Nel romanzo di Goffredo Parise Il padrone (1964), grottesco bozzetto del paternalismo organizzativo, i due termini più ricorrenti sono “possesso” e “morale”. Sull’irrisolto rapporto tra essi si costruisce il percorso di assimilazione del protagonista all’identità aziendale, fondamentalmente corrispondente, come il titolo del libro chiaramente indica, con quella del padrone.

Il percorso del giovane protagonista, punteggiato da personaggi con nomi da fumetto, malattie di origine nervosa e punizioni corporali, è di allontanamento dalla realtà e progressiva spersonalizzazione. La forza simbolica dell’ideologia aziendale è talmente prepotente da scardinare in un battibaleno il pur concreto passato del protagonista, fatto di famiglia, affetti e ricordi che vengono sostituiti in toto dall’astrazione organizzativa. In uno dei passaggi centrali del testo, il quasi mistico inabissarsi nell’uniformità aziendale viene descritto da queste parole del protagonista:

«C’è in questa sensazione di spersonalizzazione e di anonimia qualche cosa di naturale e di religioso, la stessa inconsapevole ebbrezza che devono provare le formiche quando si aggirano frenetiche in lunghe file, una di andata e una di ritorno, dalla tana al luogo del cibo. Mi sento come una di quelle formiche e proprio come una formica sarei tentato di salutare tutti, di riconoscermi negli altri, e così vorrei che gli altri facessero con me. Credo che anche le religioni accomunino in questo modo gli uomini ma non c’è paragone tra la religiosità che respira nelle chiese e quella che sprigiona invece dai grandi agglomerati urbani, soprattutto dalle ditte, dalle officine e, in generale, dai luoghi dove si lavora. Perché la prima è una religiosità che si rivolge sempre alla morte, cioè a qualcosa di immobile e anche astratto, la seconda invece appartiene alla vita e alla realtà».

[ illustrazione: ritratto di Alfried Krupp, Arnold Newman – 1963 ]