«This has been the pattern of many important but stalled ideas. They attack problems that are big but, to most people, invisible; and making them work can be tedious, if not outright painful».
Così si esprime, in un corposo articolo per il New Yorker, Atul Gawande, medico e giornalista statunitense autore del best-seller Checklist (2010). Quanto messo in luce riguarda la distanza tra l’efficacia sperimentale di una innovazione e la sua reale opportunità di utilizzo. Per motivare la sua tesi Gawande utilizza due esempi legati all’avanzamento della pratica medica: l’introduzione dell’anestetico e quella dell’antisettico.
La storia della diffusione dell’anestetico è sorprendente quanto a velocità, soprattutto se letta rispetto al suo contesto storico: nel novembre 1846 il medico di Boston Jacob Bigelow (1787-1879) rese pubblico su una rivista medica locale il risultato delle sue sperimentazioni con l’etere a fini sedativi. Nel febbraio 1847, in seguito a un giro di passaparola legato a incontri, lettere e pubblicazioni su riviste, l’anestesia in sala chirurgica si era già imposta come prassi in tutte le capitali europee.
Il caso dell’antisettico ha un esordio molto simile. Sulla base di alcune sperimentazioni di Louis Pasteur, il medico scozzese Joseph Lister (1827-1912) mise a punto un metodo per disinfettare le mani medici prima delle operazioni, riducendo così i rischi di setticemia. Pubblicò il suo resoconto scientifico a riguardo nel 1867, disponendolo a un successo simile a quello di Bigelow. Così non fu. A distanza di venti anni dal lavoro di Lister, le vecchie, antigieniche (e mortali) procedure da sala operatoria continuavano a essere usate. L’introduzione di pratiche realmente antisettiche impiegò per la sua diffusione oltre una generazione.
Come mai andò così? La spiegazione di Gawande si focalizza su un primo aspetto centrale: mentre una delle due innovazioni si indirizzava a un problema visibile (il dolore), la seconda era rivolta a qualcosa di invisibile (i microbi causa di infezioni). Nessuna sorpresa, quindi, che l’anestesia abbia avuto una più immediata comprensione e diffusione. In secondo luogo – aspetto forse ancora più cruciale – l’anestesia risultava per i medici una procedura semplice (e che metteva fuori gioco il paziente), mentre l’antisettico li obbligava a entrare in contatto con una sostanza sgradevole e in grado di bruciare l’epidermide al contatto.
Astraendo dai due casi, il principale apprendimento rimanda alla citazione iniziale: benché molte innovazioni si basino su un comprovato terreno di ricerca e sperimentazione, la loro applicazione spesso si arresta perché comprendere il loro effettivo valore non è unanimemente semplice e immediato e perché praticarle risulta molto oneroso. E questo accade tanto in sala operatoria quanto in azienda.
[ illustrazione: dagherrotipo del 1846 con la messa in scena di un’anestesia generale presso il Massachusetts General Hospital, di Boston ]