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Un viaggio nel jazz delle origini: King Zulu di Jean-Michel Basquiat

Qualche anno fa, visitando la mostra “Il Secolo del Jazz” presso il MART di Rovereto, mi sono trovato di fronte alla grande tela di King Zulu, dipinto del 1986 di Jean-Michel Basquiat (1960-1988). Sfogliando il catalogo della mostra, si trova l’opera così descritta: «Questa tela esibisce su un bel fondo blu un trombettista e qualche altro strumentista». Queste parole, che descrivono per sommi capi quel che l’opera rappresenta, possono essere sufficienti per molti, soprattutto per chi non sia stato colpito in presenza dalla sua forza. Di certo non sono sembrate sufficienti allo storico del jazz Francesco Martinelli, autore di un profondo lavoro di indagine capace di restituire il senso simbolico di ogni riferimento iconografico contenuto nell’opera e, soprattutto, il rispetto e l’amore di Basquiat per il jazz.

Anzitutto, il “king zulu” del titolo altri non è che Louis Armstrong, il quale tornando nel 1949 alla nativa New Orleans venne celebrato come “re zulu” della festa di Mardi Gras. Un’immagine d’epoca associa a questo evento la stessa maschera qui rappresentata. Ecco allora che il quadro si rivela un omaggio ad Armstrong, ricco di riferimenti rispecchiabili nell’autobiografia scritta dal musicista nel 1954. E così si prosegue con la scritta, poco visibile sotto a “king zulu”, “do not stand in front of orchestra”, segnale per il pubblico che campeggia in alcune foto dell’orchestra “natante” sul Mississipi del pianista Fate Marable, uno dei primi musicisti a cogliere il valore di Armstrong. La figura di trombettista in primo piano è probabilmente tratteggiata pensando a una foto di Bunk Johnson, altro musicista di New Orleans, mentre la piccola immagine di sassofonista in alto sulla destra rimanda forse al celeberrimo Lester Young o più probabilmente al meno noto Norman Mason, che suonava con Armstrong nell’orchestra di Marable. Il trombonista sulla sinistra è con tutta probabilità Bill Mathews, mentre la misteriosa figura in bianco sulla destra si rifà alla silhouette di una foto del trombettista Henry “Kid” Rena, entrambi nuovamente riconducibili alla scena di New Orleans. Per concludere, la “G” che si trova sotto alla scritta “king zulu” riproduce il lettering del logo dell’etichetta discografica Gennett. La “G” è accompagnata da un numero di matricola precisamente riconducibile a un disco, cioè l’incisione di Sensation del 1924 a opera dei Wolverines, band di musicisti bianchi in cui spiccava il grande trombettista Bix Beiderbecke. Il racconto del jazz delle origini condotto da Basquiat si chiude quindi con la celebrazione della relazione fra Armstrong e Beiderbecke, fra le radici afroamericane di questa musica e uno dei primi musicisti bianchi ad abbracciarla.

Questo non è che uno sbrigativo sunto dell’attenta indagine di Martinelli, che offre molto più che un gioco di “riconoscimenti” e vale per lo meno la pena di seguire in questa presentazione. Quanto all’opera di Basquiat, si possono qui riprendere le parole dell’ottimo blog Jazz from Italy (fonte di diverse illustrazioni qui riportate):

«King Zulu usa i codici e le parole, come fossero pennellate, per accedere nel mondo del non detto, permettendoci di seguirlo, per avvicinarsi all’universo ignorato dalla cultura dominante, al cosmo cancellato dalle storie precedenti, al creato dell’emotivo reale, eppur invisibile ai più».

[ illustrazione: King Zulu di Jean-Michel Basquiat, 1986 ]