BIGDATA, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

La tecnologia ucciderà la middle class?

In Average Is over: Powering America Beyond the Age of the Great Stagnation (2013) l’economista americano Tyler Cowen immagina una feroce polarizzazione della società, causata dall’influenza delle nuove tecnologie sulle attività lavorative. Il mondo verrà a trovarsi diviso, secondo Cowen, tra coloro il cui lavoro sarà reso obsoleto dalla tecnologia e chi invece riuscirà a sopravviverle. Ricollegandosi idealmente ad alcune delle tesi contenute in La fine del lavoro di Jeremy Rifkin (1995), Cowen immagina una middle class largamente composta da “bohémien” che saranno sempre meglio istruiti, soprattutto grazie a risorse on-line  gratuite, ma si accontenteranno di salari medio-bassi.

Fra gli altri temi trattati nel testo, Cowen riflette anche sul concetto di meritocrazia. Il monitoraggio del lavoro e la sua visibilità on-line permetteranno, secondo l’autore americano, un controllo trasparente sulla produttività di ogni lavoratore e dunque l’opportunità per le aziende – e in generale per il sistema economico – di premiare chi merita di esserlo (e viceversa).

[ illustrazione: Futurama di Matt Groening ]

CINEMA, CONCETTI, ECONOMIA, PERCEZIONE, SOCIETÀ

Il Monello di Chaplin e il teorema delle finestre rotte

In una delle più riuscite sequenze di The Kid (1921) di Charlie Chaplin, il monello del titolo infrange a sassate le finestre di alcune abitazioni, preparando così il successivo passaggio del padre, “casualmente” dotato di vetri di ricambio. Questa scena comica rimanda a un teorema diffuso fin dal 1850 ed elaborato dall’economista Frédéric Bastiat. Il teorema è noto come il “racconto della finestra rotta”.

Il racconto originario somiglia molto alla sua versione filmica: un ragazzino infrange la finestra di un commerciante e i cittadini inizialmente simpatizzano per quest’ultimo, identificandosi con il torto subito. In seguito, essi cambiano opinione: il danno alla finestra darà lavoro al vetraio, il quale potrà a sua volta acquistare qualcosa dal panettiere, il quale potrà a sua volta divenire cliente del calzolaio… E così via. A questo punto il ragazzino, lungi dall’essere considerato un semplice vandalo, inizia a essere visto come qualcuno in grado di “muovere” l’economia cittadina.

Soffermarsi sulle conseguenze economiche positive del danno subito dal commerciante nasconde tuttavia quelle negative. Il denaro speso per ricomprare una finestra non potrà essere utilizzato per altro, annullando così qualsiasi precedente progettualità di spesa del commerciante. Secondo questa seconda interpretazione, il ragazzino non avrebbe generato un beneficio economico alla città ma, più semplicemente, l’avrebbe privata di una finestra.

Nel corso della storia il racconto di Bastiat è stato commentato e discusso da molti economisti, oltre che applicato ad ambiti che costituiscono a oggi oggetto di dibattito comune. Su tutti, il caso delle guerre: a seconda del punto di vista, esse sono considerabili tanto forze devastanti e distruttrici quanto possibili motori di lavoro e progresso.

[ illustrazione: fotogramma da The Kid di Charles Chaplin, 1921 ]

 

APPRENDIMENTO, EPISTEMOLOGIA, PERCEZIONE

Sull’utilità e il danno del sapersi concentrare

«Part of normal human development is learning to notice less than we are able to».

On Looking (2013) di Alexandra Horowitz, il cui sottotitolo è “Eleven walks with expert eyes”, è un’affascinante narrazione multisensoriale e sinestetica agita tramite il confronto con alcuni “esperti” di specifiche forme di percezione.

Il racconto di Horowitz prende le mosse da un’uscita in città con il proprio figlio e si chiude portando a spasso il proprio cane, passando per passeggiate accompagnate dallo sguardo di persone abituate a studiare i suoni, le ere geologiche, gli insetti e diversi altri aspetti della nostra esperienza. Presa isolatamente, ognuna di queste esperienze risulta tanto specifica quanto parziale. Al contrario, la loro giustapposizione contribuisce a costruire uno spettro percettivo sorprendentemente vasto.

Il “guardare” cui il titolo del testo allude ha – e insieme non ha – a che fare con gli occhi. Se quella dello sguardo è indubitabilmente l’egemonia percettiva cui la nostra esperienza è quotidianamente sottoposta, le esperienze narrate dall’autrice mostrano come sia possibile guardare in molti modi diversi e, sopratutto, farlo anche facendo a meno degli occhi.

Altro tema centrale del testo è quello dell’attenzione. A questo riguardo Horowitz mostra come concentrarsi su qualcosa non significhi altro che ridurre in maniera deliberata (ma non sempre consapevole) la ricchezza percettiva di cui siamo naturalmente dotati finalizzandola a un unico scopo la cui efficacia va di pari passo con la limitatezza.

Imparare a concentrarsi è una tanto necessaria quanto discutibile conquista del nostro percorso di crescita. Detto in altri termini, diventare adulti significa acquisire un’abilità percettiva sempre più grande all’interno di un campo di osservazione sempre più piccolo. Sforzarsi di controvertire questa tendenza può rivelarsi un orientamento ricco di sorprese.

[ Particolare da un’inserzione pubblicitaria di un refrigeratore a gas Electrolux, 1932 ]

CONCETTI, LAVORO, PAROLE, STORIE

L’origine del boicottaggio

Nella seconda metà del XIX secolo la pressoché totale gestione del territorio agricolo d’Irlanda era nelle mani di una piccola élite (circa il 2% della popolazione) che imponeva a chi lavorava la terra condizioni di lavoro piuttosto restrittive. In reazione a queste circostanze nacque l’Irish National League, i cui princìpi erano rappresentati da tre “F”: “Fair rent, Fixity of tenure, Free Sale”.

Uno dei presupposti dell’Irish National League fu fin dall’inizio quello della resistenza non violenta. Per questo, fra le sue diverse iniziative, nel 1880 l’ente invitò i contadini a rifiutarsi di prestare la loro opera nelle aziende agricole più grandi e insieme più coercitive. Fra queste rientravano i terreni di Lord Enre, localizzati nell’Irlanda occidentale. Loro amministratore era un certo Charles Cunningham Boycott (1832-1897), il quale si trovò a fronteggiare la protesta dei contadini.

Boycott fu oggetto di una vera e propria campagna di ostracismo, cui di fatto parteciparono non solo i lavoratori agricoli ma l’intera popolazione locale, che si rifiutò di interagire (dalle più basiche relazioni sociali a quelle commerciali) con Boycott. Quest’ultimo, a causa dell’inaridimento delle terre di Enre, venne licenziato e fu costretto a trasferirsi a Dublino e in seguito, continuamente perseguitato dall’alone di protesta legato al suo nome, addirittura a lasciare l’Irlanda.

La nefasta fama di Boycott lo accompagnò nei suoi peregrinaggi europei e perfino in terra americana, ove fu costretto a viaggiare sotto falso nome. Ma era ormai troppo tardi: già dal 1888 l’espressione verbale “to boycott”, ormai dotata di valenza simbolica e universale, iniziò a entrare nei dizionari di lingua inglese per poi diffondersi in tutto il mondo.

[ illustrazione: ritratto di Charles Cunningham Boycott ]

ARCHITETTURA, BENI CULTURALI, CITTÀ, CULTURA, LETTERATURA, METAFORE

La Sicilia di Vittorini, simbolo di bellezza civile

Pubblicato postumo da Einaudi nel 1969, Le città del Mondo è l’ultimo scritto di Elio Vittorini (1908-1966). Frutto di una stesura frammentaria che si rispecchia nella forma in cui è stato successivamente edito, il romanzo costruisce – come ebbe a definirla Leonardo Sciascia – una “carta della Sicilia da completare a memoria”. Al preciso tratteggio del riferimento toponomastico si sovrappongono in stretto intreccio le vicende di personaggi così rarefatti da diventare simbolici, conferendo all’opera un senso “mitico” che ne rappresenta la principale fonte di interesse e fascino.

Come notato dallo studioso di urbanistica Giancarlo Consonni nel suo La bellezza civile (2013), Vittorini scrive negli anni in cui in Italia si vede sorgere un particolare interesse per il patrimonio artistico e per i centri storici. Come riferimento di contesto, è utile ricordare che la “Commissione Franceschini” per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio operò fra il 1964 e il 1967.

Il percorso attraverso le città della Sicilia compiuto dai personaggi del libro diventa dunque paradigma di un’attenzione, nuova e insieme antica, al rapporto fra bellezza di un luogo e felicità dei suoi abitanti. Risulta a questo proposito splendido uno dei dialoghi fra i pastori protagonisti del libro:

«Ha belle strade e belle piazze in cui passeggiare, ha magnifici abbeveratoi per abbeverarvi le bestie, ha belle case per tornarvi la sera, e ha tutto il resto che ha, ed è bella gente. Tu lo dici ogni volta che entriamo a Nicosia. Ma che bella gente! È lo stesso ogni volta che entriamo a Enna. Ma che bella gente! Lo stesso ogni volta che entriamo a Ragusa. Ma che bella gente! E se incontriamo un uomo vecchio tu dici ma che bel vecchio. Se incontriamo una donna giovane tu ti volti e dici ma che bella giovane. Vorresti negarlo? Tu dici che dev’essere per l’aria buona, ma più la città è bella e più la gente è bella come se l’aria vi fosse più buona».

[ illustrazione: Ferdinando Scianna, Capizzi, 1982 ]

CINEMA, COLLABORAZIONE, LAVORO

Saving Mr. Banks e l’attaccamento alle proprie idee

Quella al centro di Saving Mr. Banks (2013) di John Lee Hancock è una storia incentrata sull’amore per il proprio lavoro, che in certi casi si accompagna alla difficoltà di condividerlo con altri.

Il film è un resoconto “romanzato” del rapporto fra Walt Disney e Pamela Lyndon Travers, autrice letteraria da cui il padre di Disneyland acquisì i diritti per la realizzazione del film Mary Poppins (Robert Stevenson, 1964). L’accordo fra i due fu tutt’altro che semplice: implicò una trattativa ventennale e un negoziato basato su una serie di compromessi che in ultima analisi, pur a fronte del grande successo ottenuto dal film, lasciarono Travers piuttosto delusa.

I dialoghi cruciali fra i due protagonisti della pellicola fanno emergere un’espressione che rende piuttosto bene una certa idea di attaccamento al lavoro. «They’re family», ripetono più volte Travers e Disney, descrivendo in un caso il proprio rapporto con i personaggi di Mary Poppins, nell’altro quello con Mickey Mouse.

Uno stretto legame con il proprio lavoro genera dinamiche di protezione che tendono a escludere la condivisione, nel timore che far “intromettere” altri possa snaturare qualcosa di molto personale. Far crescere un’idea spesso coincide proprio col renderla meno “nostra” e imparare ad accettare questo genere di compromesso può essere davvero molto difficile.

[ illustrazione: fotogramma dal film Saving Mr. Banks di John Lee Hancock, 2013 ]

ANTROPOLOGIA, CIBO, CULTURA, FOTOGRAFIA, SOCIETÀ

Il cibo, ossessione estetica e culturale

Lo chef francese Alexandre Gauthier ha appena deciso di inserire nei propri menu un simbolo che vieta di scattare foto a quanto viene servito in tavola. Il fine dell’iniziativa è, secondo le parole dello stesso Gauthier, quello di invitare i clienti del suo ristorante a concentrarsi sulla concreta esperienza del cibo e non sull’astrazione della sua registrazione e condivisione visiva. Gauthier non è che l’ultimo di una lunga lista di cuochi che, da almeno un anno a questa parte e in più parti del mondo, hanno deciso di ribellarsi all’imperante moda del “selfie culinario”.

Questa deriva fotografica è la punta dell’iceberg di una più generale ossessione per il cibo che, fin dalle sue prime avvisaglie, ha generato tanto sostenitori quanto detrattori. Fra questi ultimi il primo da citare è senz’altro il giornalista inglese Steven Poole, autore di un testo dal significativo titolo You aren’t what you eat (2012) e strenuo sostenitore di una rivolta contro quella che ha bollato “age of food”. Nel giro di pochi anni il cibo sarebbe diventato – secondo Poole – una passione malsana, una vera e propria dipendenza che, alimentata dal culto officiato da chef-superstar assunti come “maestri di vita”, darebbe alle persone l’illusione di esprimere la propria identità tramite il cibo.

A citare Poole è anche un recente articolo del Corriere della Sera, che fa il punto degli ultimi eccessi del “foodism” e dei pareri più critici a riguardo. Se il fatto che dentifrici e bagnoschiuma alla pancetta saranno presto sugli scaffali dei supermercati disgusterà più d’uno, a generare inquietudine dovrebbero essere soprattutto le parole usate dal filosofo Nicola Perullo in Per un’estetica del cibo (2006). Qui l’autore usa toni che paiono chiudere il cerchio rispetto alle posizioni dello chef Gauthier citate in apertura:

«L’importanza attribuita oggi al cibo è forse comprensibile nei termini di una crisi del fare esperienza, cui nessun ambito della vita umana è sottratto. L’esperienza del cibo potrebbe rivelarsi un volano per recuperare parte della frammentazione cui il nostro sentire è sottoposto».

[ illustrazione: Daniel Spoerri, Restaurant de la City Galerie, Zurich, 1965 ]

ARTE, BENI CULTURALI, CINEMA, STORIA

I veri Monuments Men

Nell’agosto del 1943 entrò in azione, promossa dal presidente Franklin Delano Roosevelt, la “American Commission for the Protection and Salvage of Artistic and Historic Monuments in War Areas” – anche nota come la seconda “Roberts Commission” dal nome del giudice della Corte Suprema Owen Roberts. Di concerto con il programma dell’esercito americano denominato “Monuments, Fine Arts, and Archives program” (MFAA), la commissione lavorò dal 1943 al 1946 per proteggere e preservare i beni del patrimonio artistico minacciati dal secondo conflitto bellico nonché, nello specifico, per contrastare l’azione di saccheggio compiuta dal nazismo ritrovando e restituendo le opere confiscate alle nazioni legittime proprietarie.

L’MFAA prese corpo con un gruppo di circa 350 uomini e donne provenienti da 13 nazioni e con stretti legami con alcune delle più importanti istituzioni culturali e artistiche dell’epoca. Il lavoro del gruppo chiamava in causa una combinazione di addestramento militare, storia dell’arte e tecniche di indagine avanzata. Nel suo periodo di attività l’MFAA recuperò complessivamente più di 5 milioni di beni artistici. Come riportato in un’intervista da Robert Edsel, autore del best-seller Monuments men (2010) da cui è stato tratto l’omonimo film di George Clooney del 2014, i grandi successi ottenuti dalle operazioni di recupero contemplano anche qualche fallimento. La singola opera più importante fra quelle mai più recuperate è probabilmente il Ritratto di giovane uomo (1516-1517) di Raffaello, fino al 1939 conservato presso il Museo Czartoryski a Cracovia e successivamente disperso.

Al di là del suo fondamentale risvolto pratico legato al recupero di opere, il lavoro dei “Monuments Men” ha anche un importante valore simbolico nell’aver anticipato un interesse comune che, di lì a pochi anni, avrebbe trovato formalizzazione nella Convenzione dell’Aja del 1954, origine di ogni successiva iniziativa volta al riconoscimento e alla preservazione del patrimonio culturale internazionale.

[ soldati americani recuperano alcune opere sotto la supervisione di James Rorimer (secondo da sinistra), allora Direttore del Metropolitan Museum of Art ]

CONCETTI, CREATIVITÀ, MANAGEMENT, PERCEZIONE

La creatività va all’università

“Creatività” è categoria aziendale per eccellenza, come ben dimostrato dal fatto che su Linkedin essa risulta la “buzzword” più in voga nei résumé di migliaia di persone. Sono state le aziende ad appropriarsi – ormai molti anni fa – di questo concetto e sono proprio le aziende a continuare a richiedere formazione orientata alla creatività, alimentando un mercato le cui principali beneficiarie sono state fino a oggi le società di consulenza. Ma le cose stanno cambiando, forse proprio in relazione ai résumé sopra citati.

In America i corsi universitari sulla creatività stanno spuntando come funghi. Dalla State University of New York alla Saybrook di San Francisco; dalla St. Andrews di Laurinburg alla Drexel di Philadelphia: questi i nomi delle prime istituzioni statunitensi che hanno attivato master o dottorati dedicati al tema. Di certo non tarderanno ad aggiungersene altre e c’è da immaginare che la moda possa in breve diffondersi anche in Europa.

È difficile valutare le conseguenze di questa novità. Dal punto di vista accademico, essa farà certo gola a molte università, pronte a far cassa grazie a nuovi corsi molto “vendibili” (un po’ come successo nei primi anni 2000 con la moda dei corsi interfacoltà dedicati al management della cultura). D’altro canto, provocherà reazioni contrariate da parte dei docenti meno inclini a fare i conti con una categoria davvero un po’ troppo aziendale. Per quanto riguarda l’aspetto divulgativo del concetto, si può forse sperare che veicolare l’idea secondo cui la creatività “si insegna” (e dunque si impara) contribuisca a indebolire l’alone esoterico che da sempre la accompagna, ma questo sarà da valutare nel corso del tempo.

Certo è che trent’anni circa di ossessione aziendale per la creatività hanno reso questo concetto materia da curriculum vitae al pari dei cliché sul “lavoro di gruppo / orientamento ai risultati”. Il fatto che uno studente sia oggi disposto a investire sulla promessa dell’acquisizione di una competenza che risponde al nome di creatività è probabilmente frutto di questa efficace opera di propaganda.

[ illustrazione: particolare dalla locandina del film Altered States di Ken Russell, 1980 ]

 

EPISTEMOLOGIA, FOTOGRAFIA, METAFORE, PAROLE, PERCEZIONE, SEGNI

La foto vincitrice del World Press Photo e il rapporto tra testo e immagine

Il 13 febbraio 2014 sono stati annunciati i vincitori del World Press Photo di quest’anno. Il premio “photo of the year” se l’è aggiudicato il fotografo di reportage americano John Stanmeyer con l’immagine qui sopra.

Si tratta di una foto di indubbia e immediata forza compositiva. Più ambigua è la lettura del suo contenuto. A prima vista, sembrerebbe di vedere qui rappresentate persone in procinto di immortalare la luna con i propri telefoni. Secondo questa interpretazione, la foto parrebbe dunque in sintonia con l’ampio coro di chi denuncia l’abuso della documentazione – via smartphone e in tempo reale – di ogni momento della vita. Così intesa, l’immagine richiamerebbe in qualche modo l’ormai celebre foto scattata dal fotografo Michael Sohn in San Pietro in occasione dell’elezione dell’ultimo Pontefice. L’interpretazione, benché plausibile, non è corretta.

Il titolo attribuito all’immagine dal fotografo è Signal. Di quale segnale si parla? Con tutta probabilità di quello dei telefoni cellulari. Questa informazione allarga il contesto, ma non contribuisce né a delegittimare l’ipotesi precedentemente illustrata, né a suggerirne con chiarezza un’altra. Per giungere a una diversa ipotesi c’è bisogno di leggere anche le note di accompagnamento della foto, che svelano che essa è stata scattata sulla costa di Djibouti, comune punto di passaggio per migranti provenienti da diverse nazioni africane e diretti verso l’Europa. Le persone qui raffigurate cercano di catturare il segnale telefonico proveniente dalla Somalia, nella speranza di poter così comunicare con i propri cari.

Il rapporto tra testo e immagine messo in luce da questa foto chiama in causa le categorie semiotiche di denotazione e connotazione. Mentre la comprensione del livello denotativo di un’immagine riguarda il suo significato “letterale”, la lettura di quello connotativo lascia spazio a interpretazioni emotive, metaforiche e simboliche. Pensando proprio al rapporto tra fotografie e didascalie, Roland Barthes introdusse nel suo L’ovvio e l’ottuso (1982) il concetto di “ancoraggio”: il testo si àncora all’immagine, guidando (e spesso forzando) non solo la percezione denotativa, ma anche quella connotativa. La foto di Stanmeyer conferma l’efficacia delle riflessioni di Barthes e offre un nuovo affascinante esempio di foto che conduce a riflettere su come guardiamo e interpretiamo il mondo.

[ illustrazione: John Stanmeyer, Signal, 2013 ]