CITTÀ, CONCETTI, LETTERATURA, METAFORE

Il ritorno impossibile

Quello del ritorno è un topos narrativo antichissimo, che nei secoli ha prodotto innumerevoli variazioni sul modello originario definito da Omero nell’Odissea, il νόστος (nóstos, ritorno) per eccellenza. Quando il νόστος si intreccia con l’άλγος (álgos, dolore), fa la sua comparsa la nostalgia, sentimento sconosciuto all’antica cultura greca la cui origine (di cui si è detto qui) è intrinsecamente moderna.

Fra i tanti racconti di nostalgia che la letteratura contemporanea offre vi è quello reso da George Orwell (1903-1950) in un’opera che precede la seconda guerra mondiale e i suoi due libri più famosi (gli allegorici e visionari La fattoria degli animali e 1984). Si tratta di Una boccata d’aria (1939), romanzo che narra le gesta di un piccolo borghese della provincia inglese che, ormai raggiunta la mezza età e tediato dalla monotonia della sua vita, decide di concedersi una breve fuga nei suoi luoghi natali, che non vede da oltre vent’anni:

Lo sapete che cosa provavo: volevo tornare a galla, prendere una boccata d’aria, come le testuggini marine quando salgono in superficie, mettono fuori il muso e si riempiono i polmoni, prima di rituffarsi fra le alghe e i polipi. Soffochiamo in fondo a un immondezzaio, tutti quanti; ma io ho il modo di uscirne.

Il racconto di Orwell sa essere ironico e insieme amaro: a fronte della calzante metafora della “boccata d’aria” (resa fin dal titolo del libro e significativa anche rispetto all’imminente immersione nella guerra che aleggia sinistra su tutto il racconto), ciò che l’esperienza del ritorno porta con sé è un duro confronto con il cambiamento che ha reso irriconoscibili i luoghi della giovinezza, conducendo il protagonista a riconsiderare totalmente i presupposti del suo viaggio nel passato:

​​”Una cosa alla quale ho detto addio” pensavo scendendo per la collina “è l’idea di rituffarmi nel passato. A che scopo cercar di rivedere lo scenario della propria infanzia? Non esiste più. E volere una boccata d’aria! Non ce n’è, di aria. L’immondezzaio nel quale siamo immersi raggiunge la stratosfera”.

Un ritorno su cui incombe fin dalla prima pagina un destino tragico è quello di Nostalgia, opera postuma di Ermanno Rea (1927-2016). Al suo centro c’è il personaggio un napoletano fuggito all’estero che torna ai suoi luoghi natali dopo quarantacinque anni. È proprio la nostalgia a guidarlo attraverso i luoghi delle sue origini, con una ritrovata familiarità con il quartiere della Sanità che lo porta inizialmente a ritenere che in fondo poco sia cambiato:

Era rimasto identico a se stesso, come se quei quarantacinque anni non fossero mai trascorsi: muri macchiati di nero che continuavano a nascondere – anzi a tentare di nascondere – drammi e miseria a non finire. Eppure… come spiegarsi il fascino quasi irresistibile che quel gorgo di strade, tra vico Centogradi e piazzetta dei Tronari, esercitava su di lui, sino a farne un sito dell’anima?

In seguito è tuttavia il dubbio sul senso del ritorno a prevalere, con un sentimento di disillusione che mette in discussione – proprio come visto in Orwell – la possibilità stessa  che la nostalgia possa avere un esito positivo e non risultare delusa dallo scontro con la realtà, con l’impossibilità di recuperare un passato perduto. Così il protagonista, mettendo per iscritto le sue sensazioni:

Purtroppo però ogni medaglia ha il suo rovescio: fatta la grande scoperta, ho cominciato a torturarmi con un dubbio increscioso, vale a dire se, al di là di ciò che in genere si crede, ha senso tornare sui propri passi; anzi, con parole più esatte, se il ritorno (il Grande Ritorno) sia possibile e auspicabile o non ci esponga piuttosto a delusioni e pentimenti insopportabili. Come puoi immaginare, non ho trovato (per il momento?) una risposta certa alla mia domanda; soltanto mezze risposte, il che è nel mio carattere. 

[ Illustrazione: fotogramma dal film Nostalgia (2022) di Mario Martone ]

CINEMA, FILOSOFIA, METAFORE, PERCEZIONE

Le sorelle Macaluso e la persistenza della memoria

Il film Le sorelle Macaluso di Emma Dante (pellicola del 2020, adattamento cinematografico dell’omonimo testo teatrale del 2014) è un’incisiva riflessione sul tempo e, in particolare, su quanto intere vite possano essere determinate dall’accadimento di un solo istante. Il valore del film è accresciuto dalla sua capacità di condurre lo spettatore a ragionare sulla persistenza della memoria (il riferimento all’omonima opera di Salvador Dalí è incidentale) all’interno dell’ambiente domestico.

In più momenti lungo la sua durata, il film dedica attenti sguardi alla casa, osservata attraverso luce e suoni in assenza delle protagoniste. È proprio la mancanza dell’elemento umano nella sua forma più tangibile a rendere chiaro quanto ogni ambiente e oggetto finisca col diventare nel tempo un silenzioso portatore della memoria di gesti, sentimenti, storie.

Una simile riflessione sulla “vita delle cose” stabilisce una immediata connessione con il pensiero a riguardo del filosofo Remo Bodei (di cui si è già parlato qui), che distingue la cosa dall’oggetto associando alla prima un investimento emozionale che manca alla pura funzionalità del secondo. Col tempo, sembra suggerire il film di Emma Dante, tutti gli oggetti della nostra casa sono destinati a diventare cose.

Nelle sequenze finali della pellicola è soprattutto un particolare a colpire: nel momento in cui gli spazi si svuotano, oltre che delle persone, delle cose che li hanno riempiti, queste ultime mostrano di aver impresso la loro impronta sui muri della casa. Emerge un’ultima traccia delle cose e delle persone che le hanno utilizzate: una sorta di fantasma di presenza che, come un gioco di ombre cinesi o il materiale fotosensibile di una pellicola fotografica, permette che la memoria continui a manifestarsi all’interno di un luogo.

[ Illustrazione: fotogramma dal film Le sorelle Macaluso di Emma Dante, 2020 ]

COMPLESSITÀ, COMUNICAZIONE, CULTURA, LINGUAGGIO, METAFORE

Lost in translation: che cosa perdiamo nel passaggio da una lingua all’altra?

Tradurre significa, secondo l’etimologia latina del verbo, trasferire, spostare o ricollocare. Quando traduciamo un testo, trasportiamo un significato – che solitamente riteniamo astratto – da una lingua all’altra. L’operazione non è facile: chiunque vi si cimenti seriamente presto o tardi scopre che, come si suol dire, “tradurre è tradire”. Questo accade perché nessun concetto può essere del tutto astratto dalle parole usate per esprimerlo all’interno di una certa lingua. Chi traduce deve mettere in conto il fatto di poter perdere per strada qualcosa che è spesso ineffabile perché ha a che fare con i tratti idiosincratici di una cultura e con gli elementi estetici di uno specifico linguaggio.

Su questi temi riflette, attraverso la sensibilità dell’illustratrice americana Ella Frances Sanders, il libro Lost in Translation
(2014). Il volume è un peculiare vocabolario che affianca a ogni parola selezionata, espressa nel suo linguaggio originario, una sua duplice parafrasi: alcune righe di testo che la descrivono per sommi capi (in inglese) e una illustrazione che la rappresenta. La selezione è ben curata e ricca di spunti di riflessione sui paradossi della traduzione. Partendo dall’italiano: siamo sicuri che sia semplice trasferire in un’altra lingua l’idea espressa dal verbo “commuovere”? Oppure, pensando alla lingua tedesca, come tradurre in una parola il concetto di “kummerspeck”, che indica il processo per cui si assume peso mangiando eccessivamente a causa di un trauma emotivo? O ancora: come rendere appieno l’idea indiana, recentemente popolarizzata dagli studiosi dell’innovazione frugale, di “jugaad”? Questi e molti altri esempi animano le pagine di Lost in Translation, testo che si lascia sfogliare con piacere accrescendo nel lettore la consapevolezza dell’incommensurabilità fra lingue e culture, nonché il piacere della scoperta e del confronto con il diverso.

[ illustrazione: immagina tratta dal libro di Ella Frances Sanders Lost in Translation (2014) ]

APPRENDIMENTO, CINEMA, COLLABORAZIONE, DIVULGAZIONE, JAZZ, METAFORE, STORIE

Ecco perché Whiplash non parla di apprendimento (anche se è un film da Oscar)

Whiplash (2014), lungometraggio del ventinovenne Damien Chazelle, è candidato per la cerimonia degli Oscar 2015 a ben cinque premi, fra cui miglior film e miglior attore non-protagonista. Il film narra l’apprendistato di un giovane batterista jazz (interpretato dal giovane Miles Teller), il cui percorso di studi è guidato da un insegnante (un intenso J.K. Simmons) i cui metodi, basati sulla violenza verbale e fisica, sono alquanto discutibili.

Il film è una tesa e inquietante messa in scena di un rapporto maestro-dicepolo basato sull’abuso di potere e sulla manipolazione. Gli attori sorreggono perfettamente la sceneggiatura e J.K. Simmons in particolare si produce in una performance superba, decisamente degna di un Oscar.

Whiplash gioca su un piano morale controverso e, come dichiarato in un’intervista dallo stesso Chazelle, pone lo spettatore di fronte a un dilemma: il fine giustifica i mezzi? Nel porsi questo domanda bisogna fare attenzione a non cadere in inganno. Whiplash non parla, come a tutta prima potrebbe sembrare, di apprendimento. Né di motivazione propriamente intesa. Come notato, il film è incentrato su un abuso di potere che non può in nessun modo essere inteso come una lezione sull’efficacia di un insegnamento condotto, con stampo militaresco, in maniera punitiva e violenta.

Sono in molti a essersi scagliati contro il messaggio potenzialmente controverso del film. In particolare, gli appassionati di jazz hanno trovato indebito l’utilizzo di un aneddoto loro particolarmente caro, cioè quello sull’episodio in cui il sassofonista Charlie Parker imparò qualcosa di decisivo per il suo apprendimento. Nella versione cinematografica, l’episodio è raccontato in questi termini: quando Parker era, appena sedicenne, agli inizi del suo apprendistato musicale, gli capitò di suonare in jam session con l’orchestra del grande pianista Count Basie. Quando salì sul palco, il suo assolo fu immediatamente bloccato dal batterista Joe Jones, che gli scaraventò addosso, mancando di poco di colpirlo alla testa, un piatto della batteria. In seguito a questo episodio – narra nel film il dittatoriale maestro di musica – Parker fuggì dal palco e si rinchiuse in casa a studiare per evitare di incorrere di nuovo in simili punizioni sul palco. Fu così che, lavorando duramente su se stesso, Parker divenne poi “bird”, cioè il più grande sassofonista di tutti i tempi. Come ogni appassionato di jazz sa bene – e come notano le riviste «Slate» e, con particolare acrimonia, «New Yorker» – , non andò proprio così.

L’episodio è piuttosto noto, raccontato da diversi libri dedicati a Charlie Parker fra i quali il più recente è l’ottimo Fulmini a Kansas City (2014) di Stanley Crouch. Il batterista Joe Jones non tirò il piatto addosso a Parker per colpirlo, ma lo gettò a terra a mo’ di gong, come a dire: “il tuo tempo sul palco è scaduto, pivello”. Questo gesto, una consuetudine delle jam session della band di Basie, bollava ironicamente la performance di un musicista suggerendogli di tornare a far pratica. Parker se ne andò dal palco in effetti sconsolato, ma dal quel momento prese per lui avvio uno studio della musica molto attento alla dimensione relazionale, sorretta dal positivo rapporto con maestri, mentori e compagni di jam session. L’aneddoto non racconta dunque né di un gesto violento e punitivo né di un supposto valore perfezionista di una pratica solitaria (quella su cui si concentra il protagonista di Whiplash). Trasferisce al contrario un gesto tutt’al più ironico e, soprattutto, il senso di un apprendimento autentico perché relazionale. Questa è la lezione più preziosa offerta dal jazz a chiunque si confronti con l’imparare. Una lezione che un film pur ottimo come Whiplash manca totalmente di cogliere.

[ illustrazione: fotogramma dal film Whiplash di Damien Chazelle – 2014 ]

CONCETTI, LAVORO, METAFORE, PAROLE, SOCIETÀ

Sbarcare il lunario

In tempi di crisi, “sbarcare il lunario” è espressione fin troppo utilizzata. Ma cosa significa e come nasce?

Partiamo dalla parola “lunario”: si tratta di un almanacco, simile al calendario ma arricchito da informazioni relative a fenomeni celesti ed eventi di varia natura. Nasce nel tardo Medioevo come strumento principalmente rivolto ad agricoltori e naviganti, per i quali tenere sotto controllo i cicli climatici stagionali era particolarmente utile. Con l’invenzione della stampa, il lunario trova diffusione di massa e si sviluppa assecondando interessi e peculiarità nazionali. Celeberrimo in Francia fu l’almanacco di Nostradamus (1503-1566), pubblicato nel 1550 e ricco di “previsioni” da molti ancora oggi tenute in alta considerazione. Primo lunario a stampa italiano fu l’Almanacco di Barbanera, nato a Foligno nel 1762 e tuttora in produzione. Dato il suo riferimenti alle fasi lunari e dunque alle mensilità, il termine “lunario” entra ben presto in uso comune come sinonimo del periodo di dodici mesi dell’anno.

Più semplice il discorso sullo “sbarcare”, verbo normalmente riferito al comune e auspicato esito di tragitti marittimi. Assumendo come metafora la navigazione in acque sommosse e tempestose, ecco che “sbarcare il lunario” giunge a indicare il periglio e la fatica di riuscire a giungere sani e salvi – con un’interpretazione prettamente legata alle risorse economiche – al termine di ogni mese e finalmente alla conclusione d’anno.

Secondo la Treccani, l’espressione inizia a fare la sua comparsa nella lingua scritta nel corso dell’Ottocento. Alcuni versi del poeta toscano Giuseppe Giusti (1809-1850) recitano:

«Si rassegna, si tien corto, / colla rendita d’un orto / sbarca il suo lunario».

Per citare un altro poeta toscano, Giosuè Carducci (1835-1907) scrive in una lettera del 1869 al proprio editore lamentandosi così:

«Mi conviene far conto anche di queste minuzie, per isbarcare mese per mese alla meglio il mio lunario».

[ illustrazione: Almanacco di Barbanera, 1762 ]

ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, IRONIA, LAVORO, METAFORE, SOCIETÀ

Chi ha paura della barba manageriale?

È probabile siano in molti ad aver notato sul volto di Sergey Brin, co-fondatore di Google, lo spuntare di una barba; quasi certo è che Stephen Mihn, collaboratore del «New York Times», sia il solo ad aver pensato di tratteggiare un’analisi manageriale ispirata a questa emergenza pilifera.

Assecondando il punto di vista di Mihn, la storia degli intrecci fra capitale e irsutismo facciale può essere riassunta da un’opposizione binaria: quando a primeggiare è l’idiosincratica affermazione imprenditoriale del singolo, le barbe germogliano; nei periodi in cui il mercato impone la lingua spersonalizzata e inglobante delle corporation, sono invece schiuma e rasoio a dettar legge.

Per gran parte dell’età moderna, i rappresentanti di spicco del mondo economico – tanto in Europa quanto negli USA – hanno dato prova di avere a cuore un volto ben rasato. Attorno alla prima metà dell’800, questo trend è stato ulteriormente rafforzato dalle scelte estetiche dell’élite intellettuale socialista: le barbe di Marx ed Engels si sono rapidamente imposte come simbolo della lotta al capitalismo, spingendo chi stava dall’altra parte della barricata, terrorizzato, ad ancor più frequenti visite al barbiere di fiducia.

I moti nazionali del 1848 in Europa, così come la guerra civile in terra americana, segnarono un’inversione di rotta, associando i peli facciali all’affermazione di un patriottico e borghese senso di mascolinità. In seguito a questo rivolgimento sociale, la barba diventa tratto essenziale della classe capitalista. Titanici uomini d’impresa come Andrew Carnegie o Henry Clay Frick – peraltro passato alla storia come “peggior amministratore delegato di sempre” – fecero della loro barba larger than life un amuleto di individualismo e dominio sul mercato.

Le cose cambiarono di nuovo a fine ‘800: la ribellione della forza lavoro mondiale generò leader operai contraddistinti da lunghe, spettinate barbe. Il vello facciale tornò a spaventare il capitalismo, che non poté fare a meno di riprendere a rasarsi con cura (in suo aiuto giunse, nel 1901, il primo rasoio di sicurezza Gillette). Negli corso del Novecento barba e baffi sparirono, lasciando campo al dominio del liscio, inespressivo volto del dirigente delle grandi multinazionali.

Negli anni 2000, la barba appare priva di particolari connotazioni ideologiche e non spaventa più nessuno. Ecco perché sembra così adatta – al netto della moda hipster, secondo molti ormai in calo – per il volto del capitalismo geek rappresentato da Sergey Brin.

[ illustrazione: Robert Taylor, Dictionary of Beards,  2010 ]

APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, CITTÀ, COLLABORAZIONE, COMPLESSITÀ, DECISIONE, DEMOCRAZIA, ECONOMIA, MANAGEMENT, METAFORE, MOBILITÀ

Meno regole, più responsabilità

La vicenda non rappresenta proprio una novità; suona piuttosto come la conferma di una tendenza ormai storicamente consolidata: a inizio 2015 anche Chicago inaugurerà, seguendo l’esempio di diverse città europee, una “shared street”, vale a dire una strada urbana priva di marciapiedi, corsie e segnaletica in cui i cittadini dovranno imparare a praticare l’auto-organizzazione.

I primi esperimenti orientati a una diversa gestione del traffico e della sicurezza urbana risalgono a ormai più di venti anni fa. Avanguardia di questa svolta nella mobilità è stata l’Olanda, nazione bike-friendly particolarmente attenta ai disagi generati dal traffico e capace di innestare un reale cambiamento culturale atto a evitarli. L’innovazione olandese è principalmente riconducibile al nome di Hans Monderman (1945-2008), ingegnere del traffico che già negli anni ’90 iniziò a praticare nella regione della Frisia – e in particolare nella cittadina di Drachten – l’idea di responsabilizzazione urbana che oggi giunge fino agli USA.

Come nota un articolo di «Pagina 99», quanto verrà chiesto ai cittadini di Chicago è di rinunciare a una regolamentazione del traffico eterodiretta, al fine di abbracciare una condotta di continua negoziazione delle precedenze e dunque dell’attenzione dedicata agli spostamenti cittadini. Faticoso, certo, ma sembra valerne davvero la pena: le statistiche provenienti dall’Olanda e dagli altri luoghi in cui le “shared street” sono già in uso parlano di un netto calo degli incidenti e di un generale miglioramento della mobilità.

«You’re not stuck in the traffic, you’re traffic!», sostiene un mantra popolarizzato negli ultimi anni tanto nel campo della viabilità cittadina quanto, come metafora, nel pensiero manageriale e organizzativo. In tema di riflessioni metaforiche sul tema della responsabilizzazione in contesti aziendali, a rendere particolarmente simbolici gli esempi delle “shared street” è anche l’avvallo di una teoria sulla compensazione del rischio nota come “effetto Peltzman” (dal nome dell’economista – guarda caso di Chicago – che per primo la tematizzò).

Ogni qual volta ci si sente al sicuro all’interno di un sistema di regole,  si diventa – nota Peltman – molto meno cauti. Superficialmente attenti a rispettare le norme ma, di fatto, proni a infrangerle. Al contrario, una situazione che enfatizza il rischio percepito porta naturalmente a generare un’assunzione di responsabilità collettiva. Lungi dall’essere utile soltanto a chi si occupa di mobilità cittadina, l’effetto Peltman riguarda qualsiasi azienda in cui la dialettica fra norma e responsabilità non sia giunta a un adeguato livello di sintesi.

[ illustrazione: Alberto Sordi in un fotogramma dal film Il vigile di Luigi Zampa, 1960 ]

DECISIONE, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, MARKETING, METAFORE

Il bluff come strategia manageriale

Durante la prima guerra mondiale, le forze degli Alleati escogitarono un modo per contrastare gli Imperi Centrali che non implicava l’uso della forza bruta ma dell’ingegno. Nacquero così i cosiddetti “dummy tank”, vale a dire falsi carri armati realizzati con strutture in legno coperte da teli dipinti per simulare l’aspetto dei mezzi originali. I dummy tank vennero utilizzati per ingannare le flotte aeree nemiche, mostrando loro forze di terra particolarmente numerose, ma solo in apparenza. Sorta di cavallo di Troia alla rovescia, il dummy tank prese rapidamente piede presso gli eserciti di ogni nazione e vide il suo uso consolidarsi durante il secondo conflitto bellico mondiale, anche nella forma inversa di carro armato mimetizzato come semplice camion. È a tutt’oggi un espediente utilizzato dalle forze armate di tutto il mondo.

La strategia del bluff di cui il dummy tank si fa simbolo non è esente da implicazioni manageriali. Spesso, soprattutto nel campo del marketing, saper bluffare rappresenta una competenza cruciale per rivolgersi al mercato con il giusto tempismo. Per trovare esempi di questa condotta non è necessario scavare troppo indietro nel tempo né pensare ad aziende misconosciute. È sufficiente tornare al 9 gennaio 2007, giorno in cui sul palco del Moscone Center di San Francisco, Steve Jobs presentò la più recente novità Apple, cioè l’iPhone. Non molti sono a conoscenza del fatto, descritto in un articolo del «New York Times» di qualche tempo fa, che il lancio di questo prodotto rappresentò un azzardo condotto dall’allora CEO di Apple. Nelle sue mani, durante lo speech di presentazione, c’era un prototipo che era poco più di un bluff, un”dummy tank” credibile quanto al suo guscio ma con gravi problemi hardware e software. Ciononostante, un progetto durato lunghi anni e costato circa 150 milioni di dollari meritava di essere sostenuto con un’audace scommessa. L’aspettativa generata dalle parole di Jobs necessitò di essere sostenuta dall’alacre lavoro del team di tecnici Apple, che dovettero lavorare duramente per far sì che l’iPhone giungesse al mercato con caratteristiche all’altezza di quanto il suo pubblico era ormai tenuto ad aspettarsi.

Di nuovo in tema di relazioni tra business e arte del bluff, un recente articolo di «Fast Company» ha chiamato in causa il gioco del poker come ispirazione per strategie da giocare nel mondo del lavoro. Pare che l’ampia manualistica dedicata a questo gioco d’azzardo rientri fra le letture preferite dai giovani imprenditori della Silicon Valley, che si ispirano agli insegnamenti di giocatori come Phil Hellmuth Jr., nove volte campione mondiale di poker. Il suo principale consiglio? Bluffare è una vera e propria strategia, non una scappatoia. Per questo va affrontato in maniera ponderata, utilizzando economia di mezzi, attenzione al contesto e una giusta dose di pazienza.

[ illustrazione: dummy tank utilizzato dall’esercito americano durante la seconda guerra mondiale ]

APPRENDIMENTO, CONOSCENZA, INTERNET, LAVORO, MEDIA, METAFORE, SCUOLA, TECNOLOGIA, UFFICI

Ecco come le distrazioni digitali ci mettono sotto scacco, a scuola e al lavoro

Sebbene il neo-luddismo vanti una solida tradizione di pensiero e azione, riconducibile – a seconda delle preferenze – tanto al Martin Heidegger di La questione della tecnica (1953) quanto a Unabomber, chi si azzarda oggi a criticare l’influenza di web, computer e smartphone raramente è preso sul serio. Viene anzi zittito da un coro inneggiante alle “magnifiche sorti e progressive” offerte dalla più recente tecnologia. Si è dunque colti da una certa curiosità nel leggere l’articolo pubblicato da Clay Shirky su «Medium», dove lo studioso americano – noto come autore di Surplus cognitivo (2010), testo che ha contribuito a legittimare internet come amplificatore di apprendimento – si scaglia contro l’invasività dei device digitali. Se anche i cyber-ottimisti iniziano a simpatizzare per il neo-luddismo, qualcosa sta forse cambiando.

Come docente universitario, Shirky afferma di aver registrato nel corso degli anni un fenomeno ormai comune a qualsiasi livello scolastico e in ambito di formazione degli adulti: il tasso di disattenzione è direttamente proporzionale alla presenza in classe di device digitali. La soluzione di Shirky? Un inaspettato diktat, peculiare soprattutto per chi come lui insegni teoria e pratica dei nuovi media: computer e smartphone rigorosamente spenti. Al suono di “lids down”, attenzione, vivacità, partecipazione e discussione hanno magicamente fatto ritorno in aula.

A essere qui chiamato in causa non è soltanto il multitasking, con le sue ormai note conseguenze nefaste. C’è in gioco altro, espresso da Shirky tramite due metafore. La prima è quella del fumo passivo: un computer aperto o uno smartphone luminoso agiscono come disturbatori anche nei confronti di chi viene a essi esposto indirettamente, generando una propagazione virale – e autolegittimante – della disattenzione. La seconda metafora è quella della concorrenza: in un’aula infestata da apparecchi elettronici, chi lavora sull’apprendimento dei suoi interlocutori si trova a dover fronteggiare l’assalto di hardware e software che sembrano pensati appositamente per costituire una coesa armata della disattenzione.

Con riferimento a un’immagine popolarizzata dallo psicologo Jonathan Haidt nel libro Felicità: un’ipotesi (2008), Shirky rivolge un monito a chiunque si occupi di apprendimento. Quando siamo in aula spesso pensiamo di poterci rivolgere unicamente alla razionalità dei nostri interlocutori, resa in metafora da Haidt come una guida o un conducente (rider). In realtà, il conducente controlla le redini di un animale piuttosto corpulento e lento: un elefante, cioè la parte emotiva del cervello. Senza una paritaria attenzione per queste due componenti, risulta difficile che qualcuno sia davvero coinvolto in un processo di apprendimento. Se le app hanno imparato molto velocemente a rivolgersi all’elefante, l’educazione e l’apprendimento di giovani e adulti non possono continuare a parlare solo alla guida.

[ illustrazione: immagine tratta dal film Computer Chess (2013) di Andrew Bujalski ]

GIOCO, LAVORO, METAFORE, SOCIETÀ, UFFICI

Office Boy: prima di Monopoly, il gioco come strumento per l’educazione al lavoro

Parker Brothers è un’azienda americana produttrice di giochi da tavolo e giocattoli. La sua storia inizia nel 1883 a Salem (Massachusetts), quando il sedicenne George Parker mette a punto la sua prima creazione: “Banking” è un gioco che simula una scalata al successo mediata da prestiti bancari e scommesse di investimento. Nata come George S. Parker Company per iniziativa del solo George, con l’ingresso in società dei suoi due fratelli nel 1888 l’azienda diventa Parker Brothers. Il più grande successo giunge nel 1935 con “Monopoly”, al quale seguiranno nel decennio successivo altri giochi destinati alla celebrità come “Cluedo” e “Risiko!” Dalla fine degli anni ’60, l’azienda inizia a produrre meno innovazioni – nonostante un interessante avventura nel mondo dei videogame che produrrà titoli come “Q-Bert” – e a staccarsi dalla gestione familiare. Come ultimo esisto di una serie di acquisizioni, il marchio è attualmente proprietà del gruppo Hasbro.

Uno dei più peculiari giochi prodotti da Parker Brothers nei suoi primi anni di attività è, nel 1889, “Office Boy”. L’ispirazione economica già alla base di “Banking” viene in questo caso letta alla luce del più importante fenomeno sociale del momento: l’ascesa del lavoro d’ufficio. Coerente con lo spirito del “sogno americano” alimentato dai romanzi di Horatio Alger (1832-1899), “Office Boy” mette i giocatori nei panni di un ragazzo di bottega pronto a iniziare la sua avventura nel mondo del lavoro. Attraverso un semplice “gioco dell’oca”, l’office boy inizia la sua carriera dalle posizioni aziendali più basse (per esempio portatore o magazziniere) e, diventando poi venditore e dirigente, può aspirare a giungere a capo dell’intera organizzazione. Il cammino è costellato da elementi che consentono l’avanzamento del giocatore o lo costringono all’arresto, brillantemente rappresentati da atteggiamenti lavorativi di segno opposto: disattento/attento, disonesto/onesto, incapace/ambizioso. Attraverso un apparentemente semplice gioco da tavolo, il ragazzo medio americano inizia a fare esperienza dei valori lavorativi che il mondo degli uffici sta iniziando a diffondere nella società. Di lì a poco l’office boy, accompagnato dal suo ideale di scalata sociale e anelito al successo, diventerà il simbolo di più generazioni di colletti bianchi.

[ illustrazione: tabellone di gioco di “Office Boy” di Parker Brothers, 1889 ]