APPRENDIMENTO, CINEMA, COLLABORAZIONE, DIVULGAZIONE, JAZZ, METAFORE, STORIE

Ecco perché Whiplash non parla di apprendimento (anche se è un film da Oscar)

Whiplash (2014), lungometraggio del ventinovenne Damien Chazelle, è candidato per la cerimonia degli Oscar 2015 a ben cinque premi, fra cui miglior film e miglior attore non-protagonista. Il film narra l’apprendistato di un giovane batterista jazz (interpretato dal giovane Miles Teller), il cui percorso di studi è guidato da un insegnante (un intenso J.K. Simmons) i cui metodi, basati sulla violenza verbale e fisica, sono alquanto discutibili.

Il film è una tesa e inquietante messa in scena di un rapporto maestro-dicepolo basato sull’abuso di potere e sulla manipolazione. Gli attori sorreggono perfettamente la sceneggiatura e J.K. Simmons in particolare si produce in una performance superba, decisamente degna di un Oscar.

Whiplash gioca su un piano morale controverso e, come dichiarato in un’intervista dallo stesso Chazelle, pone lo spettatore di fronte a un dilemma: il fine giustifica i mezzi? Nel porsi questo domanda bisogna fare attenzione a non cadere in inganno. Whiplash non parla, come a tutta prima potrebbe sembrare, di apprendimento. Né di motivazione propriamente intesa. Come notato, il film è incentrato su un abuso di potere che non può in nessun modo essere inteso come una lezione sull’efficacia di un insegnamento condotto, con stampo militaresco, in maniera punitiva e violenta.

Sono in molti a essersi scagliati contro il messaggio potenzialmente controverso del film. In particolare, gli appassionati di jazz hanno trovato indebito l’utilizzo di un aneddoto loro particolarmente caro, cioè quello sull’episodio in cui il sassofonista Charlie Parker imparò qualcosa di decisivo per il suo apprendimento. Nella versione cinematografica, l’episodio è raccontato in questi termini: quando Parker era, appena sedicenne, agli inizi del suo apprendistato musicale, gli capitò di suonare in jam session con l’orchestra del grande pianista Count Basie. Quando salì sul palco, il suo assolo fu immediatamente bloccato dal batterista Joe Jones, che gli scaraventò addosso, mancando di poco di colpirlo alla testa, un piatto della batteria. In seguito a questo episodio – narra nel film il dittatoriale maestro di musica – Parker fuggì dal palco e si rinchiuse in casa a studiare per evitare di incorrere di nuovo in simili punizioni sul palco. Fu così che, lavorando duramente su se stesso, Parker divenne poi “bird”, cioè il più grande sassofonista di tutti i tempi. Come ogni appassionato di jazz sa bene – e come notano le riviste «Slate» e, con particolare acrimonia, «New Yorker» – , non andò proprio così.

L’episodio è piuttosto noto, raccontato da diversi libri dedicati a Charlie Parker fra i quali il più recente è l’ottimo Fulmini a Kansas City (2014) di Stanley Crouch. Il batterista Joe Jones non tirò il piatto addosso a Parker per colpirlo, ma lo gettò a terra a mo’ di gong, come a dire: “il tuo tempo sul palco è scaduto, pivello”. Questo gesto, una consuetudine delle jam session della band di Basie, bollava ironicamente la performance di un musicista suggerendogli di tornare a far pratica. Parker se ne andò dal palco in effetti sconsolato, ma dal quel momento prese per lui avvio uno studio della musica molto attento alla dimensione relazionale, sorretta dal positivo rapporto con maestri, mentori e compagni di jam session. L’aneddoto non racconta dunque né di un gesto violento e punitivo né di un supposto valore perfezionista di una pratica solitaria (quella su cui si concentra il protagonista di Whiplash). Trasferisce al contrario un gesto tutt’al più ironico e, soprattutto, il senso di un apprendimento autentico perché relazionale. Questa è la lezione più preziosa offerta dal jazz a chiunque si confronti con l’imparare. Una lezione che un film pur ottimo come Whiplash manca totalmente di cogliere.

[ illustrazione: fotogramma dal film Whiplash di Damien Chazelle – 2014 ]

APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, CITTÀ, COLLABORAZIONE, COMPLESSITÀ, DECISIONE, DEMOCRAZIA, ECONOMIA, MANAGEMENT, METAFORE, MOBILITÀ

Meno regole, più responsabilità

La vicenda non rappresenta proprio una novità; suona piuttosto come la conferma di una tendenza ormai storicamente consolidata: a inizio 2015 anche Chicago inaugurerà, seguendo l’esempio di diverse città europee, una “shared street”, vale a dire una strada urbana priva di marciapiedi, corsie e segnaletica in cui i cittadini dovranno imparare a praticare l’auto-organizzazione.

I primi esperimenti orientati a una diversa gestione del traffico e della sicurezza urbana risalgono a ormai più di venti anni fa. Avanguardia di questa svolta nella mobilità è stata l’Olanda, nazione bike-friendly particolarmente attenta ai disagi generati dal traffico e capace di innestare un reale cambiamento culturale atto a evitarli. L’innovazione olandese è principalmente riconducibile al nome di Hans Monderman (1945-2008), ingegnere del traffico che già negli anni ’90 iniziò a praticare nella regione della Frisia – e in particolare nella cittadina di Drachten – l’idea di responsabilizzazione urbana che oggi giunge fino agli USA.

Come nota un articolo di «Pagina 99», quanto verrà chiesto ai cittadini di Chicago è di rinunciare a una regolamentazione del traffico eterodiretta, al fine di abbracciare una condotta di continua negoziazione delle precedenze e dunque dell’attenzione dedicata agli spostamenti cittadini. Faticoso, certo, ma sembra valerne davvero la pena: le statistiche provenienti dall’Olanda e dagli altri luoghi in cui le “shared street” sono già in uso parlano di un netto calo degli incidenti e di un generale miglioramento della mobilità.

«You’re not stuck in the traffic, you’re traffic!», sostiene un mantra popolarizzato negli ultimi anni tanto nel campo della viabilità cittadina quanto, come metafora, nel pensiero manageriale e organizzativo. In tema di riflessioni metaforiche sul tema della responsabilizzazione in contesti aziendali, a rendere particolarmente simbolici gli esempi delle “shared street” è anche l’avvallo di una teoria sulla compensazione del rischio nota come “effetto Peltzman” (dal nome dell’economista – guarda caso di Chicago – che per primo la tematizzò).

Ogni qual volta ci si sente al sicuro all’interno di un sistema di regole,  si diventa – nota Peltman – molto meno cauti. Superficialmente attenti a rispettare le norme ma, di fatto, proni a infrangerle. Al contrario, una situazione che enfatizza il rischio percepito porta naturalmente a generare un’assunzione di responsabilità collettiva. Lungi dall’essere utile soltanto a chi si occupa di mobilità cittadina, l’effetto Peltman riguarda qualsiasi azienda in cui la dialettica fra norma e responsabilità non sia giunta a un adeguato livello di sintesi.

[ illustrazione: Alberto Sordi in un fotogramma dal film Il vigile di Luigi Zampa, 1960 ]

ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, COLLABORAZIONE, COMUNICAZIONE, LAVORO, MOBILITÀ, PERCEZIONE, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

Cosa perdiamo quando guadagniamo tempo grazie alla tecnologia?

Con Diario d’antepace (1950) lo scrittore svizzero Max Frisch ha composto un’eterogenea raccolta di note di viaggio, abbozzi letterari, pensieri sulla natura umana. Molte osservazioni contenute nel libro riguardano il ruolo assunto dalla tecnica nel mutare la nostra percezione delle distanze spaziali e temporali. Pensando all’oggi, è senz’altro facile allinearsi al coro di quanti sostengono che i più moderni mezzi di comunicazione connettono “annullando le distanze”. È d’altro canto innegabile che tutti noi facciamo quotidiana esperienza della fredda e impersonale relazione instaurata, tanto in ambito lavorativo quanto personale, da strumenti come le e-mail. Più di sessant’anni fa, Frisch riconosceva con profonda lungimiranza questo fenomeno, notando come:

«Non sappiamo più prendere sul serio delle persone quando non le abbiamo più a portata dei nostri occhi».

In tema di tecnica e annullamento delle distanze, uno dei passaggi più acuti del testo di Frisch è dedicato alle indesiderate conseguenze dell’innovazione legata ai mezzi di traporto e, nello specifico, al treno. In tempi in cui un viaggio Roma-Milano necessita ormai meno di tre ore, è  il caso di chiedersi se guadagnando tempo perdiamo forse qualcosa:

«Esattamente cent’anni or sono, la prima ferrovia attraversava il nostro paese: trenta chilometri all’ora. È chiaro che non ci si poteva fermare lì. Il segno che abbiamo superato il nostro ritmo è nel disappunto che proviamo ogni volta che una macchina ci sorpassa; è vero che noi stessi corriamo a tale velocità che la mia percezione della realtà non ce la fa più a tenerle dietro; ma nella speranza di raggiungere un’esperienza perduta, acceleriamo ancora. È la promessa diabolica che ci attira sempre più verso il vuoto. Neanche un aereo a reazione raggiungerà il nostro cuore. Esiste, sembra, una misura umana che non possiamo modificare, ma solo perdere. Che l’abbiamo perduta, è fuor di dubbio; il problema è ora questo: possiamo riacquistarla e come?».

[ illustrazione: particolare da Il treno di Fortunato Depero, 1926 ]

APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, UFFICI

Corsi e ricorsi della flessibilità lavorativa, da Keynes a Richard Branson

I costumi manageriali si prestano ad analisi che possono rispondere, a seconda delle preferenze, a un’interpretazione evolutiva oppure ciclica. Un tema che ben si adatta a entrambe le chiavi di lettura è quello del work / life balance. Dall’introduzione delle otto ore lavorative alle keynesiane Possibilità economiche per i nostri nipoti, fino a giungere ai più contemporanei dibattiti sullo smart working, il tema affiora dal dibattito manageriale con periodica regolarità.

Il caso più recente è quello di Carlos Slim, magnate delle telecomunicazioni messicane – e uno degli uomini più ricchi del mondo – che propone, ispirandosi a Larry Page di Google, un modello lavorativo basato su tre giorni di lavoro alla settimana. Subito gli fa eco la Virgin di Richard Branson, che inizia ad applicare in GB e negli USA una politica di orario settimanale che concede più libertà ai propri addetti. Grande entusiasmo, ma funzionerà? Un esempio tratto dal recente passato può aiutare a considerare il tutto con la giusta prospettiva.

A partire dal 2003 Best Buy, il più grande rivenditore al dettaglio di elettronica di consumo negli Stati Uniti, è stato teatro di una piccola rivoluzione nel segno della flessibilità lavorativa. Ne sono state autrici due addette del settore HR dell’azienda, Cali Ressler and Jody Thompson. Grazie alla loro iniziativa, un nuovo vocabolo è entrato nel lessico aziendale: ROWE, acronimo di Results-Only Work Environment. Portando alle estreme conseguenze i principi base del lavoro per obiettivi, Ressler e Thompson hanno formulato una risposta a una domanda ricorrente in qualsiasi organizzazione: cosa accadrebbe se gli impiegati potessero lavorare come meglio credono sugli obiettivi loro assegnati?

Una maggiore libertà operativa nel raggiungimento dei risultati attesi ha un’immediata implicazione, vale a dire la possibilità di svincolare il lavoro dall’asfissiante – e poco efficiente – logica della presenza. L’unico modo per applicare con successo il ROWE è basare le relazioni lavorative sulla fiducia: un manager deve gestire il lavoro, non le persone; queste ultime, da parte loro, devono dar prova di una matura assunzione di responsabilità. Tutto ciò è stato formalizzato da Ressler e Thompson nel testo Perché il lavoro fa schifo e come migliorarlo (2008).

Il modello ROWE è stato applicato in Best Buy con successo per alcuni anni, passando al vaglio delle analisi accademiche e, soprattutto, registrando tassi di produttività direttamente proporzionali al calo del turnover. E sul lungo periodo? A distanza di dieci anni, con l’arrivo di un nuovo CEO – e grosso modo in parallelo con le impopolari scelte anti-telelavoro della Yahoo di Marissa Mayer – Best Buy è tornata alla più classica delle applicazioni del lavoro in presenza. Corsi e ricorsi delle mode manageriali.

[ illustrazione: fotogramma da Office Space di Mike Judge, 1999 ]

ANTROPOLOGIA, COLLABORAZIONE, COMUNICAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT, NEGOZIATO

Il malinteso, ovvero della possibilità del confronto

Il malinteso (2003) dell’antropologo Franco La Cecla è un testo che dovrebbe essere studiato da chiunque nutra un sincero interesse per il tema del confronto e del negoziato. La Cecla ci dona una ricca antropologia dell’incontro, di cui il malinteso costituisce il vero, insostituibile presupposto.

Il malinteso è l’emergenza di un’alterità che permette il riconoscimento di un’identità. È un territorio di frontiera nel quale il misunderstanding aiuta a concedere il tempo dovuto a un processo di understanding. L’avvicinamento è fisico, concreto, umano. Per questo La Cecla ridimensiona il ruolo normalmente attribuito alla comunicazione: quest’ultima è solo un surrogato del malinteso, è un “imperialismo” che impone un’uguaglianza solo apparente che appiattisce le originarie differenze di identità. In tema di comunicazione, particolarmente critica è la considerazione del fenomeno internet (La Cecla scrive nel 2003, quindi in era pre-Facebook), colpevole di anestetizzare le coscienze e far smarrire il fertile senso di ambiguità e irresolubilità che solo un incontro in presenza, faccia a faccia, è in grado di generare.

Ulteriore pregio di un libro pressoché perfetto è il rimando al nesso tra fraintendimento e improvvisazione:

«L’incontro è qualcosa di improvviso, un apparire dell’altro nella sua inaspettatezza, nella sorpresa, nell’inconciliabilità del suo essere come non me lo aspetto e come non me lo posso inventare».

C’è qualcosa di rischioso nel ricercare il malinteso, un azzardo appartenente alla stessa categoria di esplorazione che è propria dell’improvvisazione. Muoversi nel terreno non scritto dell’improvvisazione significa – parafrasando qui le parole di Keith Johnstone, pioniere del teatro improvvisativo – camminare all’indietro come un gambero, tenendo sott’occhio le personali esperienze e conoscenze del passato e inoltrandosi verso un futuro che si dispiega, in un processo di negoziazione col diverso, senza che possa essere sotto controllo. Questa disponibilità all’azzardo, nonché all’ulteriore inciampo, mostra come il confronto – insieme al malinteso che lo genera – appartenga al dominio dell’improvvisazione e sia regolato dalle medesime regole di attenzione al contesto e continuo riadattamento di sé.

[ illustrazione: fotografia dalla copertina del disco Wish you Were Here dei Pink Floyd, 1975 – design di  Storm Thorgerson ]

APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, COMPLESSITÀ, CREATIVITÀ, DEMOCRAZIA, ECONOMIA, JAZZ, LAVORO, MANAGEMENT, POLITICA

Tradizione e innovazione: la lezione collaborativa del jazz

Un contributo per «Il Sole 24 Ore» del filosofo Arnold I. Davidson prende spunto da un album dell’ottetto del compositore e sassofonista americano Steve Lehman, Mise En Abîme (2014), per formulare acute osservazioni sulla relazione fra tradizione e innovazione e democrazia e individualità.

In termini di tradizione, Lehman mostra di coltivare nei confronti del suo principale maestro, il sassofonista Jackie McLean, un rapporto che riconosce l’influenza delle radici esponendola all’urgenza dell’innovazione. Il rapporto con una tradizione è un processo di adesione culturale che necessita – come Davidson nota nel suo articolo – un rischioso rispetto, cioè una dinamica relazione fra continuità e discontinuità che dà vita a una reinterpretazione di senso. Il jazz è del resto il genere di musica più incline a una continua rilettura creativa del passato: per convincersene basta pensare ai cosiddetti standard, brani tradizionali – spesso risalenti agli anni ’30 e all’epoca d’oro di Broadway – che continuano a essere suonati in maniera sempre nuova e personale attraverso il passaggio da una generazione all’altra di musicisti.

Rispetto alla relazione tra individuo e collettivo, il disco di Lehman offre un intreccio di improvvisazioni personali che riesce a suonare pieno di diverse sfaccettature e insieme coeso. Non appena si ascoltano le prime note del disco, la musica di Lehman e del suo ottetto risulta subito estremamente complessa, proprio come qualsiasi autentica interazione sociale. Lehman aderisce alla lezione della musica “spettrale”, cioè un approccio armonico costruito sui timbri piuttosto che sulle tradizionali relazioni tonali. Questo modo di relazionarsi richiede ai musicisti una grande disciplina creativa in cui, come nota Arnold I. Davidson, la democrazia “di massa” cui siamo soliti pensare lascia spazio a una democrazia degli individui nella quale diventa possibile esprimere la propria voce all’interno di una ricca interazione sociale. Seguendo Davidson:

«La coesione ricercata non è quella dell’unità, ma una coesione interattiva, e più fragile, tra delle personalità singolari».

È questa la preziosa lezione di democrazia offerta dal jazz – e nello specifico dall’ottimo disco di Lehman – a qualsiasi organizzazione sociale.

[ illustrazione: l’orchestra di Count Basie, in primo piano Lester Young e Basie, 1945 ]

COLLABORAZIONE, INNOVAZIONE, INTERNET, LAVORO, MANAGEMENT, STORIE, TECNOLOGIA

JAVA: storia di un’innovazione intraprenditoriale

Non c’è bisogno di essere esperti di informatica per aver visto comparire il nome e il logo “Java” sul monitor di un computer. Per la maggior parte di noi (cioè per i non addetti ai lavori), Java è un linguaggio informatico che permette l’esecuzione di applicazioni web: dagli editor di testo ai filmati, dalle chat ai videogiochi. La sua diffusione va in realtà ben oltre l’ambito web, occupando un ruolo importante nei data center e nelle tecnologie per telefoni cellulari. Se sapete cos’è Java, è tuttavia probabile che possiate non conoscerne la storia.

Nel 1990 il web come lo conosciamo oggi è un fenomeno non ancora pronto a esplodere a livello di massa. Il PC, inteso come personal computer “desktop”, è il prodotto di punta dell’industria informatica, sia in ufficio che nel mercato casalingo. In questo contesto si muove Sun Microsystems, un’azienda della Silicon Valley californiana fondata nel 1982 in relazione all’università di Stanford di Palo Alto. All’inizio del nuovo decennio Sun sta attraversando un periodo di crisi, dovuta alla sua concentrazione sul solo mercato delle workstation professionali e dei server. I suoi prodotti hanno la fama di essere troppo complicati per un mercato di massa; i suoi software non sono all’altezza di quanto Microsoft sta sviluppando.

Patrick Naughton è un programmatore venticinquenne che lavora in Sun da tre anni. Durante una serata conviviale con lo staff dell’azienda, Naughton si avvicina al suo boss – e AD di Sun – Scott McNealy e, fra una birra e l’altra, gli rivela la sua condizione di delusione e frustrazione rispetto al proprio lavoro. Naughton si dice stufo di lavorare a prodotti che sembrano vecchi rispetto alle innovazioni del mercato. Sente che il proprio lavoro non è valorizzato adeguatamente e, afferma, sta valutando di andare a lavorare per NeXT Computer Inc. McNealy prende la palla al balzo e risponde grosso modo così a Naughton: «Prima che tu te ne vada, metti per iscritto quel che pensi Sun oggi stia sbagliando. Non limitarti a indicarmi il problema, dammi una soluzione. Dimmi cosa faresti se qui comandassi tu».

La mattina dopo, Naughton invia a McNealy un report di 20 pagine, che viene subito girato all’intera prima linea manageriale. Il giorno seguente, la casella e-mail di Naughton è piena di messaggi di questo tenore: «È quello che pensavamo anche noi da tempo, ma nessuno aveva avuto il coraggio di ammettere i propri errori». Naughton viene immediatamente inserito in un gruppo di lavoro ad hoc insieme a diversi ingegneri di alto livello. Nel corso di un brainstorming notturno, il neonato gruppo delinea le linee guida per lo sviluppo di un nuovo prodotto. Competere con Microsoft è fuori discussione, si decide così di mettersi al lavoro per costruire un software che possa sostanzialmente “funzionare ovunque”, anche in contesti che ancora non vengono associati all’idea di computer.

Nel 1991 il team di sviluppo è attivo in maniera totalmente indipendente dalle attività considerate core business da Sun. Già in agosto, è pronta una bozza di software che prende il nome di Oak, in inglese quercia, cioè l’albero che si vede fuori dalla finestra della stanza in cui il gruppo di programmatori lavora. Nel 1995 si giunge a una versione stabile del software, sviluppata per diventare una “killer app” come compagna per i nascenti web browser (non a caso, uno dei primi accordi commerciali sarà con l’allora dominante Netscape). Poiché nel team di lavoro si consumavano grandi quantità di caffè Java, si decide di rinominare il software in un modo più funzionale anche rispetto alle esigenze di marketing. Nasce così Hot Java. Il resto è storia, una storia che comprende la diffusione di questo linguaggio software praticamente ovunque. La vicenda di Sun come entità indipendente ha una conclusione nel 2010, quando l’azienda viene acquisita da Oracle, che oggi detiene il marchio Java. Ma questa è un’altra storia.

[ illustrazione: testata del «San Jose Mercury News» del 23 marzo 1995 ]

ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, CREATIVITÀ, DECISIONE, DEMOCRAZIA, EPISTEMOLOGIA, LAVORO, MANAGEMENT, POLITICA, SOCIETÀ

Creatività: finalmente un ottimo libro (scritto nel 1924)

«Il problema della democrazia è quello di come rendere la nostra vita quotidiana creativa».
Mary Parker Follett

Su Wikipedia ancora nessuno ha pensato di aprire una pagina in italiano dedicata a Mary Parker Follett (1868-1933). Questo particolare la dice lunga sulla scarsa fama di cui gode in Italia questa pensatrice americana, il cui contributo è stato centrale per lo sviluppo del pensiero manageriale delle origini. Il confronto con la psicologia comportamentale e con quella della Gestalt permisero a Follett di elaborare un pensiero originale nel quale le logiche funzionalistiche e gerarchiche dell’organizzazione del lavoro sono rilette secondo una dinamica di valorizzazione dell’elemento umano che anticipa – e per molti versi supera – diversi elementi tematizzati dallo Human Resources Movement.

Il suo testo Esperienza creativa (1924) offre una lettura del tema della creatività di grande valore civile. Anzitutto, creatività non è cosa individuale ma relazionale. Il discorso di Follett sulla creatività è collettivo e sociale, ponendosi come presupposto per una vera democrazia. La creatività è integrazione di diversità e il tema della responsabilità e del confronto non sta nella risposta di un soggetto A a un soggetto B, ma nella relazione fra A, B e il contesto in cui entrambi si muovono. Tutti questi elementi sono dinamici, in continuo cambiamento. La loro relazione non avviene tramite un’entità astratta come la “mente”, ma in concreto, nel mondo, attraverso relazioni fisiche e motorie. La pratica della creatività è il processo di integrazione che scaturisce da questo incontro.

Follett dedica diverse pagine del suo saggio a un tema centrale per le organizzazioni contemporanee e più in generale per la società, quello del ruolo dell’esperto. La cieca fiducia che spesso viene conferita a chi è ritenuto in possesso di una conoscenza “esperta” rappresenta una delegittimazione della relazione di corresponsabilità e, di conseguenza, delle dinamiche alla base della creatività. Il presupposto erroneo di questo tipo di considerazione sta nel ritenere i fatti immutabili e le posizioni dell’esperto assolute. Ma, coerentemente con la dinamica di integrazione esposta da Follett, i fatti non potranno mai essere statici, né le interpretazioni oggettive. L’esperienza delegata non potrà mai prendere il posto di un’esperienza vissuta relazionalmente, dialetticamente. Ecco perché un’educazione al “buon uso” degli esperti, nei confronti dei quali il tema centrale è di nuovo quello del dialogo e dell’integrazione, è un presupposto fondamentale per una effettiva democrazia, tanto in ambito sociale quanto lavorativo.

[ illustrazione: Henry Matisse, La tristesse du roi, 1952 ]

APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, COLLABORAZIONE, GIOCO, LAVORO, VIDEOGIOCHI

Il videogioco come strumento educativo

Esce finalmente anche in Italia, a dieci anni dalla sua originaria pubblicazione, Come un videogioco. Insegnare e apprendere nella scuola digitale (2003), saggio seminale sui “game studies” dello studioso americano James Paul Gee (docente di studi letterari presso l’Arizona State University).

Il testo mette in gioco i concetti di apprendimento e alfabetizzazione, facendone metro di paragone per un confronto fra l’esperienza del videogioco e quella lezione in classe: siamo proprio sicuri che giocare con un videogame sia sempre una perdita di tempo? E di converso: gli strumenti tradizionali dell’insegnamento scolastico sono ancora efficaci? Queste le domande cui Gee tenta di rispondere col suo percorso videoludico, il cui approdo è rappresentato dall’enunciazione di 36 “principi di apprendimento”, ovvero competenze pratiche e teoriche che la frequentazione dei videogiochi può aiutare a sviluppare.

I videogame, intesi come mezzo di apprendimento attivo e critico, mettono l’utente in condizione di imparare dall’esperienza, di entrare in contatto collaborativamente con “gruppi di affinità” (persone che condividono un medesimo contesto di significati e risorse), di sviluppare abilità di problem solving, di comprendere i meccanismi sociali legati a un determinato contesto di pratiche. Anche se Gee non vi allude, è evidente come lo sviluppo di competenze di questo tipo risulti valido non soltanto in un contesto scolastico, ma anche per la formazione degli adulti. A questo proposito, particolare interesse suscitano le riflessioni legate a ciò che precede o segue il momento della “partita” col videogame: la conoscenza dei “mondi videoludici” che si trasferisce attraverso riviste, siti web, forum, non è individuale ma distribuita, messa in opera attraverso un pensiero pratico e sociale, che porta alla formazione di reti e dei già citati “gruppi di affinità”. La conoscenza è a disposizione di tutti, pronta per essere usata.

Il confronto instaurato da Gee tra l’apprendimento via videogame e gli strumenti tradizionali dell’educazione scolastica si risolve con un bilancio nettamente negativo a sfavore di questi ultimi, che continuano a risultare poco coinvolgenti, troppo astratti e slegati da concrete pratiche di lavoro e condivisione del sapere. D’altro canto, è pur vero che i videogame esplicitamente educativi al momento non sono molti, anche se le grandi potenzialità di questo medium (che del resto si trova ancora a uno stato nascente e poco raffinato) fanno ben sperare per future applicazioni nel campo dello studio, della formazione, del lavoro. L’innegabile pregio dei videogame risiede in ogni caso nel modo del tutto peculiare in cui riescono a favorire apprendimento e sviluppo dell’identità mediante la dimensione del gioco. A questo proposito, l’unica critica che pare lecito muovere al lavoro di Gee è quella di essere troppo spesso sbilanciato verso il fronte “video” e poco verso quello “game”: se i videogame funzionano in un determinato modo è soprattutto perché sono giochi, e quindi la gran parte delle osservazioni fatte risulta valida non soltanto per un gioco giocato davanti a uno schermo, ma anche per ogni attività ludica tout court.

[ illustrazione: immagine dal videogioco Outrun, 1986 ]

CINEMA, COLLABORAZIONE, LAVORO

Saving Mr. Banks e l’attaccamento alle proprie idee

Quella al centro di Saving Mr. Banks (2013) di John Lee Hancock è una storia incentrata sull’amore per il proprio lavoro, che in certi casi si accompagna alla difficoltà di condividerlo con altri.

Il film è un resoconto “romanzato” del rapporto fra Walt Disney e Pamela Lyndon Travers, autrice letteraria da cui il padre di Disneyland acquisì i diritti per la realizzazione del film Mary Poppins (Robert Stevenson, 1964). L’accordo fra i due fu tutt’altro che semplice: implicò una trattativa ventennale e un negoziato basato su una serie di compromessi che in ultima analisi, pur a fronte del grande successo ottenuto dal film, lasciarono Travers piuttosto delusa.

I dialoghi cruciali fra i due protagonisti della pellicola fanno emergere un’espressione che rende piuttosto bene una certa idea di attaccamento al lavoro. «They’re family», ripetono più volte Travers e Disney, descrivendo in un caso il proprio rapporto con i personaggi di Mary Poppins, nell’altro quello con Mickey Mouse.

Uno stretto legame con il proprio lavoro genera dinamiche di protezione che tendono a escludere la condivisione, nel timore che far “intromettere” altri possa snaturare qualcosa di molto personale. Far crescere un’idea spesso coincide proprio col renderla meno “nostra” e imparare ad accettare questo genere di compromesso può essere davvero molto difficile.

[ illustrazione: fotogramma dal film Saving Mr. Banks di John Lee Hancock, 2013 ]