CAMBIAMENTO, FOTOGRAFIA, INNOVAZIONE, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

La fine della fotografia?

Interrogandosi sul senso del guardare oggi alla fotografia come campo di studio, l’artista e autore americano Trevor Paglen pone la questione in questi termini:

«La fotografia è forse divenuta così pervasiva che non ha più senso pensarla come una pratica o un campo di indagine a sé stante. In altre parole: la fotografia, intesa come tropo culturale dotato di senso, è forse finita».

Nonostante la ripetizione dell’avverbio dubitativo, quella espressa da Paglen è un’ipotesi tanto apocalittica quanto potenzialmente fondata. A renderla interessante è anzitutto la sua apparente contraddizione interna: come può la fotografia dirsi finita, proprio nel momento in cui ha raggiunto un’ubiquità storicamente priva di precedenti? Paglen risponde che questo è possibile perché la fotografia, molto semplicemente, sta diventando altro da sé. Si sta trasformando in qualcosa che ha sempre meno a che fare con l’intenzionalità e la ricerca del fotografo/reporter o del fotografo/artista e, al contrario, sempre più a che vedere con l’immediatezza con cui 350 milioni di fotografie vengono caricate ogni giorno su Facebook e – soprattutto – con la spersonalizzata autonomia con cui milioni di occhi digitali catturano continuamente immagini del nostro mondo.

Per dar conto di questa mutazione, Paglen propone di focalizzarsi sugli apparati che rendono possibile la fotografia e utilizzare per descrivere il “sistema” complessivo cui essi fanno capo l’espressione “seeing machines” (citando esplicitamente Paul Virilio ma evocando tacitamente anche l’era delle macchine di cui Moholy-Nagy è stato profeta). A detta di Paglen, quello delle “seeing machines” è un campo di studi ancora tutto da esplorare, per dar conto del quale le classiche riflessioni sulla fotografia di autori come Barthes, Sontag o Debord risultano inadeguate. Per iniziare – nel terzo di una serie di articoli di cui varrà la pena seguire i futuri sviluppi – Paglen pone l’attenzione su quelli che chiama “script”, cioè i “copioni” che guidano l’attività di ogni apparato legato alla cattura di immagini. Ogni apparato ha uno script che determina cosa esso intende o non intende fotografare, lasciando precise impronte nella società a livello culturale, economico e politico.

Queste riflessioni sulla trasformazione del medium fotografico e sulla sua apparente autonomia rispetto all’intenzionalità umana hanno più di una parentela con il concetto di “technium” messo a punto dal fondatore di «Wired» Kevin Kelly e teso a descrivere l’apparentemente crescente “indipendenza” del mondo tecnologico. Che la “fine della fotografia” possa essere inscrivibile in questo tipo di dinamica tecnologicamente determinista resta un tema tutto da valutare, coltivando una giusta dose di dubbio.

[ illustrazione: Rolf Gillhausen, Three men in front of diagram, 1950 circa ]

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ARCHITETTURA, CITAZIONI, MUSICA

Genealogia di una citazione

«Scrivere di musica è come ballare di architettura».

In Panegirico (pubblicato postumo) Guy Debord – il cui nome è indissolubilmente legato al situazionismo e alla pratica del détournement – nota che «le citazioni sono utili nei periodi ignoranza o di credenze oscurantiste». A questo proposito sarebbe interessante indagare il legame tra citazioni e postmodernismo, ma questo richiederebbe molto spazio. Più modestamente, intendo qui soffermarmi su una delle citazioni che incontro con maggior frequenza, cioè quella riportata in cima a queste righe. Inizialmente pensavo fosse attribuibile a Frank Zappa (e nel 90% dei casi la si trova associata proprio a lui), ma poi, quando ho cominciato a incontrarla accostata anche ai nomi di Thelonious Monk, Elvis Costello e altri, ho scoperto che la questione della sua attribuzione è molto complessa.

Il sito web Quote Investigator ha messo in atto un insospettabilmente serio lavoro di ricerca per scoprire l’origine del celebre detto. La sua prima comparsa su carta stampata risale al 1979, quando ben due riviste musicali americane la attribuiscono al comico e cantante americano Martin Mull nella forma «talking about music is like dancing about architecture».  Poi, nel 1985, il Los Angeles Times attribuisce queste parole a Zappa. Negli anni seguenti hanno luogo molte altre attribuzioni, principalmente riconducibili a musicisti. Due delle più rilevanti sono quelle a Laurie Anderson ed Elvis Costello, i quali hanno tuttavia negato di esserne autori. La prima ha attribuito la paternità della citazione al comico Steve Martin, il secondo di nuovo a Martin Mull. Quest’ultimo, in base all’investigazione del sito, pare essere l’autore più probabile.

Nel 2000 qualcuno ha provato a domandare direttamente a Mull se la paternità fosse davvero sua: pare che la sua risposta sia stata affermativa, ma dato che questo riscontro proviene dal web – e da una fonte di terza mano – Quote Investigator lo accetta con un certo scetticismo (atteggiamento interessante e forse autoironico, dato che Quote Investigator altro non è, a asua volta, che un sito web).

A ogni modo la frase, anche se in forme diverse, sembrerebbe molto più antica del 1979. Pare sia apparsa, nella forma «writing about music is as illogical as singing about economics», in un articolo della rivista americana «The New Republic» datato 1918. L’autore non è noto.

[ illustrazione: Grant Snider ]

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