Un recente articolo del magazine on-line The New Inquiry mette in relazione le modalità conoscitive della logica del postmodernismo e quelle dei big data. Il tratto comune attribuito ai due modelli – oltre a quello di essersi proposti come “mode” epistemologiche – è un approccio critico nei confronti dei dati empirici e della costruzione di senso. Entrambi i modelli sono inoltre figli di periodi storici caratterizzati da incertezza e messa in discussione di valori tradizionali. Quanto alle differenze, emerge quanto segue:
«Whereas Big Data sees a plurality of data points contributing to a singular definition of the individual, postmodernism negates the idea that a single definition of any entity could outweigh its contingent relations».
Quanto sfugge all’articolo è che, a fronte del costitutivo relativismo tipico della logica postmoderna, la forma mentis dei big data non offre di certo un paradigma conoscitivo più saldo. Detto altrimenti: la grande, spesso cieca fiducia nella potenza di calcolo dei big data nasconde una netta ammissione di ignoranza. La complessità che i big data sembrano essere in grado di abbracciare e fotografare non può essere spiegata risalendo ai suoi elementi primi, che se isolati restano dati insignificanti. Un osservatore non potrà dunque mai comprendere esattamente le ragioni di quel che accade. Sarà costretto a limitarsi ad applicare interpretazioni soggettive a dati la cui stessa evidenza è un atto di fiducia nei confronti di una macchina. Da questo punto di vista, dunque, i big data appaiono tanto relativisti ed epistemologicamente negativi quanto lo è stato il postmodernismo.
[ illustrazione: particolare da un’illustrazione del gruppo di pixel art eBoy ]