CITTÀ, CONCETTI, LETTERATURA, METAFORE

Il ritorno impossibile

Quello del ritorno è un topos narrativo antichissimo, che nei secoli ha prodotto innumerevoli variazioni sul modello originario definito da Omero nell’Odissea, il νόστος (nóstos, ritorno) per eccellenza. Quando il νόστος si intreccia con l’άλγος (álgos, dolore), fa la sua comparsa la nostalgia, sentimento sconosciuto all’antica cultura greca la cui origine (di cui si è detto qui) è intrinsecamente moderna.

Fra i tanti racconti di nostalgia che la letteratura contemporanea offre vi è quello reso da George Orwell (1903-1950) in un’opera che precede la seconda guerra mondiale e i suoi due libri più famosi (gli allegorici e visionari La fattoria degli animali e 1984). Si tratta di Una boccata d’aria (1939), romanzo che narra le gesta di un piccolo borghese della provincia inglese che, ormai raggiunta la mezza età e tediato dalla monotonia della sua vita, decide di concedersi una breve fuga nei suoi luoghi natali, che non vede da oltre vent’anni:

Lo sapete che cosa provavo: volevo tornare a galla, prendere una boccata d’aria, come le testuggini marine quando salgono in superficie, mettono fuori il muso e si riempiono i polmoni, prima di rituffarsi fra le alghe e i polipi. Soffochiamo in fondo a un immondezzaio, tutti quanti; ma io ho il modo di uscirne.

Il racconto di Orwell sa essere ironico e insieme amaro: a fronte della calzante metafora della “boccata d’aria” (resa fin dal titolo del libro e significativa anche rispetto all’imminente immersione nella guerra che aleggia sinistra su tutto il racconto), ciò che l’esperienza del ritorno porta con sé è un duro confronto con il cambiamento che ha reso irriconoscibili i luoghi della giovinezza, conducendo il protagonista a riconsiderare totalmente i presupposti del suo viaggio nel passato:

​​”Una cosa alla quale ho detto addio” pensavo scendendo per la collina “è l’idea di rituffarmi nel passato. A che scopo cercar di rivedere lo scenario della propria infanzia? Non esiste più. E volere una boccata d’aria! Non ce n’è, di aria. L’immondezzaio nel quale siamo immersi raggiunge la stratosfera”.

Un ritorno su cui incombe fin dalla prima pagina un destino tragico è quello di Nostalgia, opera postuma di Ermanno Rea (1927-2016). Al suo centro c’è il personaggio un napoletano fuggito all’estero che torna ai suoi luoghi natali dopo quarantacinque anni. È proprio la nostalgia a guidarlo attraverso i luoghi delle sue origini, con una ritrovata familiarità con il quartiere della Sanità che lo porta inizialmente a ritenere che in fondo poco sia cambiato:

Era rimasto identico a se stesso, come se quei quarantacinque anni non fossero mai trascorsi: muri macchiati di nero che continuavano a nascondere – anzi a tentare di nascondere – drammi e miseria a non finire. Eppure… come spiegarsi il fascino quasi irresistibile che quel gorgo di strade, tra vico Centogradi e piazzetta dei Tronari, esercitava su di lui, sino a farne un sito dell’anima?

In seguito è tuttavia il dubbio sul senso del ritorno a prevalere, con un sentimento di disillusione che mette in discussione – proprio come visto in Orwell – la possibilità stessa  che la nostalgia possa avere un esito positivo e non risultare delusa dallo scontro con la realtà, con l’impossibilità di recuperare un passato perduto. Così il protagonista, mettendo per iscritto le sue sensazioni:

Purtroppo però ogni medaglia ha il suo rovescio: fatta la grande scoperta, ho cominciato a torturarmi con un dubbio increscioso, vale a dire se, al di là di ciò che in genere si crede, ha senso tornare sui propri passi; anzi, con parole più esatte, se il ritorno (il Grande Ritorno) sia possibile e auspicabile o non ci esponga piuttosto a delusioni e pentimenti insopportabili. Come puoi immaginare, non ho trovato (per il momento?) una risposta certa alla mia domanda; soltanto mezze risposte, il che è nel mio carattere. 

[ Illustrazione: fotogramma dal film Nostalgia (2022) di Mario Martone ]

ARTE, RAPPRESENTAZIONE, SCRITTURA

La parola, immagine delle cose

Vi è un frammento di Simonide (556 – 468 a.C), poeta lirico greco originario dell’isola di Ceo, che icasticamente descrive la relazione fra parola, percezione e racconto attraverso un parallelismo con il mondo delle immagini:

La parola è un’immagine delle cose.

Secondo la poetessa e saggista americana Anne Carson, la possibilità di pensare in questi termini la parola – e dunque l’opera poetica – è offerta a Simonide dalla trasformazione della pittura in atto nella Grecia del quinto secolo a.C., sulla scorta dell’opera di Polignoto di Taso e degli artisti  che lo seguirono. Nel suo Economia dell’imperduto (1999, tradotto in italiano nel 2020) Carson nota come scorcio, prospettiva lineare e gradazione delle sfumature abbiano trasformato la superficie piana in un mondo di miraggi, capace di ispirare Simonide e la scrittura a venire a un’inedita arte mimetica:

Nessun altro scrittore greco di quel periodo, tranne forse Eraclito, usa il linguaggio in questo modo, come un’unità «sintetica e in tensione» che mette in scena la realtà di cui parla. Questa è la mimesi nel suo meccanismo più radicale. Questa è la struttura ossea dell’inganno poetico.

Con un considerevole salto nel tempo, nella multiforme e personalissima opera Una vita dolce (2022) di Beppe Sebaste la scrittura torna a trovare una sua similitudine nella pittura:

Immagino di scrivere facendo scorrere il pennello sul muro, e far cosí apparire fili di parole morbide e compatte, frasi pescate dal pennello nei barattoli di vernice. C’è bisogno di una trama per pitturare un muro, per far crescere una bougainvillea? La storia non è già l’uomo o la donna che scrive, che dipinge il muro, che innaffia i fiori?

Sebaste prosegue descrivendo la sua fascinazione per l’opera di Paul Cézanne (1839-1906), un altro innovatore della pittura costantemente alla ricerca dell’essenza delle cose. Sebaste guarda a Cézanne come a un’ispirazione per la sua scrittura, riconoscendosi in compagnia di illustri predecessori come Allen Ginsberg (1926-1977), che ammirava la capacità di Cèzanne di “dipingere il guardare” ed Ernest Hemingway (1899-1961), in uno dei cui racconti il pittore francese riveste un ruolo importante. In Scrivere, contenuto nella raccolta I racconti di Nick Adams (1972), Hemingway scrive così del suo Nick:

Lui voleva scrivere come Cézanne dipingeva. Cézanne cominciò con tutti i trucchi. Poi demolì tutto e costruì la cosa vera. Fu tremendo da fare. Fu lui il più grande. Il più grande d’ogni tempo e per sempre.

L’ambizione del Nick di Hemingway, prendendo le mosse dalla trasfigurazione del reale che troviamo in Cèzanne, conduce la scrittura alla ricerca di quell’immagine delle cose che, secondo l’antico sapere di Simonide, la parola può evocare. In un cammino fra mimesi e astrazione, seguire i percorsi che collegano immagine e parola offre spunti per descrivere l’ambizione forse più alta della scrittura, quella di farsi libera, leggera, ammaliante.

[ Illustrazione: Paul Cèzanne, Il lago di Annecy, 1896. Londra, Courtauld Institute Galleries ]

FOTOGRAFIA, LAVORO

Estetica dell’ufficio

La rappresentazione dell’ufficio contemporaneo nell’immaginario collettivo sembra essersi cristallizzata in una “time capsule” compresa fra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei primi 2000. La sua iconografia è caratterizzata da una cornice ironica e grottesca, tipicamente americana, il cui esempio perfetto è la striscia Dilbert prodotta dal fumettista Scott Adams dal 1989. Estratti da un fumetto sembrano anche i personaggi del film Office Space (1999) di Mike Judge (che, a proposito di cartoon, è creatore anche di Beavis and Butt-head) e, forse ancor di più, quelli del The Office ideato dal comico inglese Ricky Gervais, non tanto nella serie britannica del 2001 quanto nel remake americano del 2005.

Al pari del fumetto e del cinema, anche la fotografia si è occupata dell’ufficio contemporaneo, proseguendo lungo un filone di documentazione di ambienti e scene di lavoro che trova illustri predecessori, fra gli altri, in Walker Evans, Lee Friedlander o Chauncey Hare. Fra gli artisti attivi fra gli anni ’80 e 2000 spiccano tre fotografi appartenenti all’ultima generazione di “baby-boomer”: lo svedese Lars Tunbjork (1956- 2015), la britannica Anna Fox (1961) e l’americano Steven Ahlgren (1962).  Di quest’ultimo si può sfogliare il libro The Office (2022), raccolta di immagini prese fra il 1990 e il 2001.

Proprio come negli esempi cinematografici citati, anche la fotografia porta con sé un’ispirazione fumettistica, evidente soprattutto nello sguardo ironico sempre presente nelle immagini. Ma vi è di più: la natura del medium fotografico lascia spazio a una seconda prospettiva, più emotiva e malinconica, a tratti fors’anche tragica. Ahlgren stesso la riconduce, nelle righe di introduzione al volume, alla pittura di Edward Hopper (1882-1967) e in particolare all’opera Office at Night del 1949 (del resto spesso utilizzata come copertina per saggi e romanzi di tematica inerente al lavoro). Le parole di Ahlgren sono eloquenti:

I was struck by the Hopper painting – oh my gosh, look at this. Here’s a scene in an office where I am every day that seems so pedestrian. I kept coming back to it because, like so many of his paintings, it lets you make up your own story. I was trying to figure it out but I never really resolved in my mind what was happening there.

The OfficeLa nota di Ahlgren aiuta a evidenziare una delle caratteristiche più preziose della fotografia: la sua ambiguità. Il continuo chiedersi “che cosa sta succedendo là” è un’esercizio di osservazione e interpretazione cui ogni  buona fotografia, in quanto portatrice di una mistura di oggettività e mistero, conduce l’osservatore. In questo senso, per quanto l’estetica dell’ufficio possa apparire a tratti eccessivamente simbolica e stereotipata e, come notato nelle prime righe, in qualche modo “bloccata” nel ventennio 1990-2000, sfogliare le immagini di Steven Ahlgren porta soprattutto, ancora più che a sorridere, a porsi domande sulla nostra ambivalente relazione con il lavoro.

[ Illustrazione: fotografia dal libro The Office di Steven Ahlgren (2022) ]