CREATIVITÀ, INNOVAZIONE, SEGNI, STORIE, TECNOLOGIA, VIDEOGIOCHI

La storia di Pong, il primo successo del mondo dei videogiochi

Maggio 1972, New York, quartier generale della neonata Atari: quando il giovane Allan Alcorn viene assunto come sviluppatore, si trova di fronte a una curiosa sfida. A lanciargliela sono Nolan Bushnell e Ted Dabney, co-fondatori dell’azienda e precedentemente ideatori di Computer Space (1971), cioè il primo coin-up (videogioco da bar azionato da moneta) della storia. Bushnell e Debney domandano ad Alcorn, completamente a digiuno di videogame, di realizzare una versione da sala giochi del “table tennis” del Magnavox Odyssey , prima console casalinga al mondo. Quanto a requisiti grafici, la richiesta è semplice: due barrette, una pallina, delle cifre per indicare il punteggio della partita. Niente di particolarmente creativo.

Alcorn affronta il suo compito in maniera spedita, aggiungendo alcuni dettagli che rendono il gioco più divertente: l’impatto con angoli diversi della barretta cambia la traiettoria della pallina, la cui velocità, scambio dopo scambio, aumenta progressivamente. Soddisfatti del lavoro, Bushnell e Dabney decidono di far debuttare il videogame di Alcorn in un bar newyorkese. L’idea è di testare il gioco per qualche tempo e, nel caso di buoni riscontri del pubblico, venderne i diritti a un’azienda informatica da scegliere tra Bally e Midway. Gli esiti della sperimentazione superano ogni aspettativa già a distanza di una settimana: code all’apertura del bar e videogame inceppato per le troppe monetine inserite. Bushnell e Dabney fanno rapidamente marcia indietro con Bally e Midway e decidono che sarà la stessa Atari a commercializzare il neonato Pong.

In seguito al lancio nel mercato dei bar, il videogioco incassa ben 35-45$ al giorno per macchina. La versione domestica arriva per il Natale del 1975, vendendo immediatamente 150.000 unità. Con questi numeri senza precedenti, il semplice esercizio di allenamento di un programmatore si impone come il primo vero successo commerciale del mondo dei videogame. Il boom di Pong frutta ad Atari anche un patteggiamento in tribunale per aver copiato il gioco originario del Magnovox Odissey, ma – si sa – la storia delle innovazioni passa non di rado anche dai tribunali.

[ illustrazione: schermata dal videogame Pong, 1972 ]

CAMBIAMENTO, ECONOMIA, INNOVAZIONE, SEGNI, TECNOLOGIA

I primi 40 anni del codice a barre

Simbolo del dominio del mercato sulla vita, il codice a barre è con noi da 40 anni. Emanazione del pragmatismo americano, il barcode non è privo di implicazioni sinistre, soprattutto quando prende la forma critica di tatuaggi che sembrano evocare, oltre che segnali di omologazione culturale, ben più sinistri eventi della storia novecentesca.

Il primo articolo acquistato grazie alla mediazione di un codice a barre fu, il 26 giugno 1974 alle ore 08.01 in un supermercato dell’Ohio, un pacchetto di gomme da masticare “Wrigley’s Juicy Fruit”. Il codice utilizzato, noto come Universal Product Code (UPC) era del tutto simile a quelli che oggi vengono scansiti, stando alle statistiche, circa due miliardi di volte al giorno in tutto il mondo.

La storia del codice a barre inizia tuttavia ben prima, portando con sé un particolare stilistico curioso. Il pioniere di questo sistema di codifica fu Norman Joseph Woodland (1921-2012), ingegnere che mise a punto una prima versione del sistema pensando al funzionamento del codice Morse. Il brevetto originario di barcode – registrato nel 1949 – aveva l’aspetto di un bersaglio, nel quale la codifica di un dato era ottenuta attraverso la combinazione di cerchi concentrici. Questa versione non si rivelò del tutto efficace e non venne mai utilizzata fuori da un laboratorio. Woodland, nel frattempo passato in forze all’IBM, lasciò il progetto in eredità ai suoi colleghi. Fra questi, fu George Laurer a mettere a punto il barcode di forma rettangolare utilizzato per la prima volta nel 1974 e che tutti conosciamo.

[ illustrazione: studio per il primo codice a barre messo a punto da Joseph Woodland nel 1948 ]

ARTE, EPISTEMOLOGIA, FILOSOFIA, RAPPRESENTAZIONE, SEGNI

Mike Kelley, Marcel Duchamp e la natura metaforica di ogni conoscenza

«Da un lato i ready-made reagiscono contro la nozione comune dell’arte come facciata, ossessionata dalla rappresentazione, presentando un oggetto “reale” in quanto opera d’arte. Dall’altro, riducono l’idea modernista dell’arte come materialmente autoreferenziale a un’assurdità, poiché è impossibile per questi oggetti “reali”, una volta presentati nel contesto dell’arte, mantenere il loro status di “realtà”».

Così si espresse sui ready-made Mike Kelley (1954-2012), artista americano fra i più sottovalutati degli ultimi anni. A portare chiarezza sulla sua opera e sul suo pensiero è oggi il testo Di tutto un pop. Un percorso fra arte e scrittura nell’opera di Mike Kelley (2014) di Marco Enrico Giacomelli, che ha il merito di ricostruire un’interpretazione del lavoro di Kelley che si lascia guidare soprattutto dai suoi numerosi scritti sull’arte.

Rispetto ai ready-made Kelley mette in luce qualcosa di non scontato. Prendendo le mosse dal comune modo di osservarli, cioè quello della “cosa che diventa arte” nel momento in cui entra in un museo, Kelley fa un passo in avanti e sposta la questione sul piano ontologico e conoscitivo. Il tema non è infatti solo quello del diverso modo di guardare a un oggetto a seconda della sua contestualizzazione. Quel che è in gioco è l’opportunità stessa di poterlo conoscere. L’opera degli artisti che hanno lavorato con i ready-made, su tutti ovviamente Marchel Duchamp (1887-1968), porta con sé un valore filosofico profondo, che va ben al di là della provocazione.

Il ready-made mette sotto scacco la pretesa autoreferenzialità degli oggetti e quindi l’ambizione di poterne acquisire una conoscenza oggettiva, diretta, immediata. Non è facile sbarazzarsi dell’ossessione della rappresentazione di cui Kelley parla. E questo vale in arte come, più in generale, per ogni conoscenza. Estremizzando, ed esprimendo la questione in termini “platonici” che la avvicinano anche all’opera di un artista concettuale come Joseph Kosuth, si potrebbe dire che nessuna conoscenza è in fondo possibile se non per via mediata, cioè attraverso una rappresentazione. In altri termini, ogni conoscenza è metaforica. Con buona pace di chiunque ritenga possibile conoscere la “realtà”.

[ illustrazione: Marcel Duchamp e una delle sue Roue de bicyclette ]

COMPLESSITÀ, IMMAGINI, PERCEZIONE, RAPPRESENTAZIONE, SEGNI

Abitare la complessità, imparando dalle immagini

«Con le parole presentiamo una accumulazione; con le immagini una totalità. Le parole sono perfette per analizzare un’esperienza; per esprimere la totalità abbiamo bisogno delle immagini».

Questa citazione è tratta da L’ordine complicato. Come costruire un’immagine (2008) di Yona Friedman. Questo testo mette in luce come la gestione di ciò che appare complesso necessiti di strumenti diversi da quelli abituali. Il raffronto fra testo e immagine sta a indicare esattamente questa opportunità: se il testo è senza dubbio lo strumento conoscitivo predominante nella civiltà occidentale, l’immagine – a partire dal suo ruolo defilato (in quanto ritenuta dominio dell’immaginario e non della “verità”) – è in grado di offrire un diverso approccio alla conoscenza, che senza la pretesa di essere “superiore” aiuta a costruire un punto di vista più ricco.

Le immagini sono in grado di esplorare e raccontare la complessità grazie alla loro capacità sintetica. Questo è quanto intende Friedman: la totalità che un’immagine restituisce agevola una comprensione sistemica – e non, come solitamente fa il testo, lineare – di ciò che ci circonda. Disegnare e in generale utilizzare le immagini aiuta, per dirla con gli americani, a costruire una “big picture” di un contesto e dunque a orientarsi meglio al suo interno.

[ illustrazione tratta da L’Ordine Complicato (2008) di Yona Friedman ]

EPISTEMOLOGIA, FOTOGRAFIA, METAFORE, PAROLE, PERCEZIONE, SEGNI

La foto vincitrice del World Press Photo e il rapporto tra testo e immagine

Il 13 febbraio 2014 sono stati annunciati i vincitori del World Press Photo di quest’anno. Il premio “photo of the year” se l’è aggiudicato il fotografo di reportage americano John Stanmeyer con l’immagine qui sopra.

Si tratta di una foto di indubbia e immediata forza compositiva. Più ambigua è la lettura del suo contenuto. A prima vista, sembrerebbe di vedere qui rappresentate persone in procinto di immortalare la luna con i propri telefoni. Secondo questa interpretazione, la foto parrebbe dunque in sintonia con l’ampio coro di chi denuncia l’abuso della documentazione – via smartphone e in tempo reale – di ogni momento della vita. Così intesa, l’immagine richiamerebbe in qualche modo l’ormai celebre foto scattata dal fotografo Michael Sohn in San Pietro in occasione dell’elezione dell’ultimo Pontefice. L’interpretazione, benché plausibile, non è corretta.

Il titolo attribuito all’immagine dal fotografo è Signal. Di quale segnale si parla? Con tutta probabilità di quello dei telefoni cellulari. Questa informazione allarga il contesto, ma non contribuisce né a delegittimare l’ipotesi precedentemente illustrata, né a suggerirne con chiarezza un’altra. Per giungere a una diversa ipotesi c’è bisogno di leggere anche le note di accompagnamento della foto, che svelano che essa è stata scattata sulla costa di Djibouti, comune punto di passaggio per migranti provenienti da diverse nazioni africane e diretti verso l’Europa. Le persone qui raffigurate cercano di catturare il segnale telefonico proveniente dalla Somalia, nella speranza di poter così comunicare con i propri cari.

Il rapporto tra testo e immagine messo in luce da questa foto chiama in causa le categorie semiotiche di denotazione e connotazione. Mentre la comprensione del livello denotativo di un’immagine riguarda il suo significato “letterale”, la lettura di quello connotativo lascia spazio a interpretazioni emotive, metaforiche e simboliche. Pensando proprio al rapporto tra fotografie e didascalie, Roland Barthes introdusse nel suo L’ovvio e l’ottuso (1982) il concetto di “ancoraggio”: il testo si àncora all’immagine, guidando (e spesso forzando) non solo la percezione denotativa, ma anche quella connotativa. La foto di Stanmeyer conferma l’efficacia delle riflessioni di Barthes e offre un nuovo affascinante esempio di foto che conduce a riflettere su come guardiamo e interpretiamo il mondo.

[ illustrazione: John Stanmeyer, Signal, 2013 ]

ARTE, CONCETTI, RAPPRESENTAZIONE, SCRITTURA, SEGNI

L’invenzione del cuore come simbolo d’amore

Il Roman de la Poire, attribuito a un certo Messer Thibaut, è un poema allegorico francese del XIII secolo compilato sulla falsariga del coevo e più celebre Roman de la Rose. Benché il primo dei due testi non sia mai riuscito a conquistare un successo pari a quello del secondo, merita di essere ricordato per lo meno per un motivo.

In una delle miniature che ne decorano l’inizio dei paragrafi, per la precisione in corrispondenza di una “S”, compare una allegoria del “dolce sguardo” in cui un uomo, inginocchiato ai piedi dell’amata, offre il proprio cuore in segno di amore. L’elemento conico, stilizzato (e “capovolto” rispetto a come oggi ce lo immagineremmo), rappresenta il primo disegno iconico e allegorico del cuore umano inteso come simbolo e pegno d’amore.

Nel corso del XIV secolo il simbolo del cuore si ripresenta in più occasioni nell’arte italiana, per esempio nell’allegoria della Carità inserita da Giotto fra gli affreschi della Cappella degli Scrovegni di Padova (1305). Un “affinamento” della rappresentazione simbolica del cuore, che porterà a disegnarlo accentuandone punta e incavo e soprattutto capovolgendolo rispetto alle prime raffigurazioni, avrà luogo nel corso dello stesso secolo XIV, fino ad arrivare a una istituzionalizzazione nel secolo XV con il suo inserimento nei mazzi di carte per rappresentare il seme dei cuori.

[ Jeff Koons, Hanging Heart (Red/Gold), 1994-2006 ]

DIVULGAZIONE, FOTOGRAFIA, METAFORE, SEGNI, STORIE

L’ultima foto di Lincoln e il valore culturale degli artefatti

Il cineasta e studioso di fotografia Errol Morris ha recentemente redatto un saggio in più “puntate” per il New York Times. Oggetto della sua indagine è una foto di Abramo Lincoln nota come “the cracked one”. La foto è particolarmente celebre per due motivi: 1) la si ritiene l’ultima immagine di Lincoln prima della morte; 2) il frammento spezzato nella parte alta della foto, la cui linea di rottura coincide con la sommità del capo del sedicesimo presidente americano, ha assunto un ruolo metaforico rispetto alla sua morte di quest’ultimo. Queste due caratteristiche sono così radicate nell’opinione comune che nel 2005 Barack Obama, allora senatore dell’Illinois, volle proprio questa foto per un suo articolo dedicato a Lincoln.

A partire dalla fama e dal ruolo simbolico di questa immagine Errol Morris si cimenta, con un piglio indagatore che ha largamente praticato nel suo eccellente testo Believing Is Seeing: Observations on the Mysteries of Photography (2011), nella ricerca delle origini della foto, che comunemente si ritiene scattata dal fotografo Alexander Gardner il 10 aprile 1865, cioè cinque giorni prima dell’uccisione di Lincoln. Quel che Morris riesce a scoprire, giovandosi di un’indagine legata a storici e collezionisti, è che in realtà questa data non è corretta ma frutto di un’attribuzione più o meno fortunosa. In realtà Lincoln si recò nello studio del fotografo Gardner il 5 febbraio del 1865, quindi circa due mesi prima. Tutto ciò fa sì che l’ultima immagine di Lincoln sia in realtà un’altra, cioè quella scattata dal fotografo Henry Warren il 6 marzo 1865.

Morris è in grado, con un affascinante lavoro di ricerca che prende le mosse da un’immagine (e che vale la pena di leggere in originale), di farci riflettere sulle modalità con cui diamo valore ad artefatti. Tutto il significato della foto del 5 febbraio di Gardner va attribuito al valore simbolico che essa ha acquisito. Le circostanze in cui è stata scattata sono quindi del tutto secondarie rispetto ai processi culturali di cui è stata ed è tramite.

[ illustrazione: ritratto di Abraham Lincoln realizzato da Alexander Gardner il 5 Febbraio 1865 ]

SCRITTURA, SEGNI

Alle origini dell’hashtag

Molti dei simboli tipografici resi popolari da computer e internet provengono da una lunghissima storia, che trae origine dall’intreccio di segno e immagine e si sviluppa nell’evoluzione dei significati. Il testo di Keith Houston Shady Characters: The Secret Life of Punctuation, Symbols, & Other Typographical Marks (2013) racconta le storie di molti di essi.

Un esempio è il simbolo #, in Italia tradizionalmente “cancelletto” (di telefonica memoria), internazionalmente “octothorpe” e, più confidenzialmente – soprattutto grazie a software come Twitter – “hash” o “hashtag”. Le origini del “cancelletto” risalgono al XIV secolo e all’introduzione in scrittura dell’abbreviazione “lb”, che stava in latino per “libra pondo” (cioè “del peso di una libbra”). All’epoca degli amanuensi molte abbreviazioni testuali venivano dotate di una linea orizzontale che attraversava i caratteri ed è in questo modo che, a lungo andare e di semplificazione in semplificazione, “lb” divenne semplicemente “#” e così venne in seguito riprodotto in stampa. Lo studio di Houston lascia a ogni modo pieni di curiosità: la riscoperta del simbolo “#” nel XX secolo in relazione ai tastierini numerici dei telefoni meriterebbe di essere indagata, così come la sua possibile parentela con il virtualmente identico segno del “diesis” usato nella notazione musicale.

[ illustrazione: un esempio di “manicula”, altro segno tipografico di origini antiche ]