Un titolo somiglia a un amo: vive per catturare l’attenzione e per riuscirci non disdegna ricorrere all’inganno. In questo caso la menzogna è parziale, poiché parlare di una invenzione della creatività è fuorviante solo in termini assoluti. Trattandosi anzitutto di un’etichetta, il senso della parola creatività dipende dalle condizioni di contesto in cui di volta in volta viene usata. Un articolo del «New Yorker» dal titolo Creativity Creep si cimenta in una ricognizione di queste progressive reinvenzioni.
La nostra creatività, quella di cui parla la tanta letteratura oggi a essa dedicata, è riconducibile a un agire centrato sull’individuo. Di questi tempi nessuno si sognerebbe, come invece accaduto in epoche remote, di attribuire il merito di una buona idea all’ispirazione divina o qualsivoglia altro fattore esterno alla volontà umana. L’interiorizzazione della creatività inizia a prendere forma a partire dal Romanticismo, in particolare con l’idea di immaginazione. Samuel Coleridge (1772-1834) ne distingueva due tipi: da un lato un’immaginazione mondana, deputata a stilare piani e risolvere problemi; dall’altro un’immaginazione più nobile, motore di un’ispirata esperienza del mondo. L’influenza di questi due orientamenti – una creatività pratica e una contemplativa – ha continuato a essere paritaria fino al momento in cui qualcuno ha suggerito che privilegiare una delle due direzioni potesse essere decisamente utile.
Nel settembre 1950, nel contesto di un congresso dell’American Psychological Association, venne pronunciato un discorso destinato a esercitare enorme influenza in tema di creatività. Un oscuro psicologo di nome J. P. Guilford rese pubblico il resoconto delle ricerche da lui condotte durante la seconda Guerra Mondiale dietro mandato dell’esercito americano. Incaricato di escogitare un metodo efficace per selezionare nuove reclute per l’aviazione, Guilford fece ricorso alla categoria di creatività, costruendo una serie di test orientati alla produzione di idee e al cosiddetto pensiero divergente. Chiunque sia stato coinvolto in giochi che pongono domande del tipo “quanti usi alternativi sai trovare per questa penna / graffetta?” sa di cosa si parla. Il successo dei test di Guilford è da attribuirsi a due fattori: enfasi sulla misurabilità e orientamento a un prodotto. Se il contesto di Coleridge era permeato di Romanticismo, quello di Guilford risente, oltre che dell’ideologia militare, di almeno quattro decenni di organizzazione scientifica del lavoro. Nessuna sorpresa nel constatare come negli anni seguenti il principale campo di azione di questa nuova e pragmatica accezione di creatività sia diventato il mondo delle aziende.
Cosa sostiene, dunque, l’odierna vulgata della creatività? Che coltivare l’immaginazione nobile di Coleridge non è sufficiente. Bisogna essere in grado di concretizzare le proprie idee. Di produrre un output, per dirlo in termini aziendali. L’interiorizzazione di questa linea di pensiero – nota l’articolo del «New Yorker» – rende impossibile parlare di creatività senza prefigurare un prodotto. Da buoni membri della società dei consumi, non ci limitiamo a proiettare i nostri desideri su oggetti presentati come frutto di creatività, ma vogliamo andare oltre: viviamo l’anelito stesso alla creatività alla stregua di un meta-consumo, cioè come un modo per risalire lungo la catena che dal produttore giunge a noi consumatori. La tensione verso la realizzazione di questo bisogno non potrebbe essere più lontana dalla disinteressata esperienza del mondo di cui parlava Coleridge.
[ illustrazione: lo “zio Sam”, opera di James Montgomery Flagg – 1917 ]