Atlante occidentale, romanzo del 1985 di Daniele Del Giudice, è un manifesto allo spirito più puro e disinteressato dell’amicizia, quello grazie a cui persone perfettamente estranee e del tutto diverse fra loro possono incontrarsi per caso e scoprire quanto le loro “rotte” possano essere complementari e parallele (quello del volo è tema particolarmente caro a Del Giudice, nonché centrale in questo libro).
Un giovane fisico e un anziano scrittore stringono un’amicizia insieme estemporanea e profonda, che riesce a evocare simbolicamente anche un difficile – ma non impossibile – incontro a metà strada fra il campo scientifico e quello umanistico. In questo senso Del Giudice rende in forma di romanzo la stretta di mano fra i due mondi auspicata da Charles Percy Snow nel suo Le due culture (1959), saggio dedicato a denunciare la mancata integrazione fra cultura scientifica e umanistica. A rafforzare questa tesi, che rende ancor più importante un racconto di per sé già bellissimo, è lo spunto di uno dei due personaggi messi in scena da Del Giudice, che evoca i possibili incontri – o mancati incontri – fra un altro scienziato e un altro scrittore:
Forse ci sono tempi diversi dal nostro in cui Einstein e Kafka escono ogni giorno di casa, stanno per incontrarsi, tornano indietro; escono di nuovo, sono sul punto di farcela, ritornano a casa. O tempi ciclici in cui Einstein e Kafka si incontrano ogni tanti anni e dicono “Ancora lei!”, tempi dell’attesa in cui passano la vita aspettando d’incontrarsi e ogni istante potrebbe essere quello buono, ma non si incontrano perché in realtà si sono già incontrati senza che nessuno dei due se ne accorgesse; o tempi biforcuti in cui si incontrano e contemporaneamente non si incontrano, e il fatto è del tutto equivalente».
In realtà è possibile che almeno qualche fugace incontro fra i due ci sia stato, perché Albert Einstein – come scrive anche Del Giudice – insegnò fra il 1911 e 1912 all’Università di Praga ed era uso frequentare il Cafè Louvre, all’epoca ritrovo bisettimanale delle cerchie intellettuali della città (come approfondito in Praga al tempo di Kafka di Patrizia Runfola). Franz Kafka di certo conobbe la teoria della relatività, che forse arrivò a influenzare alcuni suoi scritti. È per esempio curioso ritrovare nel suo racconto di una pagina Una confusione che succede ogni giorno (1917), contenuto nella raccolta Il messaggio dell’imperatore, l’ironica narrazione di un incontro ostacolato da strani sfasamenti spazio-temporali (il tempo non più assoluto di Einstein?). Ecco l’incipit del racconto (cui Del Giudice, piace pensare, non può non essersi ispirato):
Un caso che succede ogni giorno: il risultato, una confusione che succede ogni giorno. A deve concludere un importante affare con B, che abita a X. Per prendere gli accordi preliminari si reca X, fa la strada di andata e ritorno in dieci minuti e si vanta, giunto a casa, di questa eccezionale velocità. Il giorno dopo torna X per concludere definitivamente l’affare. Poiché prevede che ciò esigerà parecchie ore, A si mette in istrada di mattina presto. Sebbene tutte le circostanze, almeno secondo l’opinione di A, siano perfettamente le stesse che il giorno prima, questa volta per giungere a X egli impiega 10 ore. Quando arriva là, stanco, a tarda sera, gli dicono che B irritato per l’assenza di A, mezz’ora prima s’è recato a cercare A al suo villaggio e avrebbero assolutamente dovuto incontrarsi per via. Consigliano A di aspettare. Ma A, inquieto per il suo affare, se ne va e s’affretta verso casa.
[ Illustrazione: fotografia di Fred Herzog, Two Men in Fog (1958) ]