Secondo il paradosso di Moravec (di cui si è già parlato qui), l’intelligenza artificiale non potrà mai superare quella umana per un fondamentale, forse controintuitivo motivo: i computer sanno svolgere calcoli altamente complessi molto meglio di noi ma non sono in grado di simulare le nostre abilità percettive e motorie più basiche. Quanto un neonato padroneggia a un anno è semplicemente inarrivabile per qualsiasi cervello elettronico. Eppure vi sono molte persone (prevalentemente americane, facoltose e di carnagione bianca) convinte che l’intelligenza artificiale presto supererà quella umana e che grazie a essa potremo trascendere i limiti della nostra esistenza, financo quello della morte. Si definiscono “transumanisti” e a loro l’irlandese Mark O’Connell ha dedicato il libro-reportage Essere una macchina (2018).

Uno degli aspetti più interessanti del testo è la progressiva messa in luce, racconto dopo racconto, della prospettiva fideistica propria del transumanesimo: non soltanto le modalità di affiliazione e aggregazione dei suoi seguaci tendono a farli somigliare a ordini religiosi e sette; l’afflato che anima le loro argomentazioni si avvicina spesso, come O’Connell non manca di notare, allo spirito delle più classiche “prove ontologiche”.  Dialogando con il responsabile di un lucroso business incentrato sulla crio-conservazione di corpi defunti – in attesa di un futuro in cui i transumanisti contano diventi tecnologicamente possibile rianimarli – O’Connell si sente ripetere un argomento chiave per i transumanisti: “vale la pena di provare”. Impossibile non pensare, ponendosi molte domande sulla ridefinizione del concetto e delle pratiche di fede, alla celebre “scommessa” elaborata da Blaise Pascal nei suoi Pensieri:

Se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare.

[ Illustrazione: fotogramma dal film Ex Machina di Alex Garland, 2015 ]