ANTROPOLOGIA, BENI CULTURALI, CITTÀ, CULTURA, SOCIETÀ

La lenta agonia del pub, bene culturale della convivialità alcolica

«Drinking, while sleeping, strangers unknowingly keep me company. The only words I’ve said today are beer and thank you».
da: Bill Callahan, The Sing

In Inghilterra è in corso una rivoluzione antropologica destinata a influire tanto sull’ethos nazionale quanto sull’immaginario collettivo: il pub, da immemorabile tradizione luogo di incontro, convivialità e sonore sbronze, è scosso da mutamenti collettivi fino a un paio di lustri fa inimmaginabili. Gli inglesi d’oggi si iscrivono in palestra e mangiano gourmet; professano il wellness e ripudiano l’ham and eggs. Fanno tappa in birrifici artigianali e biologici dove fare rifornirsi di alcool in vista di frugali consumi casalinghi. Sembra proprio che la cultura del boozing stia passando di moda, almeno stando alla brutalità dei dati: oggi si beve il 20% meno rispetto al decennio scorso. Quanto ai circa 50.000 pub tradizionali sparsi per la Gran Bretagna, in 28 alla settimana risuona per l’ultima volta la campanella del last call delle 11 p.m.

Fra chi intende opporsi a questo stillicidio, spicca l’organizzazione “Campaign for real Ale”, le parole del cui portavoce Tom Stainer suonano così:

«Non puoi sentirti solo in un pub. Anche se non parli a nessuno, puoi stare seduto in un angolo a leggere il giornale, farti una pinta e sentirti comunque parte della società. Questa è una delle gran cose dei pub».

Difficile non concordare. Ancor più difficile immaginare come mettere in salvo un senso di comunità che rischia di annegare nella frammentazione di miriadi di addomesticate solitudini domestiche.

[ illustrazione: John French Sloan, McSorley’s Bar, 1912 ]

ANTROPOLOGIA, BENI CULTURALI, CONCETTI

I beni culturali: oggetti o cose?

Quando si parla di beni culturali, la questione del rapporto fra substrato materiale e valore simbolico-immateriale è una delle più critiche. I monumenti, così come i quadri, le sculture, gli edifici, sono cose. O sono oggetti? La legislazione italiana definisce i beni culturali come “cose immobili e mobili”, ma purtroppo nelle sue pagine la parola “cosa” è priva di un’adeguata contestualizzazione.

Per disporre la parola “cosa” a un’analisi più accurata, è di aiuto affiancarla al termine “oggetto” e seguire una riflessione del filosofo Remo Bodei dedicata proprio a questa relazione. Nel suo La vita delle cose (2009), Bodei prende le mosse dall’indagine etimologica e sottolinea la natura profondamente diversa delle parole “cosa” e “oggetto”, usate per descrivere differenti modi di relazionarsi a entità di natura fisica.

L’oggetto è, seguendo Bodei, il referente di una relazione funzionale spesso conflittuale (in latino “obicere” significa “gettare contro”), che viene risolta nei termini di un assoggettamento, vale a dire di un piegarsi dell’oggetto al volere imposto dall’uomo.

La cosa è invece il risultato di un investimento emozionale: il soggetto vive con essa una relazione che scaturisce da attribuzioni di significato non funzionali – o, se si preferisce, disinteressate. In questo caso l’etimologia del termine, proveniente dal latino “causa” – che indica qualcosa di così importante da mobilitarci in sua difesa (da cui il detto “combattere per una buona causa”) – , trasmette tutta l’affezione emotiva implicata da questo tipo di rapporto.

Il passaggio dagli “oggetti” alle “cose” descrive bene la trasformazione di un’entità fisica dotata di un valore prettamente funzionale (per esempio un edificio) in una nuova entità, insieme fisica e simbolica, che per convenzione chiamiamo “bene culturale”. Ecco perché, seppur in maniera probabilmente inconsapevole, la legislazione ha ragione a definire i beni culturali come cose.

[ illustrazione: Giovanni Paolo Pannini, Galleria immaginaria di vedute di Roma antica, 1756 ]

ARTE, BENI CULTURALI, CAMBIAMENTO, MEDIA, TECNOLOGIA

La “computer art” di Warhol e l’obsolescenza degli artefatti digitali

L’immagine qui sopra risale al 1985 ed è una delle ultime opere di Andy Warhol (1928-1987). È stata realizzata con un personal computer Amiga 1000 ed è rimasta fino a oggi nascosta in un floppy disk.

Warhol fu, insieme alla cantante dei Blondie – e icona dell’underground newyorkese – Debbie Harry, testimonial dell’Amiga 1000. Ne fu anche designer dell’aspetto esteriore e grande utilizzatore. L’Amiga 1000 era per l’epoca un computer all’avanguardia, basato sul più avanzato sistema operativo disponibile (il “workbench”) e capace di rendere a schermo ben 4096 colori (la maggior parte dei computer dell’epoca arrivava al massimo a 16).

L’esistenza di una serie di floppy disk su cui Warhol poteva aver registrato sue immagini è stata nota per lungo tempo, ma fino a poco tempo fa nessuno si era ancora avventurato negli archivi del Warhol Museum di Pittsburgh (Pennsylvania) per scovarli. In questa impresa si è imbarcato un team di ricercatori del “Computer Club” della Carnegie Mellon University. Il loro lavoro sui preziosi e fragili floppy disk ha richiesto ben tre anni di “hacking” e attenta estrazione e conversione dei file. Il risultato del lavoro consiste in 18 immagini inedite, realizzate dal grande artista americano elaborando foto o disegnando direttamente con il mouse. Le immagini hanno una risoluzione di appena 300×200 pixel.

L’aspetto che più colpisce di questa vicenda – al di là dell’ossessione per l’ennesima opera postuma (in questo caso di dubbio valore) di un grande artista – riguarda la curiosa “archeologia digitale” che il recupero delle immagini di Warhol ha chiamato in causa. I tre anni di lavoro sui file sono stati necessari perché oggi, a trent’anni di distanza, i documenti salvati con un Amiga 1000 sono del tutto illeggibili senza l’intervento di un esperto di informatica. La macchinosità di questo processo suscita una constatazione: se, operando un salto indietro nel tempo limitato alla cosiddetta era Gutenberg (sarebbe infatti possibile tornare anche a epoche più remote), diversi esemplari della prima Bibbia stampata a caratteri mobili –  datata 1455 – sono attualmente ben conservati e facilmente leggibili (a patto che si conosca il latino), i file di computer risalenti anche solo a 30 anni fa soffrono di scarse chance di conservazione e, come dimostrato dalle immagini di Warhol, difficilissime possibilità di lettura. In un’epoca in cui tutto il frutto del lavoro e sapere quotidiano risiede su eterei “cloud” e fragili hard-disk, una riflessione sulla conservazione e trasmissione degli artefatti digitali diventa vitale.

[ illustrazione: computer graphics di Andy Warhol, 1985 ]

ARCHITETTURA, BENI CULTURALI, CITTÀ, COLORI, FOTOGRAFIA

La forma della città in Joel Meyerowitz

Nel 1978 Joel Meyerowitz realizza una serie di immagini dedicate a New York. Quella riprodotta qui sopra è intitolata Young Dancer, 34th Street and 9th Ave.

Cosa rappresenta questa fotografia? In primo piano è la “young dancer” del titolo, in attesa di qualcosa, lo sguardo che punta fuori dal fotogramma. Alle sua spalle un negozio, probabilmente una drogheria. Banane in primo piano e l’ombra di una persona che si muove all’interno. All’incrocio fra le due strade, un ambiente apparentemente deserto ma a ben vedere popolato da almeno due sagome in movimento, probabilmente uomini di passaggio. E poi una donna, vestita di un verde non lontano da quello dell’abito della ballerina. Con lei uno, o forse più bambini. Il verde torna anche in un’auto parcheggiata al bordo della carreggiata. È mattina presto, la luce scalda dolcemente gli edifici in primo piano e si riflette in modo abbagliante sui palazzi nello sfondo. Un sole che sorge appare nel semplice disegno dell’edificio in primo piano.

E poi c’è l’Empire State Building. A prima vista presenza di sfondo, a ben vedere vero protagonista della foto (nonostante il titolo). La ragazza sta sulla soglia dell’immagine, una presenza transitoria che punta fuori. Al contrario, l’Empire State Building si staglia nella sua solidità e permanenza. Fornisce un punto di riferimento. E Meyerowitz – che qui lavora con un banco ottico e non con l’abituale 35mm – costruisce con cura un’inquadratura che lo valorizza e lo incornicia.

Questa fotografia fa parte, è il caso di rivelarlo, di una serie dedicata da Meyerowitz non semplicemente a New York, ma proprio all’Empire State Building. Nell’intera raccolta di immagini l’edificio è a tutti gli effetti un riferimento, un simbolo che guida l’orientamento dello sguardo sulla città. Evidentemente non un riferimento a caso. Proposto – ma bocciato – come una delle sette meraviglie del mondo, con maggior modestia l’edificio più alto della città fra il 1931 e il 1973 e poi ancora tra il 2001 e il 2012. In mezzo, ovviamente, le Twin Towers (e ora la Freedom Tower). Perfino aggredito da King Kong nel film del 1933 e colpito da un B-25 nella realtà del 1945.

Attraverso un simbolo indiscusso della città Meyerowitz riesce a disegnarne la forma, raccontando la quotidianità e mettendola a confronto con la permanenza. Fornendo un grande saggio di fotografia di strada.

[ illustrazione: Joel Meyerowitz, Young Dancer, 34th Street and 9th Ave., 1978 ]

BENI CULTURALI, ECONOMIA, INDUSTRIA, INTERNET, LIBRI, MARKETING

Amazon e la tirannia del cliente

En Amazonie (2013) è il reportage del giornalista francese Jean-Baptiste Malet, infiltratosi per tre mesi come interinale nel magazzino Amazon di Montélimar, nel sud della Francia.

Il resoconto di Malet mette in luce tanto il perfetto sistema organizzativo di Amazon, basato sui ruoli di picker (raccoglitori) e packer (imballatori), quanto la sfiancante esistenza degli interinali costretti a turni impossibili cadenzati dall’ideologia aziendale, cioè «Work hard, have fun, make history». Per la maggior parte di loro un posto a tempo indeterminato resta un sogno, nonostante le molte sovvenzioni ricevute da Amazon da parte degli enti locali.

Dal testo emerge la tirannia del cliente che, per Amazon come per molte altre aziende della grande distribuzione, è origine di una corsa all’efficienza apparentemente senza freni. Nel testo di Malet ciò è reso metaforicamente evidente dal confronto con gli enormi scaffali che raccolgono i libri e gli altri prodotti commercializzati dall’azienda di Seattle. Le montagne di “prodotti culturali”, di cui i magazzinieri hanno a malapena il tempo di osservare le copertine, rappresentano un’incredibile summa – mai prima d’ora concentrata in un unico luogo – dello scibile umano e di tutte le sue contraddizioni. Come nota Malet:

«È una cosa rivoluzionaria percorrere le scaffalature di un solo luogo e avere davanti a sé la quasi totalità delle opere che animano la vita intellettuale di un paese. Viene esplorato tutto lo spettro delle idee e delle sensibilità […]. Quali che siano i gusti, i colori, le opinioni, tutto contribuisce, suo malgrado, al fiorente successo di Amazon».

L’eterogeneità e l’indeterminatezza di questa massa di prodotti rappresentano l’esatto opposto di quanto vissuto all’interno di una libreria tradizionale, basata sul fatto che il cliente possa o meno riconoscersi in un gusto e in un orientamento condivisi con il libraio. La spersonalizzazione del libraio – di fatto la sua scomparsa – rappresenta il fattore vincente di Amazon, in grado di rispondere alle esigenze di nessuno e tutti insieme, decretando così la totale egemonia del cliente e la scomparsa, in un settore nonostante tutto ancora connotato dall’aggettivo “culturale” di qualsiasi pretesa di orientamento ed educazione al consumo.

[ Illustrazione: fotografia del magazzino Amazon di Phoenix, Arizona (AP Press) ]

ARCHITETTURA, BENI CULTURALI, CITTÀ, CULTURA, LETTERATURA, METAFORE

La Sicilia di Vittorini, simbolo di bellezza civile

Pubblicato postumo da Einaudi nel 1969, Le città del Mondo è l’ultimo scritto di Elio Vittorini (1908-1966). Frutto di una stesura frammentaria che si rispecchia nella forma in cui è stato successivamente edito, il romanzo costruisce – come ebbe a definirla Leonardo Sciascia – una “carta della Sicilia da completare a memoria”. Al preciso tratteggio del riferimento toponomastico si sovrappongono in stretto intreccio le vicende di personaggi così rarefatti da diventare simbolici, conferendo all’opera un senso “mitico” che ne rappresenta la principale fonte di interesse e fascino.

Come notato dallo studioso di urbanistica Giancarlo Consonni nel suo La bellezza civile (2013), Vittorini scrive negli anni in cui in Italia si vede sorgere un particolare interesse per il patrimonio artistico e per i centri storici. Come riferimento di contesto, è utile ricordare che la “Commissione Franceschini” per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio operò fra il 1964 e il 1967.

Il percorso attraverso le città della Sicilia compiuto dai personaggi del libro diventa dunque paradigma di un’attenzione, nuova e insieme antica, al rapporto fra bellezza di un luogo e felicità dei suoi abitanti. Risulta a questo proposito splendido uno dei dialoghi fra i pastori protagonisti del libro:

«Ha belle strade e belle piazze in cui passeggiare, ha magnifici abbeveratoi per abbeverarvi le bestie, ha belle case per tornarvi la sera, e ha tutto il resto che ha, ed è bella gente. Tu lo dici ogni volta che entriamo a Nicosia. Ma che bella gente! È lo stesso ogni volta che entriamo a Enna. Ma che bella gente! Lo stesso ogni volta che entriamo a Ragusa. Ma che bella gente! E se incontriamo un uomo vecchio tu dici ma che bel vecchio. Se incontriamo una donna giovane tu ti volti e dici ma che bella giovane. Vorresti negarlo? Tu dici che dev’essere per l’aria buona, ma più la città è bella e più la gente è bella come se l’aria vi fosse più buona».

[ illustrazione: Ferdinando Scianna, Capizzi, 1982 ]

ARTE, BENI CULTURALI, CINEMA, STORIA

I veri Monuments Men

Nell’agosto del 1943 entrò in azione, promossa dal presidente Franklin Delano Roosevelt, la “American Commission for the Protection and Salvage of Artistic and Historic Monuments in War Areas” – anche nota come la seconda “Roberts Commission” dal nome del giudice della Corte Suprema Owen Roberts. Di concerto con il programma dell’esercito americano denominato “Monuments, Fine Arts, and Archives program” (MFAA), la commissione lavorò dal 1943 al 1946 per proteggere e preservare i beni del patrimonio artistico minacciati dal secondo conflitto bellico nonché, nello specifico, per contrastare l’azione di saccheggio compiuta dal nazismo ritrovando e restituendo le opere confiscate alle nazioni legittime proprietarie.

L’MFAA prese corpo con un gruppo di circa 350 uomini e donne provenienti da 13 nazioni e con stretti legami con alcune delle più importanti istituzioni culturali e artistiche dell’epoca. Il lavoro del gruppo chiamava in causa una combinazione di addestramento militare, storia dell’arte e tecniche di indagine avanzata. Nel suo periodo di attività l’MFAA recuperò complessivamente più di 5 milioni di beni artistici. Come riportato in un’intervista da Robert Edsel, autore del best-seller Monuments men (2010) da cui è stato tratto l’omonimo film di George Clooney del 2014, i grandi successi ottenuti dalle operazioni di recupero contemplano anche qualche fallimento. La singola opera più importante fra quelle mai più recuperate è probabilmente il Ritratto di giovane uomo (1516-1517) di Raffaello, fino al 1939 conservato presso il Museo Czartoryski a Cracovia e successivamente disperso.

Al di là del suo fondamentale risvolto pratico legato al recupero di opere, il lavoro dei “Monuments Men” ha anche un importante valore simbolico nell’aver anticipato un interesse comune che, di lì a pochi anni, avrebbe trovato formalizzazione nella Convenzione dell’Aja del 1954, origine di ogni successiva iniziativa volta al riconoscimento e alla preservazione del patrimonio culturale internazionale.

[ soldati americani recuperano alcune opere sotto la supervisione di James Rorimer (secondo da sinistra), allora Direttore del Metropolitan Museum of Art ]