ANTROPOLOGIA, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, MARKETING

Il teorema del caffè: domanda e offerta in tempi di crisi

Qualche anno fa in internet era molto popolare un video sulle differenze culturali realizzato da Bruno Bozzetto e intitolato “caffè”. Il divertente clip metteva in luce, a fronte della semplice richiesta di caffè di un generico cittadino europeo, le miriadi di sfaccettature che un italiano è in grado di ideare per soddisfare il suo bisogno di caffeina. Fra un “macchiato caldo ristretto” e un “americano decaffeinato in tazza grande (con acqua a parte)” esiste un universo di possibilità che solo la nostra nazione è in grado di esplorare, comprendere e apprezzare. Pensando forse a questo clip – nonché alla celeberrima scena di Totò e Peppino in Totò e la banda degli onesti (1956), il consulente e docente universitario Paolo Iacci pubblica oggi un piccolo libro che si intitola Il teorema del caffè. Il paradosso che regola l’impresa (2014).

Se è vero che, in una società caratterizzata da un grado di sviluppo maturo e “sofisticato”, i bisogni tendono a divenire sempre più personalizzati ed elevati (ovviamente in relazione alle disponibilità economiche di ciascuno), questo fenomeno è soggetto in tempi di crisi a un ulteriore sviluppo. Secondo il “teorema” elaborato da Iacci, quanto ha luogo è una ulteriore crescita, pur in scarsità di risorse, delle richieste di originalità, innovazione e individualizzazione. In aggiunta a ciò, l’effetto della concorrenza – e del reciproco ritrovarsi in una situazione in cui vige l’ormai classico “fare di più con meno” – alza ulteriormente la posta in gioco, generando un’offerta ancora più ricca ed esclusiva. Il paradosso del “teorema del caffè” ci dice quindi che, lungi dall’accontentarsi di poco, in tempi di crisi i consumatori diventano ancor più selettivi ed esigenti. Non è solo un tema di qualità vs quantità, ma più in generale della ricerca di prodotti e servizi in grado di affermare uno status di “benessere” anche – e forse soprattutto – in tempi di crisi. Le imprese sono obbligate a tener conto del “teorema” e, conclude Iacci, a organizzare anche le proprie risorse interne per farvi fronte.

[ illustrazione: fotogramma dal film Totò e la banda degli onesti di Camillo Mastrocinque, 1956 ]

APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, CITTÀ, COLLABORAZIONE, COMPLESSITÀ, DECISIONE, DEMOCRAZIA, ECONOMIA, MANAGEMENT, METAFORE, MOBILITÀ

Meno regole, più responsabilità

La vicenda non rappresenta proprio una novità; suona piuttosto come la conferma di una tendenza ormai storicamente consolidata: a inizio 2015 anche Chicago inaugurerà, seguendo l’esempio di diverse città europee, una “shared street”, vale a dire una strada urbana priva di marciapiedi, corsie e segnaletica in cui i cittadini dovranno imparare a praticare l’auto-organizzazione.

I primi esperimenti orientati a una diversa gestione del traffico e della sicurezza urbana risalgono a ormai più di venti anni fa. Avanguardia di questa svolta nella mobilità è stata l’Olanda, nazione bike-friendly particolarmente attenta ai disagi generati dal traffico e capace di innestare un reale cambiamento culturale atto a evitarli. L’innovazione olandese è principalmente riconducibile al nome di Hans Monderman (1945-2008), ingegnere del traffico che già negli anni ’90 iniziò a praticare nella regione della Frisia – e in particolare nella cittadina di Drachten – l’idea di responsabilizzazione urbana che oggi giunge fino agli USA.

Come nota un articolo di «Pagina 99», quanto verrà chiesto ai cittadini di Chicago è di rinunciare a una regolamentazione del traffico eterodiretta, al fine di abbracciare una condotta di continua negoziazione delle precedenze e dunque dell’attenzione dedicata agli spostamenti cittadini. Faticoso, certo, ma sembra valerne davvero la pena: le statistiche provenienti dall’Olanda e dagli altri luoghi in cui le “shared street” sono già in uso parlano di un netto calo degli incidenti e di un generale miglioramento della mobilità.

«You’re not stuck in the traffic, you’re traffic!», sostiene un mantra popolarizzato negli ultimi anni tanto nel campo della viabilità cittadina quanto, come metafora, nel pensiero manageriale e organizzativo. In tema di riflessioni metaforiche sul tema della responsabilizzazione in contesti aziendali, a rendere particolarmente simbolici gli esempi delle “shared street” è anche l’avvallo di una teoria sulla compensazione del rischio nota come “effetto Peltzman” (dal nome dell’economista – guarda caso di Chicago – che per primo la tematizzò).

Ogni qual volta ci si sente al sicuro all’interno di un sistema di regole,  si diventa – nota Peltman – molto meno cauti. Superficialmente attenti a rispettare le norme ma, di fatto, proni a infrangerle. Al contrario, una situazione che enfatizza il rischio percepito porta naturalmente a generare un’assunzione di responsabilità collettiva. Lungi dall’essere utile soltanto a chi si occupa di mobilità cittadina, l’effetto Peltman riguarda qualsiasi azienda in cui la dialettica fra norma e responsabilità non sia giunta a un adeguato livello di sintesi.

[ illustrazione: Alberto Sordi in un fotogramma dal film Il vigile di Luigi Zampa, 1960 ]

DECISIONE, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, MARKETING, METAFORE

Il bluff come strategia manageriale

Durante la prima guerra mondiale, le forze degli Alleati escogitarono un modo per contrastare gli Imperi Centrali che non implicava l’uso della forza bruta ma dell’ingegno. Nacquero così i cosiddetti “dummy tank”, vale a dire falsi carri armati realizzati con strutture in legno coperte da teli dipinti per simulare l’aspetto dei mezzi originali. I dummy tank vennero utilizzati per ingannare le flotte aeree nemiche, mostrando loro forze di terra particolarmente numerose, ma solo in apparenza. Sorta di cavallo di Troia alla rovescia, il dummy tank prese rapidamente piede presso gli eserciti di ogni nazione e vide il suo uso consolidarsi durante il secondo conflitto bellico mondiale, anche nella forma inversa di carro armato mimetizzato come semplice camion. È a tutt’oggi un espediente utilizzato dalle forze armate di tutto il mondo.

La strategia del bluff di cui il dummy tank si fa simbolo non è esente da implicazioni manageriali. Spesso, soprattutto nel campo del marketing, saper bluffare rappresenta una competenza cruciale per rivolgersi al mercato con il giusto tempismo. Per trovare esempi di questa condotta non è necessario scavare troppo indietro nel tempo né pensare ad aziende misconosciute. È sufficiente tornare al 9 gennaio 2007, giorno in cui sul palco del Moscone Center di San Francisco, Steve Jobs presentò la più recente novità Apple, cioè l’iPhone. Non molti sono a conoscenza del fatto, descritto in un articolo del «New York Times» di qualche tempo fa, che il lancio di questo prodotto rappresentò un azzardo condotto dall’allora CEO di Apple. Nelle sue mani, durante lo speech di presentazione, c’era un prototipo che era poco più di un bluff, un”dummy tank” credibile quanto al suo guscio ma con gravi problemi hardware e software. Ciononostante, un progetto durato lunghi anni e costato circa 150 milioni di dollari meritava di essere sostenuto con un’audace scommessa. L’aspettativa generata dalle parole di Jobs necessitò di essere sostenuta dall’alacre lavoro del team di tecnici Apple, che dovettero lavorare duramente per far sì che l’iPhone giungesse al mercato con caratteristiche all’altezza di quanto il suo pubblico era ormai tenuto ad aspettarsi.

Di nuovo in tema di relazioni tra business e arte del bluff, un recente articolo di «Fast Company» ha chiamato in causa il gioco del poker come ispirazione per strategie da giocare nel mondo del lavoro. Pare che l’ampia manualistica dedicata a questo gioco d’azzardo rientri fra le letture preferite dai giovani imprenditori della Silicon Valley, che si ispirano agli insegnamenti di giocatori come Phil Hellmuth Jr., nove volte campione mondiale di poker. Il suo principale consiglio? Bluffare è una vera e propria strategia, non una scappatoia. Per questo va affrontato in maniera ponderata, utilizzando economia di mezzi, attenzione al contesto e una giusta dose di pazienza.

[ illustrazione: dummy tank utilizzato dall’esercito americano durante la seconda guerra mondiale ]

APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, UFFICI

Corsi e ricorsi della flessibilità lavorativa, da Keynes a Richard Branson

I costumi manageriali si prestano ad analisi che possono rispondere, a seconda delle preferenze, a un’interpretazione evolutiva oppure ciclica. Un tema che ben si adatta a entrambe le chiavi di lettura è quello del work / life balance. Dall’introduzione delle otto ore lavorative alle keynesiane Possibilità economiche per i nostri nipoti, fino a giungere ai più contemporanei dibattiti sullo smart working, il tema affiora dal dibattito manageriale con periodica regolarità.

Il caso più recente è quello di Carlos Slim, magnate delle telecomunicazioni messicane – e uno degli uomini più ricchi del mondo – che propone, ispirandosi a Larry Page di Google, un modello lavorativo basato su tre giorni di lavoro alla settimana. Subito gli fa eco la Virgin di Richard Branson, che inizia ad applicare in GB e negli USA una politica di orario settimanale che concede più libertà ai propri addetti. Grande entusiasmo, ma funzionerà? Un esempio tratto dal recente passato può aiutare a considerare il tutto con la giusta prospettiva.

A partire dal 2003 Best Buy, il più grande rivenditore al dettaglio di elettronica di consumo negli Stati Uniti, è stato teatro di una piccola rivoluzione nel segno della flessibilità lavorativa. Ne sono state autrici due addette del settore HR dell’azienda, Cali Ressler and Jody Thompson. Grazie alla loro iniziativa, un nuovo vocabolo è entrato nel lessico aziendale: ROWE, acronimo di Results-Only Work Environment. Portando alle estreme conseguenze i principi base del lavoro per obiettivi, Ressler e Thompson hanno formulato una risposta a una domanda ricorrente in qualsiasi organizzazione: cosa accadrebbe se gli impiegati potessero lavorare come meglio credono sugli obiettivi loro assegnati?

Una maggiore libertà operativa nel raggiungimento dei risultati attesi ha un’immediata implicazione, vale a dire la possibilità di svincolare il lavoro dall’asfissiante – e poco efficiente – logica della presenza. L’unico modo per applicare con successo il ROWE è basare le relazioni lavorative sulla fiducia: un manager deve gestire il lavoro, non le persone; queste ultime, da parte loro, devono dar prova di una matura assunzione di responsabilità. Tutto ciò è stato formalizzato da Ressler e Thompson nel testo Perché il lavoro fa schifo e come migliorarlo (2008).

Il modello ROWE è stato applicato in Best Buy con successo per alcuni anni, passando al vaglio delle analisi accademiche e, soprattutto, registrando tassi di produttività direttamente proporzionali al calo del turnover. E sul lungo periodo? A distanza di dieci anni, con l’arrivo di un nuovo CEO – e grosso modo in parallelo con le impopolari scelte anti-telelavoro della Yahoo di Marissa Mayer – Best Buy è tornata alla più classica delle applicazioni del lavoro in presenza. Corsi e ricorsi delle mode manageriali.

[ illustrazione: fotogramma da Office Space di Mike Judge, 1999 ]

CAMBIAMENTO, COMPLESSITÀ, CONCETTI, MANAGEMENT

La capacità negativa, risorsa manageriale per il cambiamento

Quella del cambiamento indotto e controllato, per gli addetti ai lavori change management, è una pratica manageriale formalizzata – e brillantemente commercializzata – negli anni ’80 dalla società di consulenza americana McKinsey. Tale disciplina gestionale è stata nel corso del tempo introiettata dal mondo del business a tal punto da essere percepita come una “naturale” componente del lavoro manageriale. Negli anni più recenti, la sua crescente relazione con il concetto di complessità – forse la più popolare vulgata socio-manageriale degli anni ’90-2000 – ha condotto a una reinterpretazione del ruolo di manager e leader che risulta, come recita il lessico aziendale, oggi più “sfidante” a fronte della generalizzata percezione di un contesto economico sempre più imprevedibile e caotico.

Negli ultimi tempi si è molto parlato, in tema di strumenti interpretativi messi al servizio del change management, del concetto di “capacità negativa”. Curiosamente, l’espressione ha un’origine letteraria riconducibile al poeta inglese John Keats (1795-1821). In un suo verso, la capacità negativa viene descritta come l’attributo dell’artista capace di elevarsi con spirito saggio e distaccato al di sopra delle difficoltà mondane. Fu lo psicoanalista inglese Wilfred Bion (1897-1979) a rifarsi a Keats per definire il concetto in ambito psicologico e propiziarne la successiva diffusione nel mondo manageriale. Il suo principale tratto di interesse consiste nella capacità di tenere conto delle implicazioni emotive che qualsiasi processo di cambiamento – autodiretto o eterodiretto – comporta.

Per comprendere a cosa ci si riferisce parlando di capacità negativa bisogna anzitutto soffermarsi sul sostantivo “capacità”. Più che come sinonimo della parola “competenza”, esso va inteso come rimando alla capienza spaziale e dunque metaforicamente a un vuoto – ecco svelato anche il senso dell’aggettivo “negativa” – che implica disponibilità all’accoglienza. Il manager che esercita capacità negativa è dunque colui il quale è in grado di concedere spazio alle emozioni contrastanti generate da una situazione di cambiamento e di “digerirle” per conto dell’intero sistema di relazioni lavorative in cui è coinvolto.

La capacità negativa non compie tuttavia appieno il suo lavoro se non è in grado, una volta agito l’assorbimento del portato emotivo del cambiamento, di lasciare spazio a “capacità positive”, cioè più tradizionali strumenti manageriali rinvenibili nella “cassetta degli attrezzi” di chiunque sia chiamato ad assumersi la responsabilità di processi di apprendimento e cambiamento organizzativo.

[ illustrazione: dettaglio da Der Wanderer über dem Nebelmeer (1818) di Caspar David Friedrich ]

ANTROPOLOGIA, COLLABORAZIONE, COMUNICAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT, NEGOZIATO

Il malinteso, ovvero della possibilità del confronto

Il malinteso (2003) dell’antropologo Franco La Cecla è un testo che dovrebbe essere studiato da chiunque nutra un sincero interesse per il tema del confronto e del negoziato. La Cecla ci dona una ricca antropologia dell’incontro, di cui il malinteso costituisce il vero, insostituibile presupposto.

Il malinteso è l’emergenza di un’alterità che permette il riconoscimento di un’identità. È un territorio di frontiera nel quale il misunderstanding aiuta a concedere il tempo dovuto a un processo di understanding. L’avvicinamento è fisico, concreto, umano. Per questo La Cecla ridimensiona il ruolo normalmente attribuito alla comunicazione: quest’ultima è solo un surrogato del malinteso, è un “imperialismo” che impone un’uguaglianza solo apparente che appiattisce le originarie differenze di identità. In tema di comunicazione, particolarmente critica è la considerazione del fenomeno internet (La Cecla scrive nel 2003, quindi in era pre-Facebook), colpevole di anestetizzare le coscienze e far smarrire il fertile senso di ambiguità e irresolubilità che solo un incontro in presenza, faccia a faccia, è in grado di generare.

Ulteriore pregio di un libro pressoché perfetto è il rimando al nesso tra fraintendimento e improvvisazione:

«L’incontro è qualcosa di improvviso, un apparire dell’altro nella sua inaspettatezza, nella sorpresa, nell’inconciliabilità del suo essere come non me lo aspetto e come non me lo posso inventare».

C’è qualcosa di rischioso nel ricercare il malinteso, un azzardo appartenente alla stessa categoria di esplorazione che è propria dell’improvvisazione. Muoversi nel terreno non scritto dell’improvvisazione significa – parafrasando qui le parole di Keith Johnstone, pioniere del teatro improvvisativo – camminare all’indietro come un gambero, tenendo sott’occhio le personali esperienze e conoscenze del passato e inoltrandosi verso un futuro che si dispiega, in un processo di negoziazione col diverso, senza che possa essere sotto controllo. Questa disponibilità all’azzardo, nonché all’ulteriore inciampo, mostra come il confronto – insieme al malinteso che lo genera – appartenga al dominio dell’improvvisazione e sia regolato dalle medesime regole di attenzione al contesto e continuo riadattamento di sé.

[ illustrazione: fotografia dalla copertina del disco Wish you Were Here dei Pink Floyd, 1975 – design di  Storm Thorgerson ]

APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, COMPLESSITÀ, CREATIVITÀ, DEMOCRAZIA, ECONOMIA, JAZZ, LAVORO, MANAGEMENT, POLITICA

Tradizione e innovazione: la lezione collaborativa del jazz

Un contributo per «Il Sole 24 Ore» del filosofo Arnold I. Davidson prende spunto da un album dell’ottetto del compositore e sassofonista americano Steve Lehman, Mise En Abîme (2014), per formulare acute osservazioni sulla relazione fra tradizione e innovazione e democrazia e individualità.

In termini di tradizione, Lehman mostra di coltivare nei confronti del suo principale maestro, il sassofonista Jackie McLean, un rapporto che riconosce l’influenza delle radici esponendola all’urgenza dell’innovazione. Il rapporto con una tradizione è un processo di adesione culturale che necessita – come Davidson nota nel suo articolo – un rischioso rispetto, cioè una dinamica relazione fra continuità e discontinuità che dà vita a una reinterpretazione di senso. Il jazz è del resto il genere di musica più incline a una continua rilettura creativa del passato: per convincersene basta pensare ai cosiddetti standard, brani tradizionali – spesso risalenti agli anni ’30 e all’epoca d’oro di Broadway – che continuano a essere suonati in maniera sempre nuova e personale attraverso il passaggio da una generazione all’altra di musicisti.

Rispetto alla relazione tra individuo e collettivo, il disco di Lehman offre un intreccio di improvvisazioni personali che riesce a suonare pieno di diverse sfaccettature e insieme coeso. Non appena si ascoltano le prime note del disco, la musica di Lehman e del suo ottetto risulta subito estremamente complessa, proprio come qualsiasi autentica interazione sociale. Lehman aderisce alla lezione della musica “spettrale”, cioè un approccio armonico costruito sui timbri piuttosto che sulle tradizionali relazioni tonali. Questo modo di relazionarsi richiede ai musicisti una grande disciplina creativa in cui, come nota Arnold I. Davidson, la democrazia “di massa” cui siamo soliti pensare lascia spazio a una democrazia degli individui nella quale diventa possibile esprimere la propria voce all’interno di una ricca interazione sociale. Seguendo Davidson:

«La coesione ricercata non è quella dell’unità, ma una coesione interattiva, e più fragile, tra delle personalità singolari».

È questa la preziosa lezione di democrazia offerta dal jazz – e nello specifico dall’ottimo disco di Lehman – a qualsiasi organizzazione sociale.

[ illustrazione: l’orchestra di Count Basie, in primo piano Lester Young e Basie, 1945 ]

CINEMA, COMUNICAZIONE, MANAGEMENT, PERCEZIONE, TEMPO

Un film lungo 12 anni: Boyhood di Richard Linklater

Secondo il parere di molti, con Boyhood (2014) Richard Linklater ha realizzato il suo capolavoro. Di certo, i centosessantacinque minuti del film costituiscono un sontuoso sunto dei frammenti di americana quotidianità raccolti dal regista lungo un percorso ormai più che ventennale. La propensione per sceneggiature destrutturate, l’attenzione allo sviluppo dei personaggi, la sensibilità per i dialoghi che lo rende il “Rohmer americano”: chi ha imparato a riconoscere questi tratti di Linklater li ritroverà in Boyhood. E troverà quanto ha più fatto parlare del film, cioè un esperimento sul tempo mai portato al cinema prima d’ora. Dopo aver costruito una storia d’amore lunga diciotto anni con il trittico di Before Sunrise (1995), Before Sunset (2004) e Before Midnight (2013), Linklater concentra ora dodici anni di vita in un unico film. Si tratta ancora una volta di vita americana, ma soprattutto della vita dei protagonisti e degli attori che li interpretano. Il racconto di Boyhood riesce in un’impresa filmica di prim’ordine: raccontare una storia attraverso l’ordinarietà del tempo che passa, lasciando in secondo piano la straordinarietà degli eventi che da esso emergono.

Quanto alla sua dimensione progettuale, organizzativa ed economica, la realizzazione di Boyhood rappresenta una scommessa e un atto di fiducia nei confronti delle relazioni e del futuro. Nell’arco dei dodici anni di lavorazione si è girato in tutto per trentanove giorni, non più di tre-quattro all’anno. A fronte di un simile ritmo di riprese, nel corso del quale Linklater e i suoi attori principali hanno affrontato anche altri progetti, è stata un’amalgama particolarmente stretta di incertezza e fiducia a permettere al progetto di giungere a compimento. Linklater ha potuto fare affidamento fin dall’inizio su un eroico sostegno da parte della produzione, oltre che sull’opera di addetti alla fotografia e al montaggio che sono riusciti nell’impresa di rendere visivamente coeso e “naturale” un materiale visivo così esteso nel tempo. Quanto al rapporto con gli attori, il regista ha dovuto fare i conti con l’impossibilità di firmare contratti vincolanti su un ampio arco di tempo, riuscendo a costruire – soprattutto con il giovane Ellar Coltrane, il ragazzo protagonista del film – una forte relazione di stima. Pensando di nuovo ai dodici anni di lavoro, la capacità di presidiare il cambiamento e garantire una visione di insieme dimostrata da Linklater è espressione di doti di leadership che, al di là dei luoghi comuni sui registi factotum, non è scontato trovare su un set cinematografico.

[ illustrazione: still da Boyhood di Richard Linklater – 2014 ]

CONCETTI, CREATIVITÀ, LAVORO, MANAGEMENT, PAROLE, SOCIETÀ, STORIE, TEORIE

Di quella volta che l’esercito americano inventò la creatività

Un titolo somiglia a un amo: vive per catturare l’attenzione e per riuscirci non disdegna ricorrere all’inganno. In questo caso la menzogna è parziale, poiché parlare di una invenzione della creatività è fuorviante solo in termini assoluti. Trattandosi anzitutto di un’etichetta, il senso della parola creatività dipende dalle condizioni di contesto in cui di volta in volta viene usata. Un articolo del «New Yorker» dal titolo Creativity Creep si cimenta in una ricognizione di queste progressive reinvenzioni.

La nostra creatività, quella di cui parla la tanta letteratura oggi a essa dedicata, è riconducibile a un agire centrato sull’individuo. Di questi tempi nessuno si sognerebbe, come invece accaduto in epoche remote, di attribuire il merito di una buona idea all’ispirazione divina o qualsivoglia altro fattore esterno alla volontà umana. L’interiorizzazione della creatività inizia a prendere forma a partire dal Romanticismo, in particolare con l’idea di immaginazione. Samuel Coleridge (1772-1834) ne distingueva due tipi: da un lato un’immaginazione mondana, deputata a stilare piani e risolvere problemi; dall’altro un’immaginazione più nobile, motore di un’ispirata esperienza del mondo. L’influenza di questi due orientamenti – una creatività pratica e una contemplativa – ha continuato a essere paritaria fino al momento in cui qualcuno ha suggerito che privilegiare una delle due direzioni potesse essere decisamente utile.

Nel settembre 1950, nel contesto di un congresso dell’American Psychological Association, venne pronunciato un discorso destinato a esercitare enorme influenza in tema di creatività. Un oscuro psicologo di nome J. P. Guilford rese pubblico il resoconto delle ricerche da lui condotte durante la seconda Guerra Mondiale dietro mandato dell’esercito americano. Incaricato di escogitare un metodo efficace per selezionare nuove reclute per l’aviazione, Guilford fece ricorso alla categoria di creatività, costruendo una serie di test orientati alla produzione di idee e al cosiddetto pensiero divergente. Chiunque sia stato coinvolto in giochi che pongono domande del tipo “quanti usi alternativi sai trovare per questa penna / graffetta?” sa di cosa si parla. Il successo dei test di Guilford è da attribuirsi a due fattori: enfasi sulla misurabilità e orientamento a un prodotto. Se il contesto di Coleridge era permeato di Romanticismo, quello di Guilford risente, oltre che dell’ideologia militare, di almeno quattro decenni di organizzazione scientifica del lavoro. Nessuna sorpresa nel constatare come negli anni seguenti il principale campo di azione di questa nuova e pragmatica accezione di creatività sia diventato il mondo delle aziende.

Cosa sostiene, dunque, l’odierna vulgata della creatività? Che coltivare l’immaginazione nobile di Coleridge non è sufficiente. Bisogna essere in grado di concretizzare le proprie idee. Di produrre un output, per dirlo in termini aziendali. L’interiorizzazione di questa linea di pensiero – nota l’articolo del «New Yorker» – rende impossibile parlare di creatività senza prefigurare un prodotto. Da buoni membri della società dei consumi, non ci limitiamo a proiettare i nostri desideri su oggetti presentati come frutto di creatività, ma vogliamo andare oltre: viviamo l’anelito stesso alla creatività alla stregua di un meta-consumo, cioè come un modo per risalire lungo la catena che dal produttore giunge a noi consumatori. La tensione verso la realizzazione di questo bisogno non potrebbe essere più lontana dalla disinteressata esperienza del mondo di cui parlava Coleridge.

[ illustrazione: lo “zio Sam”, opera di James Montgomery Flagg – 1917 ]

APPRENDIMENTO, CREATIVITÀ, LAVORO, MANAGEMENT

L’ozio fa bene alla creatività

In pausa. Come l’ossessione per il fare sta distruggendo le nostre menti (2014) è un curioso piccolo libro. Il suo autore, l’americano Andrew Smart, rientra nei copiosi ranghi degli studiosi di scienze cognitive che si ostinano a volerci spiegare cosa succede nel nostro cervello quando siamo al lavoro. La peculiarità del testo di Smart è di collocarsi in una linea di pensiero che avversa tutti gli One minute manager e  Detto, fatto! prodotti negli ultimi 50 anni dalla letteratura managerial-efficientista americana. Smart si cimenta con questa impresa in nome del recupero del valore costitutivo dell’ozio per la creatività e l’efficacia lavorativa. Non si tratta di un tema esattamente nuovo, dato che i cosiddetti momenti “a-ha” generati dall’ozio – noti anche come “effetti eureka”, con in cima alla lista il classico esempio della mela di Newton – sono stati abbondantemente studiati dalla letteratura psicologica sulla creatività. E tuttavia il testo di Smart offre alcuni spunti che ne rendono decisamente consigliata la lettura.

Anzitutto, Smart rende nota ai suoi lettori la scoperta di un meccanismo cruciale per il funzionamento del cervello, la cosiddetta rete neurale di default. Quest’ultima si attiva quando oziamo e grazie a essa il cervello entra in una fase di relativa autonomia (da qui il titolo originale inglese del testo, Autopilot) che libera energie che favoriscono creatività e autocoscienza. I ritmi di vita orientati alla massimizzazione dell’efficienza, al multitasking, al life-hacking e ai “people analytics” vanificano tutto questo. Tenetelo presente la prossima volta che vi troverete a confrontarvi con l’ottimizzazione delle vostre ore lavorative quotidiane.

Il libro di Smart contiene poi una piccola chicca che sarà apprezzata da chiunque conosca il metodo di gestione della qualità Six Sigma (inventato da Motorola negli anni ’80) e lo trovi discutibile. Six Sigma, nota Smart, produce nelle aziende lo stesso effetto che ha sul corpo umano l’epilessia. Durante una crisi, le variazioni fra i neuroni cerebrali vengono ridotte, generando un effetto di “ipersincronizzazione” che genera gravi danni per la mente e per la capacità di pensiero. A livello organizzativo, Six Sigma agisce nello stesso modo, inducendo una ipersincronizzazione che ha una conseguenza grave per qualsiasi azienda: omogeneizzare i contributi delle persone e ridurre drasticamente le insorgenze di comportamenti creativi e innovazioni, come testimoniato da diversi casi aziendali di aziende che hanno “esagerato” con Six Sigma (Smart cita quello di 3M). A onor del vero va anche notato come le persone con una maggiore attività nella rete neurale di default, dunque maggiormente creative e disposte all’innovazione, risultano essere quelle soggette a schizofrenia. Interessante è dunque riportare anche questo esempio a un livello organizzativo e notare come le aziende più innovative saranno quelle pronte a “sognare” assumendosi i rischi di una possibile deriva schizofrenica.

Non da ultimo, In pausa ha il merito di accompagnare le sue osservazioni scientifiche con solidi riferimenti alla storia del pensiero occidentale. Smart sa bene di non essere il primo a parlare dei benefici dell’ozio e dunque non manca di menzionare autori come Samuel Johnson (1709-1784), che fra il 1758 e il 1760 pubblicò una serie di saggi nota sotto il titolo di The Idler (l’ozioso), e Rainer Maria Rilke (1875-1926) , a più riprese citato da Smart come “maestro d’ozio e creatività”.

[ illustrazione: John William Godward, Dolce far niente, 1904 ]