APPRENDIMENTO, CULTURA, FUMETTO, IRONIA, LINGUAGGIO

我说中文!

«Per me parla cinese!» è un’espressione paradigmatica della cultura italiana, legata alla difficoltà di destreggiarsi con una lingua percepita come ostica sia dal punto di vista della pronuncia che della grafia. C’è da chiedersi se il detto continui oggi a conservare il suo senso in relazione alla crescita di importanza economica, politica e culturale della Cina di fronte al resto del mondo e al conseguente aumento del numero di studenti che, anche in Italia, si cimentano con il cinese.

Pensando a chi studia questa lingua, la divulgazione del cinese sta assumendo prospettive molto interessanti dal punto di vista dell’apprendimento, con app per smartphone come Hello Chinese o ChineseSkill, carte da studio (stile flash card) come quelle di Chineasy  e, in generale, moltissima letteratura didattica.

In Italia uno degli approcci più curiosi – anche se del tutto idiosincratico e senza pretese di completezza – è quello del libro Il Cinese a Fumetti (2017) dell’illustratore Stefano Misesti, che da diversi anni vive fra l’Italia e Taiwan e ha deciso di dar forma, prima sul web e poi su carta, a una serie di sorprendenti lezioni dedicate ad apprendere il cinese tradizionale.

Ogni lezione si concentra su una o più parole cinesi, approfondendone il senso sia grazie al disegno di forme che rendono più “leggibile” l’ideogramma che all’analisi di suoni – onomatopee o forme apparentemente irrelate prese dall’italiano – che costruiscono relazioni inaspettate. È dunque soprattutto l’ironia a diventare motore per la memorizzazione delle parole e la crescita dei curiosità per una lingua e una cultura piene di fascino.

[ Illustrazione tratta dal blog di Stefano Misesti  – nota: l’espressione cinese del titolo è “wǒ shuō zhōng wén!”, vale a dire “io parlo cinese!”]

COMPLESSITÀ, COMUNICAZIONE, CULTURA, LINGUAGGIO, METAFORE

Lost in translation: che cosa perdiamo nel passaggio da una lingua all’altra?

Tradurre significa, secondo l’etimologia latina del verbo, trasferire, spostare o ricollocare. Quando traduciamo un testo, trasportiamo un significato – che solitamente riteniamo astratto – da una lingua all’altra. L’operazione non è facile: chiunque vi si cimenti seriamente presto o tardi scopre che, come si suol dire, “tradurre è tradire”. Questo accade perché nessun concetto può essere del tutto astratto dalle parole usate per esprimerlo all’interno di una certa lingua. Chi traduce deve mettere in conto il fatto di poter perdere per strada qualcosa che è spesso ineffabile perché ha a che fare con i tratti idiosincratici di una cultura e con gli elementi estetici di uno specifico linguaggio.

Su questi temi riflette, attraverso la sensibilità dell’illustratrice americana Ella Frances Sanders, il libro Lost in Translation
(2014). Il volume è un peculiare vocabolario che affianca a ogni parola selezionata, espressa nel suo linguaggio originario, una sua duplice parafrasi: alcune righe di testo che la descrivono per sommi capi (in inglese) e una illustrazione che la rappresenta. La selezione è ben curata e ricca di spunti di riflessione sui paradossi della traduzione. Partendo dall’italiano: siamo sicuri che sia semplice trasferire in un’altra lingua l’idea espressa dal verbo “commuovere”? Oppure, pensando alla lingua tedesca, come tradurre in una parola il concetto di “kummerspeck”, che indica il processo per cui si assume peso mangiando eccessivamente a causa di un trauma emotivo? O ancora: come rendere appieno l’idea indiana, recentemente popolarizzata dagli studiosi dell’innovazione frugale, di “jugaad”? Questi e molti altri esempi animano le pagine di Lost in Translation, testo che si lascia sfogliare con piacere accrescendo nel lettore la consapevolezza dell’incommensurabilità fra lingue e culture, nonché il piacere della scoperta e del confronto con il diverso.

[ illustrazione: immagina tratta dal libro di Ella Frances Sanders Lost in Translation (2014) ]