Lo chef francese Alexandre Gauthier ha appena deciso di inserire nei propri menu un simbolo che vieta di scattare foto a quanto viene servito in tavola. Il fine dell’iniziativa è, secondo le parole dello stesso Gauthier, quello di invitare i clienti del suo ristorante a concentrarsi sulla concreta esperienza del cibo e non sull’astrazione della sua registrazione e condivisione visiva. Gauthier non è che l’ultimo di una lunga lista di cuochi che, da almeno un anno a questa parte e in più parti del mondo, hanno deciso di ribellarsi all’imperante moda del “selfie culinario”.

Questa deriva fotografica è la punta dell’iceberg di una più generale ossessione per il cibo che, fin dalle sue prime avvisaglie, ha generato tanto sostenitori quanto detrattori. Fra questi ultimi il primo da citare è senz’altro il giornalista inglese Steven Poole, autore di un testo dal significativo titolo You aren’t what you eat (2012) e strenuo sostenitore di una rivolta contro quella che ha bollato “age of food”. Nel giro di pochi anni il cibo sarebbe diventato – secondo Poole – una passione malsana, una vera e propria dipendenza che, alimentata dal culto officiato da chef-superstar assunti come “maestri di vita”, darebbe alle persone l’illusione di esprimere la propria identità tramite il cibo.

A citare Poole è anche un recente articolo del Corriere della Sera, che fa il punto degli ultimi eccessi del “foodism” e dei pareri più critici a riguardo. Se il fatto che dentifrici e bagnoschiuma alla pancetta saranno presto sugli scaffali dei supermercati disgusterà più d’uno, a generare inquietudine dovrebbero essere soprattutto le parole usate dal filosofo Nicola Perullo in Per un’estetica del cibo (2006). Qui l’autore usa toni che paiono chiudere il cerchio rispetto alle posizioni dello chef Gauthier citate in apertura:

«L’importanza attribuita oggi al cibo è forse comprensibile nei termini di una crisi del fare esperienza, cui nessun ambito della vita umana è sottratto. L’esperienza del cibo potrebbe rivelarsi un volano per recuperare parte della frammentazione cui il nostro sentire è sottoposto».

[ illustrazione: Daniel Spoerri, Restaurant de la City Galerie, Zurich, 1965 ]