ARTE, CONCETTI, RAPPRESENTAZIONE, SCRITTURA, SEGNI

L’invenzione del cuore come simbolo d’amore

Il Roman de la Poire, attribuito a un certo Messer Thibaut, è un poema allegorico francese del XIII secolo compilato sulla falsariga del coevo e più celebre Roman de la Rose. Benché il primo dei due testi non sia mai riuscito a conquistare un successo pari a quello del secondo, merita di essere ricordato per lo meno per un motivo.

In una delle miniature che ne decorano l’inizio dei paragrafi, per la precisione in corrispondenza di una “S”, compare una allegoria del “dolce sguardo” in cui un uomo, inginocchiato ai piedi dell’amata, offre il proprio cuore in segno di amore. L’elemento conico, stilizzato (e “capovolto” rispetto a come oggi ce lo immagineremmo), rappresenta il primo disegno iconico e allegorico del cuore umano inteso come simbolo e pegno d’amore.

Nel corso del XIV secolo il simbolo del cuore si ripresenta in più occasioni nell’arte italiana, per esempio nell’allegoria della Carità inserita da Giotto fra gli affreschi della Cappella degli Scrovegni di Padova (1305). Un “affinamento” della rappresentazione simbolica del cuore, che porterà a disegnarlo accentuandone punta e incavo e soprattutto capovolgendolo rispetto alle prime raffigurazioni, avrà luogo nel corso dello stesso secolo XIV, fino ad arrivare a una istituzionalizzazione nel secolo XV con il suo inserimento nei mazzi di carte per rappresentare il seme dei cuori.

[ Jeff Koons, Hanging Heart (Red/Gold), 1994-2006 ]

CAMBIAMENTO, CONCETTI, INDUSTRIA, LAVORO, SOCIETÀ, STORIE, UFFICI

Dalle 9 alle 5: brevissima storia delle 8 ore lavorative

La scansione della giornata in tre parti, di 8 ore ciascuna e dedicate rispettivamente a lavoro, svago e riposo, è un’invenzione del socialista utopista Robert Owen (1771-1858), che nel 1817 lanciò in Inghilterra una campagna di rivendicazione dei diritti dei lavoratori basata proprio su questo tipo di organizzazione temporale. L’idea di Owen nacque come reazione agli oppressivi orari di fabbrica imposti dalla rivoluzione industriale, i cui turni di lavoro giornaliero potevano raggiungere anche le 10-18 ore.

L’iniziativa di Owen non ebbe immediata fortuna, ma mise in moto una rivendicazione di diritti che prese corpo in una lunga serie di “factory acts”, cioè atti approvati dal Parlamento britannico e finalizzati alla progressiva riduzione dell’orario lavorativo di uomini, donne e bambini. La lotta per le 8 ore trovò nel 1884 un degno successore nel sindacalista Tom Mann (1856-1941), che con la sua “Eight Hour League” riuscì nell’impresa.

Le rivendicazioni inglesi diffusero la propria eco in tutta Europa e si manifestarono anche oltreoceano. Per la verità, i primi movimenti di protesta negli Stati Uniti nacquero già nel 1791 e il primo maggio del 1886 a Chicago ebbe luogo la prima May Day Parade della storia. La prima azienda americana a instaurare orari giornalieri di otto ore fu nel 1914 Ford Motor Company, che si rese protagonista anche di un inedito raddoppio dei salari degli operai. Pur a fronte dell’innovazione di Ford, solo nel 1937 le otto ore lavorative furono standardizzate in tutti gli Stati Uniti.

Quanto all’Italia, l’ufficializzazione di un orario basato su 8 ore giornaliere e 48 settimanali arrivò nel 1923, con un Decreto del primo governo Mussolini. Il provvedimento italiano fondò le sue radici in una lotta dal basso durata più di un secolo e mezzo, all’interno della quale i moti del 1848 rappresentarono una tappa fondamentale.

[ illustrazione: manifesto con il celebre proclama di Robert Owen ]

CAMBIAMENTO, CONCETTI, SOCIETÀ, TEORIE

Dalla great generation alla generazione Y (ovvero: le responsabilità dei genitori)

Un breve saggio di Simon Sinek (recentemente ripubblicato dalla rivista Salon) costruisce un’efficace analisi sociologica capace di attraversare quattro generazioni.

Si parte dalla “great generation”, cresciuta negli anni della grande depressione e chiamata ad affrontare il secondo conflitto bellico. Questa generazione ha pensato ai propri figli secondo un fondamentale presupposto: garantire loro il benessere. Questo è effettivamente accaduto e i “baby boomers” sono cresciuti circondati dall’abbondanza. Mettere al centro il senso di protezione e benessere ha tuttavia generato una conseguenza indesiderata: la focalizzazione sul “me” a scapito del “noi”. Ed è su questo presupposto valoriale che i “baby boomers” si sono rivolti a loro stessi e ai propri figli, la cosiddetta “generazione X”. Cresciuta nell’agio degli anni ’80, questa generazione è stata abituata a credere che tutto fosse alla propria portata, ereditando dai propri genitori tanto il senso del lavoro quanto la sua accezione più individualista legata all’idea del successo. Si giunge infine alla “generazione Y”, la cui caratteristica fondante – nuovamente intesa come effetto della relazione con la generazione precedente – sarebbe secondo Sinek quella dell’impazienza (e non tanto, come notato da altri commentatori, quella di pensare semplicemente che sia loro tutto dovuto). Per la generazione Y il senso di poter “avere tutto” è diventato un “avere subito” – amplificato dalla velocità dei meccanismi comunicativi d’oggi e dalle loro apparenti gratificazioni istantanee – che genera il purtroppo riconoscibilissimo senso di disillusione e frustrazione (ma anche disimpegno e distrazione) proprio di questa generazione.

La disamina di Sinek suona tanto accurata quanto impietosa. Soprattutto, è difficile leggervi una pars construens. Il principale messaggio che essa pare lanciare a genitori, istituzioni scolastiche e aziende suona come: imparate a comprendere le nuove generazioni e assumetevi le vostre responsabilità. Quale messaggio essa lanci ai giovani non è affatto chiaro.

[ illustrazione: l’attrice/sceneggiatrice/regista Lena Dunham e sua madre, la fotografa Laurie Simmons, in una scena di Tiny Furniture (2010) ]

LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ

I danni della razionalizzazione lavorativa secondo Kracauer

Gli impiegati, scritto da Sigfried Kracauer nel 1930, è un piccolo saggio dedicato al tema dell’organizzazione del lavoro. Focalizzato sulla situazione tedesca e in particolare sull’ambiente lavorativo di Berlino negli anni ’20, tratta la condizione del lavoratore in modo estremamente preveggente, anticipando considerazioni che per esempio in Italia – ma anche in America – non sarebbero emerse che negli anni ’50 e ’60.

Una delle osservazioni più puntuali e contemporanee contenute nel libro riguarda l’impatto organizzativo dei processi di razionalizzazione:

«La qualità si è rovesciata nella quantità. Causa di questo rovesciamento è la razionalizzazione di cui tanto si parla. Da quando esiste il capitalismo all’interno dei suoi confini c’è sempre stata razionalizzazione, ma il periodo della razionalizzazione dal 1925 al 1928 rappresenta una fase particolarmente importante».

Curioso come una procedura di ingegnerizzazione del lavoro che alla fine degli anni ’20 coincideva con la meccanizzazione del lavoro suoni tanto vicina – in termini di impatto distruttivo delle pratiche di razionalizzazione sulla qualità del lavoro – alle strategie di “efficientamento” condotte negli ultimi decenni e di cui le aziende scontano oggi le conseguenze.

[ illustrazione: foto di scena da Fantozzi di Luciano Salce, 1975 ]

APPRENDIMENTO, DIVULGAZIONE, EPISTEMOLOGIA, MEDIA, POLITICA, SOCIETÀ

Pedagogia dell’intrattenimento e ruolo politico della televisione

Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo (1985) di Neil Postman (1931-2003) rappresenta il testo capostipite del discorso sociologico rivolto al medium televisivo. Sulla scorta di Marshall McLuhan, Postman prende molto sul serio la tv come strumento di comunicazione e più in generale come incarnazione di un nuovo tipo di epistemologia, giungendo a criticarla radicalmente con affermazioni di questo tipo:

«La frase “una televisione seria” è una contraddizione in termini; la televisione parla con una sola voce persistente: la voce dell’intrattenimento».

A distanza di poco meno di trent’anni, in Televisione (2013) Carlo Freccero riprende le fila del discorso di Postman adattandolo allo specifico italiano e alla propria esperienza di autore e dirigente televisivo. È dunque dall’interno del sistema tv che Freccero costruisce la sua analisi del ruolo che questo medium ha rivestito, si può ben dire, rispetto all’educazione di un intero Paese.

Cruciale, nell’evoluzione del ruolo della televisione e della sua capacità di plasmare la coscienza collettiva, è stato il tacito passaggio di consegne avvenuto tra la tv pubblica e quella commerciale. Se da un lato la tv di servizio portò a termine l’unificazione linguistica del Paese, il suo fallimento si espresse nell’incapacità di svincolarsi da un modello educativo che lo stesso medium televisivo (e poi internet) era destinato a rendere obsoleto:

«La televisione di servizio pubblico assomiglia a quel modello di scuola pre-’68 in cui tutto il potere si concentrava nelle mani dell’insegnante e non nel sapere come patrimonio condivisibile e condiviso».

Al contrario, la tv privata di Berlusconi fu capace di innestare un cambiamento morale (che solo oggi siamo in grado di comprendere appieno) legandolo a un atteggiamento compiacente orientato non all’educazione del pubblico ma alla sua fidelizzazione. Il pubblico diventa sovrano e ovviamente, tornando a Postman, l’intrattenimento è il suo fine ultimo. Su questo tema, Freccero è bravissimo a mostrare come il salto da una tv populista a una politica populista sia stato naturale, probabilmente inevitabile.

[ illustrazione: un momento del programma Telemike, 1987 ]

APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, INNOVAZIONE, JAZZ, MANAGEMENT, MUSICA, STORIE

Beatles e Duke Ellington fra managerialità e collaborazione

Un recente articolo di Adam Gopnik raffronta due casi musicali raramente giustapposti, quelli di Duke Ellington e dei Beatles. Principale oggetto del confronto è la relazione con la creatività musicale – personale e altrui – messa in atto da musicisti così diversi.

Quel che anzitutto colpisce è la “mediocre” perizia tecnica che i due casi hanno in comune: Ellington era un pianista poco più che discreto e i Beatles non erano certo grandi strumentisti. Ciononostante, entrambi furono in grado di costruire qualcosa di unico sviluppando in massima misura un’importante competenza musicale, quella dell’orecchio. Competenza che qui si può provare a leggere anche in chiave manageriale.

Ellington esercitò orecchio nei confronti dei tanti musicisti di talento di cui seppe circondarsi, spesso reali autori di molti dei successi registrati a suo nome, come Take the A Train o Caravan. Alcune voci hanno addirittura tacciato Ellington di sfruttamento nei confronti di questi musicisti, ma resta indubbio il fatto che senza le sue capacità di visione e gestione, idee altrui indubbiamente assai brillanti sarebbero rimaste semplicemente tali senza mai concretizzarsi. Fare attenzione a questo, come nota Gopnik, dovrebbe metterci in guardia contro la classica tentazione “romantica” del dar più valore alle idee che al lavoro che le realizza.

Quanto ai Beatles, l’orecchio si mostrò anzitutto nel loro riuscire sempre, anche a fronte delle abilità musicali non eccelse di cui si è detto, a cantare perfettamente in tono, cosa non scontata e in ogni caso decisamente legata alla competenza dell’ascolto. In termini di relazione con idee altrui, i Beatles furono grandissimi divulgatori e interpreti di quanto di musicale erano in grado di raccogliere intorno a loro. L’eclettismo che che caratterizzò i successi della parte finale della loro carriera venne fondato ai loro esordi grazie all’abilità di risultare credibili mescolando “ingredienti” presi tanto da Chuck Berry quanto da Roy Orbison e molti altri. Anche in questo caso, una capacità manageriale di relazione e contestualizzazione mostra di essere ben più importante di un non ben qualificato “talento”.

[ illustrazione: foto dei Beatles agli esordi ]

ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, COMPLESSITÀ, FOTOGRAFIA, LAVORO, TECNOLOGIA

Fotografia e relazione fra uomo e tecnologia, anche al lavoro

«La realtà del nostro secolo è la tecnologia: l’invenzione, costruzione e manutenzione di macchine. Impiegare la macchina significa possedere lo spirito del secolo. Le macchine hanno preso il posto dello spiritualismo trascendentale del passato. Tutti sono uguali di fronte alla macchina, sia io che te possiamo usarla. Essa può schiacciarmi e lo stesso può succedere a te. In tecnologia non esiste tradizione né coscienza di classe: tutti possono essere padroni, ma anche schiavi».

Così affermava László Moholy-Nagy (1855-1946) nel 1922 in un testo intitolato Konstruktivismus und Proletariat. Non è indebito attribuire una buona parte dell’ispirazione di queste parole all’attività di fotografo di Moholy-Nagy e dunque alla sua esperienza con il fotoapparat, simbolo – per lo meno da Walter Benjamin in poi – della tecnicizzazione che investe il mondo dell’immagine e, più in generale, della comunicazione. Le parole di Moholy-Nagy indicano inoltre una rivoluzione copernicana interna alla relazione fra artista e suo strumento d’elezione. La macchina fotografica non è un pennello: la sua peculiare natura tecnica influenza sia il contenuto del messaggio che il suo produttore.

A distanza di sei decenni, Vilém Flusser (1920-1991) scrive nel suo Per una filosofia della fotografia (1983) quanto segue:

«Al giorno d’oggi, la maggior parte degli uomini è impiegata in e ad apparecchi che programmano e controllano il lavoro. Prima dell’invenzione degli apparecchi, questo genere di attività era considerato un “servizio”, “terziario”, “lavoro intellettuale”, insomma un epifenomeno, oggi è al centro di tutto. Per questo, le analisi della cultura devono applicare la categoria dell’“informazione” anziché quella del “lavoro”».

Si tratta di una lettura del rapporto fra uomo e tecnica che parte di nuovo dalla fotografia (anticipando per molti versi quanto le tecnologie digitali hanno generato negli anni seguenti) e  si spinge fino a dar conto di una profonda mutazione del mondo del lavoro. Se “proletariato” era ancora un concetto centrale per Moholy-Nagy (fin dal titolo del suo scritto), per Flusser questa idea chiave della modernità risulta soppiantata dal modo in cui la tecnologia ci ha resi anzitutto “lavoratori culturali”. Ancora una volta, la fotografia si conferma un’ottima metafora per interpretare la contemporaneità.

[ illustrazione: László Moholy-Nagy, Photogram of Flower Petals, light and objects, 1930 ]

COLORI, FOTOGRAFIA, PERCEZIONE

L’ambiguità conoscitiva del mezzo fotografico

Cosa pensiamo osservando questa immagine del fotografo americano Joel Sternfeld, intitolata semplicemente McLean, Virginia, December 1978? Prima ancora: cosa vediamo? Nei diversi piani dell’immagine, quel che anzitutto attira lo sguardo sono gli elementi caratterizzati dal colore dominante la scena, cioè l’arancione. In primo piano, una serie di zucche (molte delle quali rotte) sparse a caso su un prato. In secondo piano, un chiosco che vende verdure dove spicca, con in mano una zucca, un avventore. Questi è un pompiere e veste di arancio. Sullo sfondo, una casa in fiamme (il colore dominante è di nuovo l’arancione) con un camion di pompieri in azione.

Torniamo alla domanda iniziale: cosa pensiamo di fronte a questa fotografia? La percezione generale è solitamente uniforme: mentre un incendio è in atto, un pompiere pare del tutto ignaro della situazione, concentrato sul comprare zucche. Il contrasto tra le zucche abbandonate in primo piano e quelle ordinate in vendita al chiosco accresce il senso di paradosso e di incuria che riguarda una situazione di emergenza e la relativa disattenzione di un soggetto che da essa dovrebbe essere chiamato in causa.

A distanza di anni dallo scatto, Sternfeld ha rivelato in una intervista le sue effettive circostanze: l’incendio sullo sfondo è parte di un’esercitazione. Il pompiere in primo piano è in pausa, approfittando del break per acquistare delle zucche. Alla luce di questa informazione di contesto, il senso percepito dell’immagine può cambiare completamente.

Alle sue origini, il medium fotografico si lega alla promessa dell’oggettività. Oggi, la reazione generale alla fotografia è soprattutto legata al sospetto del “costruito”. Fra questi due estremi, che di fatto non smettono di relazionarsi, sta l’interesse della fotografia, che parla il linguaggio dell’ambiguità e della negoziazione di senso. Immagini come quella di Sternfeld sono preziose perché aiutano a mettere in discussione il nostro modo di guardare il mondo.

[ illustrazione: Joel Sternfeld, McLean, Virginia, December 1978 ]

APPRENDIMENTO, EPISTEMOLOGIA, FOTOGRAFIA, MEDIA, TECNOLOGIA

Luigi Ghirri e la giusta velocità della fotografia

«Il grande ruolo che ha oggi la fotografia, da un punto di vista comunicativo, è quello di rallentare la velocizzazione dei processi di lettura dell’immagine».

Questa frase di Luigi Ghirri (1943-1922), contenuta nella raccolta Lezioni di fotografia (2011) e risalente al biennio 1989-1990, assume un senso particolare se relazionata allo sviluppo della fotografia negli ultimissimi anni.

I due eventi cruciali che hanno determinato l’attuale svolta comunicativa e sociale della fotografia sono stati l’avvento degli smartphone (il primo cellulare capace di scattare foto risale al 2000) e la nascita di “app” specificamente dedicate alla condivisione di fotografie (Instagram esordisce nel 2010). Come effetto di questi eventi, oggi scattare fotografie implica per la maggior parte di noi condividerle. Non significa più stamparle per fruirle con calma nel corso del tempo, ma inviarle istantaneamente e consumarle nel giro di un paio di commenti o “like”.

Assumendo una prospettiva storica, si può tranquillamente affermare che sia stata proprio la fotografia, aggiungendo alla stampa qualcosa che ancora le mancava, ad aver reso più veloci i processi comunicativi, spostandoli dal contenuto alla forma e dalla razionalità all’emotività. Le parole pronunciate da Ghirri 25 anni fa suonano dunque come un tentativo mosso dall’interno – cioè da parte di un professionista del mezzo fotografico – di invertire la rotta. Quel che va riscontrato è che le cose non sono andate proprio così. La stessa fortuna postuma dell’estetica di Ghirri – suo malgrado annoverabile tra le fonti di ispirazione per i filtri “anticati” di software come Instagram – è purtroppo prova lampante del generale fallimento del suo progetto.

Ecco perché, per chi ancora ritenga opportuno farle proprie, le parole di Ghirri continuano a suonare oggi importanti per sostenere il ruolo conoscitivo – e non solo comunicativo – della fotografia.

[ illustrazione: Luigi Ghirri, Rifugio Grostè, 1983 ]