ANTROPOLOGIA, ARCHITETTURA, CAMBIAMENTO, CITTÀ, LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, UFFICI

Un libro, anzi due, per capire il lavoro d’ufficio

Nikil Saval, editor della rivista americana «n+1», esordisce con un testo che nasce da una lunga ricerca sugli ambienti del lavoro impiegatizio. Si tratta di Cubed (2014), ricognizione multidisciplinare – design, management, riferimenti a letteratura e cinema – che aiuta a comprendere perché il lavoro d’ufficio, con i suoi spazi e la sua capacità di generare culture e comportamenti, è in grado di incidere così tanto sulla società nel suo insieme.

Saval apre il suo lavoro rendendo omaggio a un riferimento classico, quel White Collar (1951) di Charles Wright Mills (1916-1962) che è considerato uno dei capostipiti della sociologia organizzativa. A ben vedere – come nota la collaboratrice del «New Yorker» Jill Lepore in una recensione che merita una lettura a sé – l’approccio di Saval è, più che sociologico, storico. Quanto il libro dispone agli occhi del lettore è un ideale diorama che potrebbe intitolarsi “l’ufficio attraverso il tempo”.

Con una prevedibile focalizzazione sulla storia del lavoro in America, Saval prende le mosse dalle “counting house” di metà ‘800, ambienti che oggi sorprendono per la loro dimensione angusta e per la grande prossimità tra datori di lavoro e impiegati. Prossimità destinata a sparire in nome dell’astrazione delle gerarchie organizzative, facilitata dall’estensione verticale dei grattacieli che dagli anni ’50 hanno iniziato a cambiare la fisionomia delle grandi città americane. Pensando a New York, vengono subito in mente la “black box” del Seagram Building o l’AT&T Building progettato dall’architetto “postmodernista” Philip Johnson.

Nel frattempo, l’interno degli spazi di lavoro incontra un’evoluzione inaspettata. Alla fine degli anni ’50, gli studi di ergonomia condotti dall’inventore americano Robert Propst (1921-2000) generano il prodotto di maggior successo di Herman Miller, il cosiddetto “Action Office”, spazio modulare pensato per l’ottimizzazione delle attività individuali. La semplificazione e banalizzazione dell’Action Office ha in seguito dato vita, concretizzando l’incubo isolazionista prefigurato da alcune sequenze di Playtime di Jacques Tati (1967), a quanto è oggi universalmente noto come cubicolo.

Il salto temporale successivo coincide con le prospettive sulla smaterializzazione e delocalizzazione del lavoro offerte dalle nuove tecnologie, rispetto alle quali il piglio storiografico è evidentemente meno praticabile di quello che procede per ipotesi. In sintesi, “l’ufficio attraverso il tempo” presentato da Saval offre una istruttiva e coinvolgente genealogia di spazi abitati quotidianamente ma spesso vissuti senza sufficiente consapevolezza.

Un altro testo incentrato sullo studio del lavoro impiegatizio, fonte di particolare orgoglio perché a firma di uno studioso italiano, è Uffici (2011) di Imma Forino. In questo caso l’indagine è più spiccatamente orientata al design degli uffici e dei loro arredi – l’autrice è docente di architettura degli interni al Politecnico di Milano – , senza comunque mancare di offrire spunti manageriali e socio-antropologici. In particolare, il testo ha il merito – oltre che di assumere una prospettiva non esclusivamente americanocentrica – di costruire una linea temporale che viaggia a ritroso fino a epoche non toccate dal lavoro di Saval. Forino parte dallo scriptorium dei monaci medievali e affronta, prima di giungere al Novecento, un percorso che arriva fino alla nascita della burocrazia (letteralmente: potere dello scrittoio) sette-ottocentesca. Di particolare interesse per il lettore italiano sono poi le parti di libro dedicate ai “torracchioni” nazionali (come li chiama il Luciano Bianciardi di La vita agra) e ai raggiungimenti tecnologici dell’Olivetti.

Difficile pensare a una “doppietta di lettura” più adatta a comprendere il mondo degli spazi di lavoro di quella formata da Cubed e Uffici, testi che sorprendono per consonanza e reciproca capacità di integrazione.

[ illustrazione: fotogramma da Playtime di Jacques Tati, 1967 ]

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Da Kansas City a Milano: Bianciardi, Parise e il cambiamento culturale

«Non siamo in America, dove non c’è cultura umanistica che affonda nel passato, e dove il paesaggio e la realtà giornaliera coincidono perfettamente con la cultura americana».

«Essendo il nostro paese molto vecchio permangono in molti suoi abitanti e nonostante il velocissimo processo di integrazione in corso che rende uguale ogni apparenza, alcuni frammenti di “cultura umanistica”: cioè autoctona, locale […]. Essi sono scomparsi completamente nella nuova borghesia imprenditoriale, piccola e grande, specialmente al Nord […], malata di una malattia americana: il pragmatismo».

Così scriveva Goffredo Parise (1929-1986) tra il luglio e l’agosto del 1974, in due articoli pubblicati su una rubrica di corrispondenza con i lettori da lui curata per il «Corriere della Sera» in quegli anni (di cui oggi viene presentata una piccola selezione in Dobbiamo disobbedire, 2013). Qui il tema è quello delle origini culturali e della loro cancellazione da parte del pensiero funzionalista diffuso dalla cultura lavorativa di stampo americano. Dalle parole di Parise emerge il riconoscimento di una cultura “umanistica”, retaggio di un passato agricolo, popolare paesano e cattolico, e insieme la consapevolezza di non poter fare nulla di fronte alla sua scomparsa, causata da quella che, in altri articoli tratti dalla sua rubrica, egli chiama con ineluttabile semplicità la “forza delle cose”.

Il frammento tratto da Parise ne evoca un altro di Luciano Bianciardi (1922-1971), estratto da Il lavoro culturale (1957-1964):

«Kansas City, Kansas City è la nostra realtà, altro che storie! Le origini della città? L’anno di fondazione? Ma era il 1944, né più né meno. Prima di allora non esisteva, era stata fondata dagli americani, che, giungendo fra noi, avevano spianato un campo per farvi atterrare gli aerei, aperto rivendite di coca-cola, spacci di generi alimentari, dancings, depositi di materiale, creando all’improvviso un centro di traffici nuovi».

Kansas City è per Bianciardi la sua Grosseto, percepita dai più giovani – di cui lo scrittore si sente parte – come senza origini, nonostante ci fossero ancora molti accapigliati a cercarle, per esempio indagando la storia degli Etruschi. Per Bianciardi il dialogo è fra Grosseto/Kansas City e Milano, città che rappresenta “il lavoro culturale” e in cui si trova incarnata, tanto nella sostanza quanto nella forma del “linguaggio aziendale”, l’ideologia pragmatista di stampo americano di cui parlerà poi anche Parise. Non a caso, Bianciardi si trasferirà proprio a Milano in cerca di lavoro e riconsidererà con amarezza la sua Kansas City.

Questi due frammenti, scritti in anni diversi da autori coevi, fotografano lo sforzo dell’intellettuale nel dar conto di un momento che, per il nostro Paese, è stato di effettiva svolta e di forzato scontro culturale. Le parole di Bianciardi e Parise testimoniano un cambiamento il cui destino è forse solo oggi possibile vedere nel pieno sviluppo delle sue conseguenze.

[ illustrazione: articolo di «Epoca» del 29 aprile 1962 ]

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