STORIE

Sulle tracce di Santa Claus

Le origini di Babbo Natale / Santa Claus derivano dallo sviluppo folcloristico cui il culto di San Nicola fu soggetto all’interno di diverse tradizioni nazionali. Un decisivo contributo alla definizione del personaggio e delle sue fattezze proviene da una poesia pubblicata il 23 dicembre 1823 sul quotidiano «New York Sentinel» con il titolo A Visit from St. Nicholas. Il poema narra di un folletto dalla lunga barba bianca, paffuto e bonario, che viaggia su una slitta trainata da renne. Dimensioni da folletto a parte, si tratta proprio del Babbo Natale che tutti conosciamo.

A Visit from St. Nicholas venne originariamente pubblicata in forma anonima e rimase tale fino al 1844, anno in cui Clement Clarke Moore (1779-1863), insegnante di lingue straniere e studioso di teologia, ne assunse non senza riluttanza la paternità. Secondo quando si tramanda, Moore avrebbe composto la poesia intorno al 1821 o 1822, intendendola come dono per i propri figli e quindi indirizzata a un uso familiare. Fu un’amica, a sua insaputa, a spedirla al «New York Sentinel» nel 1823.

Assecondando una diversa e meno popolare versione, la poesia andrebbe attribuita al poeta Henry Livingston Jr. (1748-1828), il quale sarebbe stato solito recitarla ai suoi figli fin dai primi anni dell’Ottocento. In mancanza del manoscritto originario, apparentemente andato distrutto in un incendio, ad avvalorare questa seconda versione è solo l’insistito – e opinabile – parere degli eredi di Livingston.

[ illustrazione: i versi finali di A Visit from St. Nicholas in un’edizione del 1931 impreziosita dai disegni di Arthur Rackham ]

APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, IRONIA, LAVORO, SCUOLA, TECNOLOGIA

Apprendimento a distanza: ecco perché non è proprio una novità

Da qualche tempo si parla moltissimo di MOOC, Massive Open Online Courses, cioè corsi para-universitari on-line cui chiunque può accedere gratuitamente. Le più note istituzioni a offrirli sono le americane Khan Academy e Coursera, la seconda delle quali ospita anche alcuni corsi sperimentali delle università italiane Sapienza e Bocconi.

I MOOC sono una delle più aggiornate declinazioni dell’apprendimento via web (o, per usare un altro acronimo, della FAD, Formazione A Distanza). Il giornalista americano Thomas Friedman ha descritto i MOOC come una “rivoluzione nell’educazione universitaria”, mentre il guru della disruptive innovation Clayton Christensen è giunto a predire che causeranno l’imminente bancarotta delle università tradizionali. Che l’istruzione universitaria si trovi in uno stato di inadeguatezza tale da motivare una sua ristrutturazione è fuor di dubbio. Pensare che sia possibile attuarla abbandonando le aule e affidandosi al solo apprendimento a distanza è non solo demagogico e velleitario ma, molto più semplicemente, sbagliato. Un simile discorso vale, mutatis mutandis, per la formazione post-universitaria e lavorativa.

Per riflettere sull’insostituibilità dell’imparare in presenza – di cui è da sempre alleato quel fantastico strumento di “apprendimento a distanza” che si chiama libro – è utile confrontarsi con un articolo dello studioso di tecnologie Nicholas Carr. Dall’ironico testo emerge come l’idea di una rivoluzione educativa legata agli strumenti della formazione a distanza sia un miraggio di cui l’entusiasmo per le nuove tecnologie ci porta ciclicamente a essere vittime.

L’indagine può partire dal 1878 e dalla nascita del fonografo: un entusiastico articolo del «New York Times» vide nell’opportunità di registrare e riascoltare lezioni la prefigurazione di una scuola “interamente condotta da macchine”. Le registrazioni audio sono certo diventate un prezioso ausilio per percorsi di apprendimento di vario tipo (basti pensare allo studio delle lingue straniere), ma per fortuna nessuna macchina parlante ha mai sostituito gli insegnanti in carne e ossa. Passando al 1885, il docente di Yale William Rainey Harper si fece propugnatore di un insegnamento “per posta” che avrebbe sostituito le normali scuole e università. In questo caso, l’insegnamento per corrispondenza ha avuto nel corso degli anni un discreto successo, ma nessun diploma di questo tipo può essere minimamente comparato nei suoi esiti a quello di una vera università.

Nel 1913 Thomas Edison dichiarò che il cinema avrebbe “completamente cambiato l’istruzione nell’arco di 10 anni”. Così non è stato: il più concreto esperimento volto in questa direzione, quello dei “cinegiornali”, si è avvicinato molto più alla propaganda che non all’educazione. Un simile discorso vale per la radio (nel 1927 l’Università dello Iowa immaginò che essa avrebbe reso la scuola completamente diversa) e per la televisione, da cui tra gli anni ’50 e ’60 ci si aspettava una rivoluzione in chiave educativa che non ha mai realmente avuto luogo (su questo tema utile ricordare le riflessioni di Neil Postman e Carlo Freccero).

Nel 1984, anno di lancio del Macintosh, lo studioso del MIT Seymour Papert affermò che i computer avrebbero fatto “esplodere” la scuola. Per comprendere come non sia stato così, è sufficiente guardare agli alterni risultati delle lavagne interattive multimediali (LIM) nelle nostre scuole. Poco ha aggiunto lo sviluppo di quanto oggi si etichetta come web 1.0, prefigurato in un articolo del «Times» di fine anni ’90 come la killer application in ambito educativo, sia per le università che per le imprese. Internet non ci ha certo resi più bravi ad apprendere: la stessa Wikipedia funziona il più delle volte come un semplice sostituto dei “bigini” che erano in voga prima dell’era di internet, con un tema di attendibilità dei contenuti spesso controverso. Su questa linea si iscrivono anche i più recenti sviluppi del web 2.0, che conducono direttamente ai MOOC.

In somma: dal 1878 a oggi (e forse si potrebbe andare ancora più a ritroso di quanto fatto da Carr), le innovazioni improntate alla formazione a distanza sono state innumerevoli, in molti casi accompagnate da buoni successi economici per i loro sostenitori. Per quanto riguarda la messa in luce di un riconoscibile valore legato all’apprendimento, gli esempi passati in rassegna mostrano di essere tutt’altro che rivoluzionari.

[ illustrazione: l’inventore americano Hugo Gernsback indossa un paio di “television eyeglasses”, 1963 ]

ARTE, CAMBIAMENTO, CULTURA, INNOVAZIONE, MARKETING, MUSICA, SOCIETÀ, STORIE

Alex Steinweiss, l’uomo delle copertine

L’arte delle copertine di disco, provvidenzialmente rinvigorita dal revival vinilistico dell’ultimo decennio, ha una data di origine: 1938. Questo fu l’anno in cui l’allora ventiduenne grafico newyorkese Alex Steinweiss (1917-2011) venne assunto dalla Columbia Records.

Per il marketing della musica, si trattò di una vera e propria rivoluzione: la celeberrima sinfonia n. 3 di Ludwig van Beethoven, apparentemente un disco non certo bisognoso di particolare promozione, beneficiò di un incremento delle vendite di quasi il 900% dovuto alla versione con copertina illustrata da Steinweiss.

Ma che aspetto avevano le copertine prima del 1938? Fino a quel momento, tutti i dischi – allora in formato 78 giri – erano accompagnati da una spartana custodia che ne indicava esclusivamente titolo e autore. Steinweiss, annoiato da un design di così basso profilo – e ispirato dai manifesti modernisti tedeschi e francesi – propose ai dirigenti della Columbia di poter mettere alla prova la sua creatività. Per nostra fortuna, questa opportunità gli venne di buon grado concessa: Steinweiss divenne in breve direttore artistico dell’etichetta discografica e nel corso della sua carriera realizzò oltre 250.000 copertine.

Gli amanti dei vinili devono a Steinweiss anche un’altra innovazione: nel 1947, anno di nascita del disco a 33 giri, Steinweiss inventò le buste di carta che contengono i vinili, completando così un formato di packaging che oggi, a quasi settant’anni dalla sua introduzione, continua a dimostrarsi ineguagliabilmente bello ed efficace.

[ illustrazione: copertina di Alex Steinweiss per il disco Bing: A Musical Autobiography di Bing Crosby, 1954 ]

CONCETTI, LAVORO, METAFORE, PAROLE, SOCIETÀ

Sbarcare il lunario

In tempi di crisi, “sbarcare il lunario” è espressione fin troppo utilizzata. Ma cosa significa e come nasce?

Partiamo dalla parola “lunario”: si tratta di un almanacco, simile al calendario ma arricchito da informazioni relative a fenomeni celesti ed eventi di varia natura. Nasce nel tardo Medioevo come strumento principalmente rivolto ad agricoltori e naviganti, per i quali tenere sotto controllo i cicli climatici stagionali era particolarmente utile. Con l’invenzione della stampa, il lunario trova diffusione di massa e si sviluppa assecondando interessi e peculiarità nazionali. Celeberrimo in Francia fu l’almanacco di Nostradamus (1503-1566), pubblicato nel 1550 e ricco di “previsioni” da molti ancora oggi tenute in alta considerazione. Primo lunario a stampa italiano fu l’Almanacco di Barbanera, nato a Foligno nel 1762 e tuttora in produzione. Dato il suo riferimenti alle fasi lunari e dunque alle mensilità, il termine “lunario” entra ben presto in uso comune come sinonimo del periodo di dodici mesi dell’anno.

Più semplice il discorso sullo “sbarcare”, verbo normalmente riferito al comune e auspicato esito di tragitti marittimi. Assumendo come metafora la navigazione in acque sommosse e tempestose, ecco che “sbarcare il lunario” giunge a indicare il periglio e la fatica di riuscire a giungere sani e salvi – con un’interpretazione prettamente legata alle risorse economiche – al termine di ogni mese e finalmente alla conclusione d’anno.

Secondo la Treccani, l’espressione inizia a fare la sua comparsa nella lingua scritta nel corso dell’Ottocento. Alcuni versi del poeta toscano Giuseppe Giusti (1809-1850) recitano:

«Si rassegna, si tien corto, / colla rendita d’un orto / sbarca il suo lunario».

Per citare un altro poeta toscano, Giosuè Carducci (1835-1907) scrive in una lettera del 1869 al proprio editore lamentandosi così:

«Mi conviene far conto anche di queste minuzie, per isbarcare mese per mese alla meglio il mio lunario».

[ illustrazione: Almanacco di Barbanera, 1762 ]

ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, IRONIA, LAVORO, METAFORE, SOCIETÀ

Chi ha paura della barba manageriale?

È probabile siano in molti ad aver notato sul volto di Sergey Brin, co-fondatore di Google, lo spuntare di una barba; quasi certo è che Stephen Mihn, collaboratore del «New York Times», sia il solo ad aver pensato di tratteggiare un’analisi manageriale ispirata a questa emergenza pilifera.

Assecondando il punto di vista di Mihn, la storia degli intrecci fra capitale e irsutismo facciale può essere riassunta da un’opposizione binaria: quando a primeggiare è l’idiosincratica affermazione imprenditoriale del singolo, le barbe germogliano; nei periodi in cui il mercato impone la lingua spersonalizzata e inglobante delle corporation, sono invece schiuma e rasoio a dettar legge.

Per gran parte dell’età moderna, i rappresentanti di spicco del mondo economico – tanto in Europa quanto negli USA – hanno dato prova di avere a cuore un volto ben rasato. Attorno alla prima metà dell’800, questo trend è stato ulteriormente rafforzato dalle scelte estetiche dell’élite intellettuale socialista: le barbe di Marx ed Engels si sono rapidamente imposte come simbolo della lotta al capitalismo, spingendo chi stava dall’altra parte della barricata, terrorizzato, ad ancor più frequenti visite al barbiere di fiducia.

I moti nazionali del 1848 in Europa, così come la guerra civile in terra americana, segnarono un’inversione di rotta, associando i peli facciali all’affermazione di un patriottico e borghese senso di mascolinità. In seguito a questo rivolgimento sociale, la barba diventa tratto essenziale della classe capitalista. Titanici uomini d’impresa come Andrew Carnegie o Henry Clay Frick – peraltro passato alla storia come “peggior amministratore delegato di sempre” – fecero della loro barba larger than life un amuleto di individualismo e dominio sul mercato.

Le cose cambiarono di nuovo a fine ‘800: la ribellione della forza lavoro mondiale generò leader operai contraddistinti da lunghe, spettinate barbe. Il vello facciale tornò a spaventare il capitalismo, che non poté fare a meno di riprendere a rasarsi con cura (in suo aiuto giunse, nel 1901, il primo rasoio di sicurezza Gillette). Negli corso del Novecento barba e baffi sparirono, lasciando campo al dominio del liscio, inespressivo volto del dirigente delle grandi multinazionali.

Negli anni 2000, la barba appare priva di particolari connotazioni ideologiche e non spaventa più nessuno. Ecco perché sembra così adatta – al netto della moda hipster, secondo molti ormai in calo – per il volto del capitalismo geek rappresentato da Sergey Brin.

[ illustrazione: Robert Taylor, Dictionary of Beards,  2010 ]