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Un romanzo per riflettere  sul futuro della lettura

Da qualche tempo a questa parte, la narrativa americana sta dando prova di un’inclinazione al dar forma a diffuse forme di scetticismo e timore nei confronti nei nuovi media. Primo esempio di questo filone letterario è stato The Circle (2013) di Dave Eggers, sulla cui critica all’invasione della privacy operata dai social media abbiamo già detto qui qualche tempo fa. È ora il turno dell’esordiente Alena Graedon, il cui The Word Exchange (2014) è un thriller che trova i suoi principali riferimenti letterari in Fahrenheit 451 (1953) di Ray Bradbury e nel Platone del Fedro (dialogo contenente la celebre condanna della scrittura).

Nel futuro prossimo immaginato da Graedon, gli smartphone si sono evoluti in uno strumento dal nome Meme (esplicito rimando all’omonimo concetto di “idea autopropagantesi” messo a punto da Richard Dawkins nel 1976). Invadente intermediario rispetto all’intera vita sociale, il Meme assume un ruolo centrale rispetto alle interazioni con il linguaggio. La sua applicazione “Word Exchange” è un dizionario in grado di rispondere – ovviamente a pagamento – alle esigenze linguistiche di utenti sempre più distratti e sempre meno alfabetizzati. Antagonista allo strapotere del Word Exchange è il North American Dictionary of the English Language, unico dizionario cartaceo ancora esistente al mondo. Quando l’editor responsabile della nuova edizione del dizionario scompare misteriosamente, sua figlia Anana si mette immediatamente sulle sue tracce, restando coinvolta in una densa trama di avvenimenti che sarebbe qui scorretto rivelare al futuro lettore.

The Word Exchange è un romanzo reso contemporaneo dal modo in cui risponde all’attuale “revival della lettura analogica” (mai espressione fu più insensata, tanto sul piano formale che su quello concettuale). Fa questo in modo intelligente, giocando con vezzi che denunciano un sincero amore per la cultura bibliografica (la successione dei capitoli che procede in ordine alfabetico; l’uso abbondante – ma non alla David Foster Wallace – delle note) e, soprattutto, costruendo una scrittura godibile, ricca e ricercata. Graedon mostra di avere a cuore il futuro della lettura e più in generale dell’alfabetizzazione, fornendo con il suo romanzo un contributo importante al dibattito, presente e a venire, a riguardo. Difficile, nonostante la sua riflessione suoni a tratti reazionaria, non concordare con la lettura del presente offerta dal libro:

«Why do you think people stopped reading? We read to connect with other minds. But why read when you’re busy writing, describing the fine-grained flotsam of your own life. Compulsively recording every morsel you eat, that you’re cold, or, I don’t know, heartbroken by a football game. An endless stream flowing to an audience of everyone and no one. Who can bother with the past when it’s hard enough keeping up with the present? But we do need the past. And things that last longer than a day».

[ illustrazione: Federico Faruffini, La Lettrice, 1864]

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LAVORO, LETTERATURA, SOCIETÀ

Distopia e taylorismo in “Noi” di Evgenij Zamjatin

Nell’ampio filone della letteratura distopica un posto importante è occupato, al fianco dei celebri Mondo nuovo (Aldous Huxley, 1932), 1984 (George Orwell, 1948) e Fahrenheit 451 (Ray Bradbury, 1953), da un testo poco conosciuto ma non meno importante: Noi, opera del 1921 dello scrittore russo Evgenij Zamjatin (1884-1937).

Il contesto storico e sociale da cui emerge l’anti-utopia di Zamjatin è quello della dittatura stalinista, da lui trasposta in romanzo come un’organizzazione sociale in cui l’oppressione della libertà individuale agita dalla collettività spersonalizzata del “noi” giunge alla sua esasperazione tramite la totale negazione di ogni moto di libero pensiero.

Zamjatin – che di formazione era ingegnere – riconduce la disciplina meccanica e priva di emozioni del regime che descrive niente meno che ai precetti di Frederick Winslow Taylor (1856-1915), facendo di Noi uno dei primi esempi di letteratura esplicitamente critica dei confronti dello Scientific Management e dunque dell’ideologia dell’organizzazione moderna del lavoro nel suo complesso.

Uno dei passaggi chiave del romanzo contiene la descrizione, pubblicata sul “Giornale di Stato” che è organo del regime oppressivo, di un’operazione in grado di rendere felici eliminando il principale nemico della razionalità, cioè la fantasia:

«La bellezza di un meccanismo sta nel suo ritmo incessante ed esatto, simile a quello di un pendolo. Ma voi, allevati fin dall’infanzia al sistema di Taylor, non siete forse diventati esatti come un pendolo? Il fatto è che: un meccanismo è privo di fantasia! […] La colpa non è vostra, siete afflitti da una malattia il cui nome è: fantasia. È un verme che solca la fronte di righe scure. È una febbre che vi spinge a correre sempre oltre, sebbene questo “oltre” inizi là, dove termina la felicità. È l’ultima barricata sulla via che conduce alla felicità. Ma rallegratevi: essa è già stata fatta saltare! La via è sgombra! L’ultima scoperta della Scienza di Stato è la sede della fantasia […]. Una volta che il suddetto plesso venga bombardato a tre riprese con i raggi x, la fantasia non vi affliggerà più. Per sempre! Sarete perfetti, equivarrete a delle macchine, la via che conduce al 100% della felicità è sgombra».

[ illustrazione: particolare della copertina di Noi dall’edizione Garzanti del 1972 ]

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