ARTE, CAMBIAMENTO, CULTURA, INNOVAZIONE, MARKETING, MUSICA, SOCIETÀ, STORIE

Alex Steinweiss, l’uomo delle copertine

L’arte delle copertine di disco, provvidenzialmente rinvigorita dal revival vinilistico dell’ultimo decennio, ha una data di origine: 1938. Questo fu l’anno in cui l’allora ventiduenne grafico newyorkese Alex Steinweiss (1917-2011) venne assunto dalla Columbia Records.

Per il marketing della musica, si trattò di una vera e propria rivoluzione: la celeberrima sinfonia n. 3 di Ludwig van Beethoven, apparentemente un disco non certo bisognoso di particolare promozione, beneficiò di un incremento delle vendite di quasi il 900% dovuto alla versione con copertina illustrata da Steinweiss.

Ma che aspetto avevano le copertine prima del 1938? Fino a quel momento, tutti i dischi – allora in formato 78 giri – erano accompagnati da una spartana custodia che ne indicava esclusivamente titolo e autore. Steinweiss, annoiato da un design di così basso profilo – e ispirato dai manifesti modernisti tedeschi e francesi – propose ai dirigenti della Columbia di poter mettere alla prova la sua creatività. Per nostra fortuna, questa opportunità gli venne di buon grado concessa: Steinweiss divenne in breve direttore artistico dell’etichetta discografica e nel corso della sua carriera realizzò oltre 250.000 copertine.

Gli amanti dei vinili devono a Steinweiss anche un’altra innovazione: nel 1947, anno di nascita del disco a 33 giri, Steinweiss inventò le buste di carta che contengono i vinili, completando così un formato di packaging che oggi, a quasi settant’anni dalla sua introduzione, continua a dimostrarsi ineguagliabilmente bello ed efficace.

[ illustrazione: copertina di Alex Steinweiss per il disco Bing: A Musical Autobiography di Bing Crosby, 1954 ]

BIGDATA, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, UFFICI

Ancora sul taylorismo 2.0: ecco il physiolytics e gli strumenti del “cottimo digitale”

Il sostantivo “cottimo”, termine dalla dubbia origine etimologica, suona oggi passatista e distante dalla realtà dei lavoratori del nuovo millennio. Peccato che, nota in un recente articolo Evgeny Morozov, proprio questi ultimi saranno le probabili vittime di una sua nuova e tecnologica versione.

Se Google e Apple si stanno affacciando sul mercato delle dimore automatizzate (evoluzione di quanto fino a ieri si etichettava come domotica), il fronte aziendale non sta a guardare e conia un termine – comparso per la prima volta a fine 2013 sulle pagine di «Harvard Business Review» – che suona decisamente sinistro: physiolytics. Crasi del suffisso physio- e della parola anaylitcs, la parola rappresenta il processo di integrazione tra dispositivi indossabili e analisi dei dati da essi raccolti, a tutto beneficio delle pratiche di gestione delle risorse umane e della performance.

Per godere di qualche anticipazione sui prodotti che prima o poi invaderanno uffici e officine basta fare un giro su Kickstarter e i siti web di alcune startup. Per esempio, XOEye Technologies produce occhiali “smart” simili ai celebri Google Glass, salvo il fatto che non sono pensati per essere indossati da geek californiani ma da operai. Rilevano il comportamento e i movimenti dei lavoratori, con particolare attenzione per quanto riguarda postura e sicurezza. Come nota Morozov, questi apparecchi possono essere estremamente ben recepiti dalle aziende: meglio investire in strumenti di controllo che permettano la prevenzione di infortuni che dover pagare – a fronte dell’assenza di un lavoratore – per assicurazioni e spese mediche.

Altri esempi? Robin, produce sensori orientati agli “smart offices” che monitorano gli spostamenti da un ufficio all’altro, tenendo sempre sotto controllo dove ci si trova e quel che si fa. Melon sta per immettere nel mercato una fascia che monitora l’attività celebrale in cerca di picchi cognitivi, ottimizzando di conseguenza il lavoro. L’orologio Spark promette di impedire che le persone prendano sonno nei momenti più importanti del loro lavoro, mentre il braccialetto Pavlok (il nome vi ricorda qualcosa?) ci punisce con una scossa quando manchiamo di completare un’attività programmata.

Il lato maggiormente critico della questione riguarda, poiché si tratta di dispositivi che vengono indossati, la progressiva estensione delle logiche di quantificazione proprie del lavoro ad aspetti della vita che in precedenza ne erano al riparo. Detto in altri termini, l’espressione “portarsi il lavoro a casa” è probabilmente destinata ad assumere un significato tutto nuovo.

[ illustrazione: fotogramma dal film Escape from New York di John Carpenter, 1981 ]

CREATIVITÀ, INNOVAZIONE, SEGNI, STORIE, TECNOLOGIA, VIDEOGIOCHI

La storia di Pong, il primo successo del mondo dei videogiochi

Maggio 1972, New York, quartier generale della neonata Atari: quando il giovane Allan Alcorn viene assunto come sviluppatore, si trova di fronte a una curiosa sfida. A lanciargliela sono Nolan Bushnell e Ted Dabney, co-fondatori dell’azienda e precedentemente ideatori di Computer Space (1971), cioè il primo coin-up (videogioco da bar azionato da moneta) della storia. Bushnell e Debney domandano ad Alcorn, completamente a digiuno di videogame, di realizzare una versione da sala giochi del “table tennis” del Magnavox Odyssey , prima console casalinga al mondo. Quanto a requisiti grafici, la richiesta è semplice: due barrette, una pallina, delle cifre per indicare il punteggio della partita. Niente di particolarmente creativo.

Alcorn affronta il suo compito in maniera spedita, aggiungendo alcuni dettagli che rendono il gioco più divertente: l’impatto con angoli diversi della barretta cambia la traiettoria della pallina, la cui velocità, scambio dopo scambio, aumenta progressivamente. Soddisfatti del lavoro, Bushnell e Dabney decidono di far debuttare il videogame di Alcorn in un bar newyorkese. L’idea è di testare il gioco per qualche tempo e, nel caso di buoni riscontri del pubblico, venderne i diritti a un’azienda informatica da scegliere tra Bally e Midway. Gli esiti della sperimentazione superano ogni aspettativa già a distanza di una settimana: code all’apertura del bar e videogame inceppato per le troppe monetine inserite. Bushnell e Dabney fanno rapidamente marcia indietro con Bally e Midway e decidono che sarà la stessa Atari a commercializzare il neonato Pong.

In seguito al lancio nel mercato dei bar, il videogioco incassa ben 35-45$ al giorno per macchina. La versione domestica arriva per il Natale del 1975, vendendo immediatamente 150.000 unità. Con questi numeri senza precedenti, il semplice esercizio di allenamento di un programmatore si impone come il primo vero successo commerciale del mondo dei videogame. Il boom di Pong frutta ad Atari anche un patteggiamento in tribunale per aver copiato il gioco originario del Magnovox Odissey, ma – si sa – la storia delle innovazioni passa non di rado anche dai tribunali.

[ illustrazione: schermata dal videogame Pong, 1972 ]

CONCETTI, FRUGALITÀ, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT

L’identikit dell’innovatore frugale

Lo studioso inglese di social entrepreneurship (e già consulente del governo di Tony Blair) Charles Leadbeater costruisce nel suo testo The Frugal Innovator (2014) una personale lettura del fenomeno dell’innovazione frugale. In seguito a fasi economiche focalizzate sul bisogno (dal 1945), sul desiderio (dal 1960) e sulla frenesia dell’offerta (dal 1990) – e soprattutto nel necessario attraversamento delle conseguenze della crisi economica del 2008 – Leadbeater riconosce nella frugalità la via di uscita dal tunnel della grande recessione. L’approccio frugale all’innovazione risponde al nuovo atteggiamento della classe media occidentale e al crescente ruolo di protagonista delle popolazioni delle nazioni emergenti. Su questa linea di pensiero, i principali riferimenti di Leadbeater sono il testo The Fortune at the Bottom of the Pyramid (2005) dello studioso C. K. Prahalad (1941-2010) e Jugaad Innovation (2013) di Navi Radjou, Jaideep Prabhu e Simone Ahuja, di recente traduzione in italiano.

Ma quali sono le caratteristiche dell’innovatore frugale? Secondo Leadbeater, quattro: un approccio lean, inteso sia nel classico, toyotistico senso di efficienza processuale che come ecologica dinamica di ri-ciclo e sfruttamento degli scarti; l’orientamento alla semplicità come risposta alle esigenze concrete di un mercato orientato alla soluzione di problemi per un numero il più possibile vasto di persone; la ricerca di coesione sociale, finalizzata a costruire comunità e a condividere conoscenze; lo scrupolo di agire in maniera pulita e sostenibile rispetto all’ambiente. Questi principi vengono distillati in The Frugal Innovator grazie all’analisi di diversi casi studio, che pur attingendo abbondantemente al patrimonio di innovazioni offerto dalla jugaad indiana non mancano di individuare casi di frugalità anche in territorio Europeo.

[ illustrazione: immagine tratta dal sito settimanadelbaratto.it ]

CONCETTI, CULTURA, INNOVAZIONE, PAROLE, SOCIETÀ

Le origini anti-industriali del biologico

L’aggettivo “biologico”, entrato da una ventina d’anni a questa parte nel linguaggio del marketing alimentare, indica – in realtà in maniera impropria, in quanto ogni processo agricolo è ovviamente biologico – una modalità di coltivazione che evita di impiegare energia proveniente da processi industriali, preferendo reimpiegare la materia sotto forma organica. Più corretto sarebbe dunque parlare di “organico”, così come fanno l’inglese e altre lingue.

Come nota Michael Pollan nel suo best-seller Il dilemma dell’onnivoro (2006), il primo utilizzo di “organico” risale a un contesto lontano da quello alimentare. Nel’Ottocento l’aggettivo era utilizzato dagli studiosi inglesi che criticavano la frammentazione sociale portata dalla rivoluzione industriale, raffrontandola a una precedente società “organica” (o più semplicemente naturale) nella quale vigevano forti legami affettivi e cooperativi.

L’utilizzo del termine in ambito alimentare risale agli anni ’40, con la fondazione della rivista americana «Organic Gardening and Farming». La testata rimase a lungo poco nota finché non le venne dedicato, nel 1969, un articolo dal «Whole Earth Catalog», la bibbia della controcultura ideata da Stewart Brand. La tiratura della rivista passò in soli due anni da quattrocentomila a settecentomila copie, ponendo le basi del futuro successo di un aggettivo che oggi campeggia, in maniera più o meno veritiera, su tutti i più appetibili prodotti di ogni supermercato del mondo.

[ illustrazione: particolare da una copertina di «Organic Gardening» del 2013 ]

APPRENDIMENTO, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT, STORIE, TECNOLOGIA

Edward Filene, dallo shop management alla traduzione simultanea

Benché trovi un antecedente nel semplice atto del bisbigliare nelle orecchie, la traduzione simultanea come processo mediato dalla tecnologia ha un preciso anno di origine, il 1925. Nel contesto della Società delle Nazioni, nata nel 1919, le due lingue parlate nel quartier generale di Ginevra erano inglese e francese, motivo per cui un processo di traduzione era continuamente necessario. Per qualche anno si utilizzò l’inefficace pratica della traduzione consecutiva, finché Edward Filene (1860-1937) non propose di accorpare in un unico atto l’ascoltare, il tradurre e il parlare.

Edward Filene è uno dei personaggi più interessanti vissuti tra il secolo XVIII e il XIX. Nativo del Massachussetts, ereditò l’attività familiare di commercio di abbigliamento e sviluppò insieme al fratello la catena Filene’s. Ispirato dagli aspetti più illuminati dello scientific management tayloristico, mise a punto moltissime innovazioni nei processi di gestione di magazzino e di vendita. Fra queste, il meccanismo del cosiddetto “automatic bargain”, secondo il quale i prodotti venivano automaticamente scontati e spostati dal piano terra al piano sotterraneo del magazzino, per poi essere infine – se di nuovo invenduti – donati in beneficenza. Filene introdusse inoltre sistemi per il match dei colori dei tessuti e complete e trasparenti policy nei confronti dei clienti, compreso l’ormai classico “soddisfatti o rimborsati”. Fu estremamente corretto e solidale con la classe lavorativa, sostenendo lo sviluppo di cooperative di credito in tutto il Paese e agendo a livello più generale come filantropo, quasi rendendo fattivo l’involontario gioco di parole suggerito dalla radice “fil-” del suo cognome.

Per quanto riguarda la Società delle Nazioni – di cui Filene fu immediato sostenitore – e la traduzione simultanea, furono probabilmente gli stessi principi di scientific management praticati da Filene nella sua azienda a suggerirgli l’innovazione. L’inefficienza della traduzione consecutiva raddoppiava infatti i tempi di traduzione, cosa inammissibile per una comunicazione efficace. L’intuizione di Filene venne sviluppata sul piano tencnologico grazie a un coeso gioco di squadra che coinvolse l’ingegnere meccanico inglese A. Gordon-Finlay e il fondatore dell’IBM Thomas Watson Sr. In seguito alla loro introduzione, le cabine di traduzione simultanea vennero utilizzate sporadicamente durante gli anni ’30 a Ginevra e in Unione Sovietica, per poi riemergere durante il processo di Norimberga.

[ illustrazione: cabina di traduzione simultanea presso il quartier generale dell’aviazione internazionale Montréal, 1949 ]

COLLABORAZIONE, INNOVAZIONE, INTERNET, LAVORO, MANAGEMENT, STORIE, TECNOLOGIA

JAVA: storia di un’innovazione intraprenditoriale

Non c’è bisogno di essere esperti di informatica per aver visto comparire il nome e il logo “Java” sul monitor di un computer. Per la maggior parte di noi (cioè per i non addetti ai lavori), Java è un linguaggio informatico che permette l’esecuzione di applicazioni web: dagli editor di testo ai filmati, dalle chat ai videogiochi. La sua diffusione va in realtà ben oltre l’ambito web, occupando un ruolo importante nei data center e nelle tecnologie per telefoni cellulari. Se sapete cos’è Java, è tuttavia probabile che possiate non conoscerne la storia.

Nel 1990 il web come lo conosciamo oggi è un fenomeno non ancora pronto a esplodere a livello di massa. Il PC, inteso come personal computer “desktop”, è il prodotto di punta dell’industria informatica, sia in ufficio che nel mercato casalingo. In questo contesto si muove Sun Microsystems, un’azienda della Silicon Valley californiana fondata nel 1982 in relazione all’università di Stanford di Palo Alto. All’inizio del nuovo decennio Sun sta attraversando un periodo di crisi, dovuta alla sua concentrazione sul solo mercato delle workstation professionali e dei server. I suoi prodotti hanno la fama di essere troppo complicati per un mercato di massa; i suoi software non sono all’altezza di quanto Microsoft sta sviluppando.

Patrick Naughton è un programmatore venticinquenne che lavora in Sun da tre anni. Durante una serata conviviale con lo staff dell’azienda, Naughton si avvicina al suo boss – e AD di Sun – Scott McNealy e, fra una birra e l’altra, gli rivela la sua condizione di delusione e frustrazione rispetto al proprio lavoro. Naughton si dice stufo di lavorare a prodotti che sembrano vecchi rispetto alle innovazioni del mercato. Sente che il proprio lavoro non è valorizzato adeguatamente e, afferma, sta valutando di andare a lavorare per NeXT Computer Inc. McNealy prende la palla al balzo e risponde grosso modo così a Naughton: «Prima che tu te ne vada, metti per iscritto quel che pensi Sun oggi stia sbagliando. Non limitarti a indicarmi il problema, dammi una soluzione. Dimmi cosa faresti se qui comandassi tu».

La mattina dopo, Naughton invia a McNealy un report di 20 pagine, che viene subito girato all’intera prima linea manageriale. Il giorno seguente, la casella e-mail di Naughton è piena di messaggi di questo tenore: «È quello che pensavamo anche noi da tempo, ma nessuno aveva avuto il coraggio di ammettere i propri errori». Naughton viene immediatamente inserito in un gruppo di lavoro ad hoc insieme a diversi ingegneri di alto livello. Nel corso di un brainstorming notturno, il neonato gruppo delinea le linee guida per lo sviluppo di un nuovo prodotto. Competere con Microsoft è fuori discussione, si decide così di mettersi al lavoro per costruire un software che possa sostanzialmente “funzionare ovunque”, anche in contesti che ancora non vengono associati all’idea di computer.

Nel 1991 il team di sviluppo è attivo in maniera totalmente indipendente dalle attività considerate core business da Sun. Già in agosto, è pronta una bozza di software che prende il nome di Oak, in inglese quercia, cioè l’albero che si vede fuori dalla finestra della stanza in cui il gruppo di programmatori lavora. Nel 1995 si giunge a una versione stabile del software, sviluppata per diventare una “killer app” come compagna per i nascenti web browser (non a caso, uno dei primi accordi commerciali sarà con l’allora dominante Netscape). Poiché nel team di lavoro si consumavano grandi quantità di caffè Java, si decide di rinominare il software in un modo più funzionale anche rispetto alle esigenze di marketing. Nasce così Hot Java. Il resto è storia, una storia che comprende la diffusione di questo linguaggio software praticamente ovunque. La vicenda di Sun come entità indipendente ha una conclusione nel 2010, quando l’azienda viene acquisita da Oracle, che oggi detiene il marchio Java. Ma questa è un’altra storia.

[ illustrazione: testata del «San Jose Mercury News» del 23 marzo 1995 ]

COLORI, FOTOGRAFIA, INNOVAZIONE, STORIE

Keld Helmer-Petersen: il colore in fotografia, prima della fotografia a colori

La fotografia a colori può dirsi un’invenzione del 1976, anno in cui le immagini del libro William Eggleston’s Guide (1974) vengono messe in mostra al MoMA di New York. Fino a quel momento il mondo dell’arte (al contrario di quello della moda e della pubblicità) rifiuta la fotografia a colori, per pregiudizio culturale e a causa dell’oggettiva inferiorità tecnica delle pellicole a colore. William Eggleston rappresenta lo spartiacque per la fotografia americana prima e dopo il colore. Altri fotografi americani hanno usato prima di lui la fotografia a colori – su tutti, Saul Leiter (1923-2013, attivo come fotografo dal 1948) – ma a Eggleston spetta il merito di avere legittimizzato con la rivoluzionaria esposizione al MoMA il (relativamente) nuovo medium fotografico, senza avere paura di proporlo in modo provocatorio.

Fra i precursori di Eggleston fuori dal territorio americano spicca, insieme al tedesco Fred Herzog, il danese Keld Helmer-Petersen (1920-2013). Il suo libro del 1948 dal titolo 122 Farvefotografier raccoglie una serie di immagini raccolte in Danimarca tra il 1941 e il 1947 usando una macchina fotografica Leica e pellicola Agfacolor. A quasi settant’anni di distanza, le fotografie di Petersen colpiscono per vari motivi: per il gusto del dettaglio e della semplicità compositiva quasi “a due dimensioni”; per la concentrazione su un mondo di oggetti e l’ispirazione surrealista; per la quasi totale decontestualizzazione temporale, tale da conferire alle immagini una sorta di astrazione metafisica. E infine ci sono i colori, ovviamente, usati come strumento per dar forma ed espressione al mondo, senza nessuna pretesa di reportage.

Petersen fu fotografo di grande modestia e poca fortuna. Se la visibilità ottenuta dal libro del 1948 gli permise di trasferirsi per alcuni anni a Chicago e di lavorare per «Life», di ritorno in Danimarca ritrovò un ambiente culturale non pronto ad accogliere la sua fotografia come arte. Intenzionato a restare in ogni caso legato al suo medium, trovò modo di condurre una soddisfacente carriera come fotografo di architettura.

[ illustrazione: fotografia di Keld Helmer-Petersen tratta dal libro 122 Farvefotografier, 1948 ]

CAMBIAMENTO, ECONOMIA, INNOVAZIONE, SEGNI, TECNOLOGIA

I primi 40 anni del codice a barre

Simbolo del dominio del mercato sulla vita, il codice a barre è con noi da 40 anni. Emanazione del pragmatismo americano, il barcode non è privo di implicazioni sinistre, soprattutto quando prende la forma critica di tatuaggi che sembrano evocare, oltre che segnali di omologazione culturale, ben più sinistri eventi della storia novecentesca.

Il primo articolo acquistato grazie alla mediazione di un codice a barre fu, il 26 giugno 1974 alle ore 08.01 in un supermercato dell’Ohio, un pacchetto di gomme da masticare “Wrigley’s Juicy Fruit”. Il codice utilizzato, noto come Universal Product Code (UPC) era del tutto simile a quelli che oggi vengono scansiti, stando alle statistiche, circa due miliardi di volte al giorno in tutto il mondo.

La storia del codice a barre inizia tuttavia ben prima, portando con sé un particolare stilistico curioso. Il pioniere di questo sistema di codifica fu Norman Joseph Woodland (1921-2012), ingegnere che mise a punto una prima versione del sistema pensando al funzionamento del codice Morse. Il brevetto originario di barcode – registrato nel 1949 – aveva l’aspetto di un bersaglio, nel quale la codifica di un dato era ottenuta attraverso la combinazione di cerchi concentrici. Questa versione non si rivelò del tutto efficace e non venne mai utilizzata fuori da un laboratorio. Woodland, nel frattempo passato in forze all’IBM, lasciò il progetto in eredità ai suoi colleghi. Fra questi, fu George Laurer a mettere a punto il barcode di forma rettangolare utilizzato per la prima volta nel 1974 e che tutti conosciamo.

[ illustrazione: studio per il primo codice a barre messo a punto da Joseph Woodland nel 1948 ]

INNOVAZIONE, MARKETING, PERCEZIONE, SCRITTURA, STORIE, TECNOLOGIA

La macchina da scrivere, questa sconosciuta

Nella storia delle innovazioni, l’incomprensione occupa un posto importante. Quel che a noi può oggi suscitare un discorso sull’antico, un’archeologia non priva di implicazioni sentimentali, doveva originariamente apparire come oggetto di mistero, per non dire di repulsione. Provate a immaginare di essere uno scrittore, attivo nel 1868: come reagireste di fronte alle promessa che uno strano incrocio tra un fonografo e un pianoforte possa sostituire penna e inchiostro? Con tutta probabilità, non in modo troppo accogliente.

L’imprenditore statunitense Christopher Latham Sholes (1819-1890) dovette fronteggiare questo tipo di perplessità quando presentò il suo brevetto nel giugno del 1868. Quanto è certo è che nulla della prima type-writer sembrava pensato per accattivarsi la possibile clientela. Basti pensare al sistema di tasti QWERTY, notoriamente nato per rallentare – non per velocizzare – la velocità di scrittura per evitare inceppamenti del meccanismo. La tastiera, con spirito spartano, era inoltre priva di tasti per lo 0 e l’1. Secondo il progetto, per produrre questi numeri era più che sufficiente poter disporre delle lettere O e I maiuscole (per inciso, le minuscole non erano date).

Se per Sholes e per gli sviluppatori che lavorarono al suo fianco gli inizi non furono facili (tanto che la macchina da scrivere finì presto per costringerli a contrarre debiti), la perseveranza nello sviluppo del prototipo e nell’azione di marketing li portò finalmente nel 1874 a un contratto di partnership che generò l’immissione nel mercato della Remington 1, venduta al salato costo di 125$ dell’epoca. Nella storia seguente, Sholes si è potuto prendere più di una rivincita nei confronti degli scettici scrittori della sua epoca. Le tastiere QWERTY, a oggi onnipresenti nella nostra galassia di device digitali, sono qui per ricordarcelo.

[ illustrazione: particolare dal brevetto per la prima macchina da scrivere Sholes, 1868 ]