L’aggettivo “biologico”, entrato da una ventina d’anni a questa parte nel linguaggio del marketing alimentare, indica – in realtà in maniera impropria, in quanto ogni processo agricolo è ovviamente biologico – una modalità di coltivazione che evita di impiegare energia proveniente da processi industriali, preferendo reimpiegare la materia sotto forma organica. Più corretto sarebbe dunque parlare di “organico”, così come fanno l’inglese e altre lingue.
Come nota Michael Pollan nel suo best-seller Il dilemma dell’onnivoro (2006), il primo utilizzo di “organico” risale a un contesto lontano da quello alimentare. Nel’Ottocento l’aggettivo era utilizzato dagli studiosi inglesi che criticavano la frammentazione sociale portata dalla rivoluzione industriale, raffrontandola a una precedente società “organica” (o più semplicemente naturale) nella quale vigevano forti legami affettivi e cooperativi.
L’utilizzo del termine in ambito alimentare risale agli anni ’40, con la fondazione della rivista americana «Organic Gardening and Farming». La testata rimase a lungo poco nota finché non le venne dedicato, nel 1969, un articolo dal «Whole Earth Catalog», la bibbia della controcultura ideata da Stewart Brand. La tiratura della rivista passò in soli due anni da quattrocentomila a settecentomila copie, ponendo le basi del futuro successo di un aggettivo che oggi campeggia, in maniera più o meno veritiera, su tutti i più appetibili prodotti di ogni supermercato del mondo.
[ illustrazione: particolare da una copertina di «Organic Gardening» del 2013 ]