CIBO, DECISIONE, FOTOGRAFIA, IRONIA, SOCIETÀ

Instagram, selfie, food (ovvero: quanto tempo passiamo al ristorante?)

Si è già parlato qui di rapporti tra cibo e fotografia, o – per dirla in termini coerenti con il fenomeno – di chi si fa selfie di food. Se è vero che ormai esistono esercizi di ristorazione che vietano di scattare fotografie a quanto viene servito in tavola, grazie al blog di Alex Soojungkim Pang (autore di The Distraction Addiction) scopro che un ristorante newyorkese è riuscito ad attuare – con modalità di per sé curiose, come si vedrà – un piccolo studio statistico sul deterioramento della relazione esercente-cliente causato dal diffondersi della moda della “fotografia gastronomica”.

Il suddetto ristorante, dotato come molti negozi di un servizio di sicurezza con telecamere a circuito chiuso, ha raffrontato un nastro risalente all’inizio della propria attività – aperta nel 2004 – con una registrazione attuale, al fine di analizzare il comportamento della propria clientela. Il motivo da cui è scaturita questa curiosa indagine? La constatazione di una crescita dei tempi di permanenza dei clienti presso il ristorante, pur a fronte di un aumento di personale e di uno snellimento del menu. Dal confronto tra i due campioni raccolti a distanza di dieci anni emergono evidenze per le quali non sono particolarmente necessari commenti. In gioco vi è non solo la relazione esercente-cliente; qui si tratta anche di dinamiche decisionali, del nostro rapporto con la tecnologia e, più in generale, il modo in cui impieghiamo il nostro tempo.

Nel 2004 i clienti del ristorante passavano in media 8 minuti a osservare il menu. Il cibo veniva loro servito dopo circa 6 minuti. Dopo il pasto, in genere i clienti pagavano e lasciavano il locale 5 minuti dopo aver ricevuto il conto. Il tempo medio passato al ristorante dall’inizio alla fine del pasto era di cerca 65 minuti.

Nel 2014 i clienti impiegano in media circa 21 minuti per ordinare. Menu alla mano, restano attaccati al loro telefono facendo fotografie o altro finché il cameriere (spesso invocato perché il wireless non funziona a dovere) non passa da loro una seconda volta. Finalmente, aprono il menu e ordinano. Una volta fatto, ricevono il loro pasto dopo circa 6 minuti. A quel punto, il 57% dei clienti scatta una fotografia del cibo. In caso di due o più persone, le fotografie aumentano, richiedendo circa 3 minuti per scatto (e gli eventuali selfie non abbisognano di meno tempo). Questo comporta, nel 20% dei casi, che il cibo si raffreddi e venga mandato in cucina per essere riscaldato. Durante il pasto, il 60% dei clienti chiede l’intervento del cameriere per una foto di gruppo (spesso ripetuta, fino a un risultato soddisfacente). A pasto finito, i clienti impiegano in media 20 minuti per chiedere il conto e infine altri 20 per pagare e andarsene. Tempo complessivo da inizio a fine pasto: in media, 115 minuti.

[ illustrazione: Daniel Spoerri, Tableau piège n° 57, 1972 ]

Standard
ANTROPOLOGIA, CIBO, CULTURA, FOTOGRAFIA, SOCIETÀ

Il cibo, ossessione estetica e culturale

Lo chef francese Alexandre Gauthier ha appena deciso di inserire nei propri menu un simbolo che vieta di scattare foto a quanto viene servito in tavola. Il fine dell’iniziativa è, secondo le parole dello stesso Gauthier, quello di invitare i clienti del suo ristorante a concentrarsi sulla concreta esperienza del cibo e non sull’astrazione della sua registrazione e condivisione visiva. Gauthier non è che l’ultimo di una lunga lista di cuochi che, da almeno un anno a questa parte e in più parti del mondo, hanno deciso di ribellarsi all’imperante moda del “selfie culinario”.

Questa deriva fotografica è la punta dell’iceberg di una più generale ossessione per il cibo che, fin dalle sue prime avvisaglie, ha generato tanto sostenitori quanto detrattori. Fra questi ultimi il primo da citare è senz’altro il giornalista inglese Steven Poole, autore di un testo dal significativo titolo You aren’t what you eat (2012) e strenuo sostenitore di una rivolta contro quella che ha bollato “age of food”. Nel giro di pochi anni il cibo sarebbe diventato – secondo Poole – una passione malsana, una vera e propria dipendenza che, alimentata dal culto officiato da chef-superstar assunti come “maestri di vita”, darebbe alle persone l’illusione di esprimere la propria identità tramite il cibo.

A citare Poole è anche un recente articolo del Corriere della Sera, che fa il punto degli ultimi eccessi del “foodism” e dei pareri più critici a riguardo. Se il fatto che dentifrici e bagnoschiuma alla pancetta saranno presto sugli scaffali dei supermercati disgusterà più d’uno, a generare inquietudine dovrebbero essere soprattutto le parole usate dal filosofo Nicola Perullo in Per un’estetica del cibo (2006). Qui l’autore usa toni che paiono chiudere il cerchio rispetto alle posizioni dello chef Gauthier citate in apertura:

«L’importanza attribuita oggi al cibo è forse comprensibile nei termini di una crisi del fare esperienza, cui nessun ambito della vita umana è sottratto. L’esperienza del cibo potrebbe rivelarsi un volano per recuperare parte della frammentazione cui il nostro sentire è sottoposto».

[ illustrazione: Daniel Spoerri, Restaurant de la City Galerie, Zurich, 1965 ]

Standard