L’innovazione, processo fondamentale per la sopravvivenza di qualsiasi organizzazione all’interno di un mercato competitivo, è spesso ridotta a mera ideologia. Principali responsabili di questa distorsione percettiva sono le pubblicazioni manageriali sul tema, la cui presenza sugli scaffali delle librerie aumenta di anno in anno. Il problema della maggior parte di questi libri è duplice: da un lato presentano l’innovazione come un fine (e non come un mezzo); dall’altro forniscono l’illusoria promessa di “ricette dell’innovazione” applicabili in qualsiasi contesto. Qual è il risultato di questo tipo di propaganda? Un’applicazione generalizzata del linguaggio dell’innovazione, una conoscenza superficiale di casi di studio di successo. E poco altro. Soprattutto, pochissimi cambiamenti nei processi e nelle pratiche lavorative. Un articolo pubblicato dalla «Stanford Social Innovation Review» (basato su una ricerca condotta per la Rockfeller Foundation) analizza la questione sotto una nuova luce.

Anzitutto, l’innovazione non va intesa come un risultato, ma come un processo. In questo senso, ogni organizzazione dovrebbe mettere in atto un serio lavoro di analisi dei propri processi, facendo molta attenzione a distinguere l’innovazione cosiddetta “radicale” da quella incrementale. In molti casi – l’articolo cita quello dell’ospedale oftalmico Aravind di Madurai (India) – applicare uno stravolgimento delle pratiche organizzative che replica su larga scala quanto funzionato in un contesto limitato può portare a risultati nefasti. Questo implica che, soprattutto per quanto riguarda ambienti caratterizzati da povertà diffusa come quello di Madurai, un’innovazione incrementale basata su un sistema di competenze strutturato può funzionare molto meglio di cambiamenti radicali che non tengono in adeguata considerazione il contesto di riferimento. Comprendere tutto questo sembra estremamente razionale; tuttavia, come notano gli autori dell’articolo, l’impegno e il lavoro di routine non risulteranno mai “sexy” quanto l’innovazione radicale.

Un secondo tema di attenzione riguarda il sottovalutare i propri errori inerenti all’innovazione. Citando un secondo caso indiano, quello della non profit del settore idrico Gram Vikas, l’articolo mette in luce come imparare dai propri tentativi falliti di innovazione significa soprattutto mappare il proprio contesto di riferimento e rimuovere le barriere interne che ostacolano gli sviluppi innovativi. Soprattutto quest’ultimo punto è fondamentale per qualsiasi organizzazione: a fronte della faciloneria degli slogan della letteratura di settore, costruire una prassi dell’innovazione significa soprattutto imparare a superare gli ostacoli interni – nel 90% dei casi di matrice manageriale e culturale – che possono bloccare in partenza qualsiasi iniziativa di sviluppo. In mancanza di un’attenzione di questo tipo, i progetti di innovazione continueranno a suonare ideologici quanto le “diete miracolo” che promettono di far perdere sette chili in sette giorni.

[ illustrazione: Albert Edelfelt, Ritratto di Louis Pasteur, particolare – 1885 ]