) – colpiscono due temi, strettamente correlati. Il primo è quello del trovarsi al posto giusto al momento sbagliato: appena dopo l’uscita di Everman, i Nirvana vendono 30 milioni di copie con l’album Nevermind e i Soundgarden vincono un doppio disco di platino con Superunknown. Il secondo tema è l’attitudine, per certi versi controintuitiva, di Everman stesso, che in chiusura di articolo afferma che ciò che più gli interessa è in fondo essere normale, anonimo.

I 15 minuti di successo di warholiana memoria vennero parafrasati negli anni ’90 dal musicista e artista performativo Momus, il quale vaticinò che nell’era del web ognuno sarebbe stato famoso per 15 persone. Benché strumenti come Twitter confermino la bontà della previsione, il caso di Everman dimostra come nella società occidentale persista, al di là del desiderio di celebrità, anche quello di sparizione.

[ illustrazione: i Soundgarden nel 1990, Everman primo a destra ]

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