APPRENDIMENTO, EPISTEMOLOGIA, IMMAGINI, LETTERATURA, PAROLE, PERCEZIONE, RAPPRESENTAZIONE

Il mondo così com’è

Conoscere il mondo è un’immodesta pretesa, aggravata dall’incapacità di fare a meno delle parole. Ricorrere alla loro mediazione significa applicare etichette atte a riconoscere e trasmettere esperienze altrimenti condannate alla soggettività. Ma cosa accade quando la relazione si inverte, cioè quando non siamo noi ad apporre etichette alle cose, ma le cose stesse a emanare parole? È quel che si chiedono, nella graphic novel Il mondo così com’è (2014), Massimo Giacon e Tiziano Scarpa.

Alfio Betiz, protagonista del racconto, è affetto da una curiosa quanto grave patologia neurologica, causa di allucinazioni “grafiche” la cui forma è quella di messaggi – resi nelle tavole di Giacon con classici balloon fumettistici – emanati dalle cose che lo circondano:

«Il mondo gli apriva un varco per svelargli ciò che pensavano le cose. A volte erano pensieri profondi, a volte stupidaggini belle e buone, ma non era una rivelazione anche questa?»

Il mondo così com’è si dà a vedere ad Alfio Betiz visualizzando il pensiero tacito delle cose. Avvicinarsi ai segreti dell’inanimato lo porta in breve a distanziarsi dagli affetti delle persone. Fa eccezione la dottoressa Zedda, del cui interesse non è dato comprendere appieno la natura: il suo amore è volto ad Alfio o alla di lui malattia? Mentre ci si pone questa domanda, le condizioni della malattia peggiorano e, forse per contrappasso rispetto all’eccesso di visione sul mondo loro concesso, gli occhi di Alfio iniziano progressivamente a perdere funzione, fino a giungere alla cecità. Avvicinandosi alle sue ultime pagine, il tono del racconto diventa tragico, facendosi riflessione sull’attaccamento alla vita, alle relazioni, alle cose:

«Come mai ci affezioniamo alle cose solo quando stiamo per perderle?»

[ illustrazione: particolare di una tavola da Il mondo così com’è (2014) di Massimo Giacon e Tiziano Scarpa ]

ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, CREATIVITÀ, DECISIONE, DEMOCRAZIA, EPISTEMOLOGIA, LAVORO, MANAGEMENT, POLITICA, SOCIETÀ

Creatività: finalmente un ottimo libro (scritto nel 1924)

«Il problema della democrazia è quello di come rendere la nostra vita quotidiana creativa».
Mary Parker Follett

Su Wikipedia ancora nessuno ha pensato di aprire una pagina in italiano dedicata a Mary Parker Follett (1868-1933). Questo particolare la dice lunga sulla scarsa fama di cui gode in Italia questa pensatrice americana, il cui contributo è stato centrale per lo sviluppo del pensiero manageriale delle origini. Il confronto con la psicologia comportamentale e con quella della Gestalt permisero a Follett di elaborare un pensiero originale nel quale le logiche funzionalistiche e gerarchiche dell’organizzazione del lavoro sono rilette secondo una dinamica di valorizzazione dell’elemento umano che anticipa – e per molti versi supera – diversi elementi tematizzati dallo Human Resources Movement.

Il suo testo Esperienza creativa (1924) offre una lettura del tema della creatività di grande valore civile. Anzitutto, creatività non è cosa individuale ma relazionale. Il discorso di Follett sulla creatività è collettivo e sociale, ponendosi come presupposto per una vera democrazia. La creatività è integrazione di diversità e il tema della responsabilità e del confronto non sta nella risposta di un soggetto A a un soggetto B, ma nella relazione fra A, B e il contesto in cui entrambi si muovono. Tutti questi elementi sono dinamici, in continuo cambiamento. La loro relazione non avviene tramite un’entità astratta come la “mente”, ma in concreto, nel mondo, attraverso relazioni fisiche e motorie. La pratica della creatività è il processo di integrazione che scaturisce da questo incontro.

Follett dedica diverse pagine del suo saggio a un tema centrale per le organizzazioni contemporanee e più in generale per la società, quello del ruolo dell’esperto. La cieca fiducia che spesso viene conferita a chi è ritenuto in possesso di una conoscenza “esperta” rappresenta una delegittimazione della relazione di corresponsabilità e, di conseguenza, delle dinamiche alla base della creatività. Il presupposto erroneo di questo tipo di considerazione sta nel ritenere i fatti immutabili e le posizioni dell’esperto assolute. Ma, coerentemente con la dinamica di integrazione esposta da Follett, i fatti non potranno mai essere statici, né le interpretazioni oggettive. L’esperienza delegata non potrà mai prendere il posto di un’esperienza vissuta relazionalmente, dialetticamente. Ecco perché un’educazione al “buon uso” degli esperti, nei confronti dei quali il tema centrale è di nuovo quello del dialogo e dell’integrazione, è un presupposto fondamentale per una effettiva democrazia, tanto in ambito sociale quanto lavorativo.

[ illustrazione: Henry Matisse, La tristesse du roi, 1952 ]

ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, CREATIVITÀ, EPISTEMOLOGIA, SCRITTURA, TECNOLOGIA

Scrivere a mano serve ancora a qualcosa?

Un recente articolo del «New York Times» raccoglie e commenta le più aggiornate opinioni della neuroscienza riguardo lo scrivere a mano. Se il decadimento dello studio della calligrafia nelle scuole è un dato di fatto – che trova un ironico contraltare nella nuova “alfabetizzazione manuale” imposta alle dita di ragazzi e adolescenti da smartphone e tablet – , quel che soprattutto conta chiedersi è se scrivere a mano e a computer siano attività equivalenti rispetto alle capacità di ragionamento e apprendimento.

Partiamo dai più piccoli: quando un bambino scrive usando una penna, produce parole più velocemente che con una tastiera. Non solo, afferma la neuroscienza: è anche in grado di recepire più idee. Passando alle aule universitarie, chi prende appunti su carta è uno studente più produttivo rispetto a chi lo fa con un computer. Si badi: nonostante quanto l’intuito potrebbe suggerire, la posizione di svantaggio del computer non ha molto a che fare con le distrazioni offerte da una connessione a internet. Ciò di cui il battere sui tasti pare privo è la relazione con un processo di riflessione e manipolazione concettuale che solo lo scrivere a mano è in grado di innescare.

Pensare con carta e penna attiva aree del cervello legate all’apprendimento che restano “spente” quando lavoriamo con un computer; aiuta a memorizzare, a organizzarsi, a sviluppare senso del controllo. La materializzazione del pensiero resa possibile dallo scrivere a mano rappresenta dunque una risorsa fondamentale e a oggi insuperata per lo sviluppo cognitivo e per la capacità di apprendere.

[ illustrazione: foglio dal manoscritto di Elsa Morante per L’isola di Arturo, edito nel 1957 ]

ANTROPOLOGIA, EPISTEMOLOGIA, FILOSOFIA, LAVORO, TECNOLOGIA

La vergogna prometeica: l’esperienza della tecnica secondo Günther Anders

Nessun mito esprime bene la relazione fra uomo, tecnica e sapere quanto quello di Prometeo. Il filosofo tedesco Günther Anders (1902-1992) ne ha costruito una fondamentale rilettura nel primo volume – datato 1956 – della sua opera L’uomo è antiquato.

Anders parla di “vergogna prometeica” per descrivere la peculiare sensazione ispirata dai più mirabili raggiungimenti della tecnica. L’uomo si sente inferiore alla grande qualità di oggetti che sfuggono al suo controllo benché da lui stesso creati.

Quando è la tecnica a prevalere, decadono tanto la competenza dell’uomo a decidere da sé i suoi problemi quanto l’esistenza stessa di problemi che non siano risultato di un calcolo tecnico. Un ulteriore risvolto della vergogna prometeica è la percezione della propria non-responsabilità di fronte alla tecnica, ovvero l’impossibilità di farsi carico di un’abilità di risposta per qualcosa che va oltre sé.

Con particolare riferimento al senso di alienazione tipico della produzione industriale, Anders nota come l’uomo non riesca più a provare orgoglio per i risultati della tecnica, perché questi ultimi sono frutto di una frammentazione di processi produttivi impossibile da abbracciare con uno sguardo che riconosca e valorizzi le tracce del lavoro individuale.

[ illustrazione: particolare da William Blake, The ancient of days, 1794 ]

CREATIVITÀ, EPISTEMOLOGIA, INTERNET, LETTERATURA, SCRITTURA, TECNOLOGIA, TEMPO

Il “realismo istantaneo” del web

Il romanzo, così come l’abbiamo conosciuto, rischia di sparire. A metterne a repentaglio l’esistenza sarebbe, tanto per cambiare, il web, origine di praticamente ogni male contemporaneo. Siamo di fronte a una concreta minaccia, o si tratta dell’ennesimo bluff giornalistico? Tanto per cominciare, il tema non è esattamente una novità: la crisi del romanzo viene discussa da così tanto tempo – circa cento anni, nota lo scrittore inglese Will Self – da essere diventata un topos culturale. È se è pur vero che il tratto caratteristico dell’epoca contemporanea è l’allergia alla complessità, in tutte le sue manifestazioni estetiche, quanta parte di questo stato di cose è da imputare al famigerato web? È lo stesso Self, in un articolo per «The Guardian», ad analizzare la questione.

Come dedicare tempo di qualità alla lettura? Staccarsi da internet, spegnere la tv, zittire la radio, sfuggire al continuo chiacchiericcio che ci circonda. Disconnettersi è oneroso, ma fattibile. Ma cosa può succedere se, una volta immersi nella lettura, scopriamo che il testo con cui ci stiamo confrontando è frutto di un lavoro che non è riuscito a sfuggire alle distrazioni da noi faticosamente annullate? Quel che differenzia lo scrittore di oggi da chi l’ha preceduto, in epoca pre-internet, è la presenza di un surrogato immaginativo sempre a portata di mano. Sei in difficoltà nel trasformare in parole la sensazione di un’immagine, di un suono, di un gusto? Niente paura: basta cercare sul web, infinito deposito di “realismo istantaneo”, una soluzione pronto uso. Ecco la radicalità del punto di vista di Self: il web minaccia il romanzo non tanto perché distrae i lettori, ma perché impigrisce la fantasia degli scrittori.

[ illustrazione: Mario Schifano, 1970 ]

CINEMA, EPISTEMOLOGIA, FILOSOFIA, PERCEZIONE

Fidarsi delle immagini

Martin, cieco dalla nascita, scatta fotografie di tutto ciò che lo circonda. Ne chiede poi una descrizione alle persone che incontra, per quanto sia convinto che gli altri non facciano che mentirgli. Il suo più grande dubbio riguarda le descrizioni degli ambienti della sua infanzia restituitegli da sua madre. Di questi ambienti non gli resta che la muta prova di una fotografia, un’istantanea del giardino di fronte a casa sua che Martin ha conservato senza mai averla mostrata a nessuno. In una sorta di ribaltamento della posizione di Roland Barthes in La camera chiara (1980), Martin assegna all’immagine mai vista un valore di affettività negata, cioè il ruolo di un punctum che non ha mai potuto materializzarsi in mancanza di fiducia nei confronti del valore ontologico dell’immagine.

Istantanee di Jocelyn Moorhouse (Proof, 1991) è un film che parla di fiducia, nelle persone ma soprattutto nelle immagini. La conclusione del film vede finalmente confermato, da parte dell’amico più caro, il racconto della madre di Martin. La fotografia conservata mostra esattamente quel che le parole della donna avevano detto. La fiducia è ritrovata, l’immagine dice la realtà. Secondo l’interpretazione del filosofo Julio Cabrera in Da Aristotele a Spielberg. Capire la filosofia attraverso i film (1999), ciò che alla fine Martin ottiene è una conferma morale dell’esistenza del mondo, una sorta di prova cartesiana che tuttavia non discende dall’evidenza interiore del cogito ma piuttosto dal fuori, dal mondo descritto attraverso un’immagine.

Si tratta di avere fiducia nelle immagini, dunque. E anzitutto capire perché a certe crediamo e ad altre no. Le istantanee, a rischio praticamente nullo di manipolazione, sono per tradizione immagini di cui ci si può fidare, impronte del reale su carta fotografica. Molto meno ci fidiamo di altri tipi di immagini, in particolare di quelle digitali. È senz’altro la parentela con il computer, denunciata dall’inevitabile tramite dello schermo/monitor, ad accomunare la maggior parte delle immagini con cui abbiamo a che fare oggi, ombre mutevoli e sfuggenti. Tuttavia, poiché a essere etichettati come “new media” sono soprattutto i media con i quali non siamo cresciuti, la mancanza di fiducia nei confronti di queste immagini è a ben vedere relativa, generazionale e affettiva.

Comprendere la relazione che ci lega a diversi tipi di immagini significa affrontare con rinnovata consapevolezza i rapporti interpersonali. Il problema delle immagini è anzitutto un tema culturale e antropologico, che mette in gioco il nostro modo di guardare al mondo. Non restare imprigionati fra le tante immagini che pulsano sui nostri monitor è una necessità urgente tanto quella di far fronte alle attuali forme di dislocazione e frammentazione che trasformano i rapporti sociali.

[ illustrazione: fotogramma da Proof di Jocelyn Moorhouse (1991) ]

BIGDATA, EPISTEMOLOGIA, SCIENZA

Google Flu Trends e la fallibilità dei big data

Il libro Big Data (2013) di Viktor Mayer-Schönberger e Kenneth Cukier dedica un significativo numero di pagine al momento in cui, qualche anno fa, Google ha scoperto che possedere la più grande concentrazione al mondo di stringhe di ricerca – quel che ognuno di noi digita nel campo “cerca” del browser – equivale a poter esercitare un enorme potere predittivo sullo sviluppo di alcuni trend, fra cui quelli influenzali. Da allora, Google Flu Trends è diventato l’esempio portabandiera del movimento dei big data.

Un articolo di «Science» sembra oggi mettere in crisi questo ruolo. Anzitutto, nota l’articolo, Google Flu Trends ha completamente mancato di rilevare una influenza di non secondaria importanza, l’A-HIN1 del 2009. In secondo luogo, in seguito alla revisione del software avvenuta nello stesso 2009, i successivi risultati dell’algoritmo hanno continuato – e continuano – a generare previsioni dei flussi influenzali che risultano sovrastimate in termini di diffusione e durata.

Attestare la fallibilità di Google Flu Trends è per «Science» ghiotta occasione per mettere in luce quella che definisce la “hubris” dell’ideologia dei big data, cioè la pretesa che essi possano giungere a sostituire completamente i tradizionali metodi di raccolta e analisi di dati. Ridimensionare i big data, considerandoli strumento integrativo ad altri e non la “palla di cristallo” su cui molti entusiasti hanno creduto di poter mettere le mani, rappresenta senz’altro un modo più sensato per farne uso.

[ illustrazione: pubblicità Kleenex della fine degli anni ’20 ]

ARTE, EPISTEMOLOGIA, FILOSOFIA, RAPPRESENTAZIONE, SEGNI

Mike Kelley, Marcel Duchamp e la natura metaforica di ogni conoscenza

«Da un lato i ready-made reagiscono contro la nozione comune dell’arte come facciata, ossessionata dalla rappresentazione, presentando un oggetto “reale” in quanto opera d’arte. Dall’altro, riducono l’idea modernista dell’arte come materialmente autoreferenziale a un’assurdità, poiché è impossibile per questi oggetti “reali”, una volta presentati nel contesto dell’arte, mantenere il loro status di “realtà”».

Così si espresse sui ready-made Mike Kelley (1954-2012), artista americano fra i più sottovalutati degli ultimi anni. A portare chiarezza sulla sua opera e sul suo pensiero è oggi il testo Di tutto un pop. Un percorso fra arte e scrittura nell’opera di Mike Kelley (2014) di Marco Enrico Giacomelli, che ha il merito di ricostruire un’interpretazione del lavoro di Kelley che si lascia guidare soprattutto dai suoi numerosi scritti sull’arte.

Rispetto ai ready-made Kelley mette in luce qualcosa di non scontato. Prendendo le mosse dal comune modo di osservarli, cioè quello della “cosa che diventa arte” nel momento in cui entra in un museo, Kelley fa un passo in avanti e sposta la questione sul piano ontologico e conoscitivo. Il tema non è infatti solo quello del diverso modo di guardare a un oggetto a seconda della sua contestualizzazione. Quel che è in gioco è l’opportunità stessa di poterlo conoscere. L’opera degli artisti che hanno lavorato con i ready-made, su tutti ovviamente Marchel Duchamp (1887-1968), porta con sé un valore filosofico profondo, che va ben al di là della provocazione.

Il ready-made mette sotto scacco la pretesa autoreferenzialità degli oggetti e quindi l’ambizione di poterne acquisire una conoscenza oggettiva, diretta, immediata. Non è facile sbarazzarsi dell’ossessione della rappresentazione di cui Kelley parla. E questo vale in arte come, più in generale, per ogni conoscenza. Estremizzando, ed esprimendo la questione in termini “platonici” che la avvicinano anche all’opera di un artista concettuale come Joseph Kosuth, si potrebbe dire che nessuna conoscenza è in fondo possibile se non per via mediata, cioè attraverso una rappresentazione. In altri termini, ogni conoscenza è metaforica. Con buona pace di chiunque ritenga possibile conoscere la “realtà”.

[ illustrazione: Marcel Duchamp e una delle sue Roue de bicyclette ]

ARTE, COLORI, CULTURA, EPISTEMOLOGIA, SOCIETÀ

A chi fa paura il colore?

In Cromofobia. Storia della paura del colore (2000) l’artista e scrittore David Batchelor costruisce un’accurata indagine storica della “paura” del colore. Si tratta di una tendenza trascurata e spesso considerata in maniera riduttiva e semplicistica ma, come mostrato da Batchelor, estremamente radicata.

Fin dalle origini del pensiero Occidentale, il colore ha subito pregiudizi, emarginazioni, rifiuti. Fondamentalmente, la paura si riduce a un elemento: la minaccia di venire contaminati e corrotti da qualcosa che appare inconoscibile. L’analisi di Batchelor mette in luce due modalità secondo le quali la paura del colore ha preso forma:

«Nella prima, il colore viene considerato come proprietà di un qualche corpo “estraneo”: di solito il femminile, l’orientale, il primitivo, l’infantile, il volgare, il bizzarro o il patologico. Nella seconda, il colore viene relegato al regno del superficiale, del supplementare, dell’inessenziale o del cosmetico. Nell’una, il colore è guardato come alieno e perciò pericoloso; nell’altra, è percepito soltanto come una qualità secondaria dell’esperienza, e quindi non meritevole di seria considerazione».

[ illustrazione: Piero Manzoni, Achrome – 1958 ]

APPRENDIMENTO, EPISTEMOLOGIA, PERCEZIONE

Sull’utilità e il danno del sapersi concentrare

«Part of normal human development is learning to notice less than we are able to».

On Looking (2013) di Alexandra Horowitz, il cui sottotitolo è “Eleven walks with expert eyes”, è un’affascinante narrazione multisensoriale e sinestetica agita tramite il confronto con alcuni “esperti” di specifiche forme di percezione.

Il racconto di Horowitz prende le mosse da un’uscita in città con il proprio figlio e si chiude portando a spasso il proprio cane, passando per passeggiate accompagnate dallo sguardo di persone abituate a studiare i suoni, le ere geologiche, gli insetti e diversi altri aspetti della nostra esperienza. Presa isolatamente, ognuna di queste esperienze risulta tanto specifica quanto parziale. Al contrario, la loro giustapposizione contribuisce a costruire uno spettro percettivo sorprendentemente vasto.

Il “guardare” cui il titolo del testo allude ha – e insieme non ha – a che fare con gli occhi. Se quella dello sguardo è indubitabilmente l’egemonia percettiva cui la nostra esperienza è quotidianamente sottoposta, le esperienze narrate dall’autrice mostrano come sia possibile guardare in molti modi diversi e, sopratutto, farlo anche facendo a meno degli occhi.

Altro tema centrale del testo è quello dell’attenzione. A questo riguardo Horowitz mostra come concentrarsi su qualcosa non significhi altro che ridurre in maniera deliberata (ma non sempre consapevole) la ricchezza percettiva di cui siamo naturalmente dotati finalizzandola a un unico scopo la cui efficacia va di pari passo con la limitatezza.

Imparare a concentrarsi è una tanto necessaria quanto discutibile conquista del nostro percorso di crescita. Detto in altri termini, diventare adulti significa acquisire un’abilità percettiva sempre più grande all’interno di un campo di osservazione sempre più piccolo. Sforzarsi di controvertire questa tendenza può rivelarsi un orientamento ricco di sorprese.

[ Particolare da un’inserzione pubblicitaria di un refrigeratore a gas Electrolux, 1932 ]