La storia di Sandra è quanto mai semplice: al rientro da un periodo di malattia, l’accoglienza è quella di una cruda riorganizzazione lavorativa. Le attività della fabbrica sono state ridistribuite tra i colleghi, che riceveranno un bonus di 1000€ a patto che Sandra venga licenziata. Il verdetto spetta a loro. Chiamati a votare, scelgono il bonus. La scelta pare tuttavia essere stata influenzata da pressioni interne, motivo per cui una collega di Sandra riesce a invocare una nuova votazione. Qui parte l’odissea della protagonista: avrà due giorni e una notte per convincere i colleghi a votare per la sua permanenza in azienda.
Due giorni, una notte (2014), girato con il consueto stile asciutto e dimesso dei fratelli Dardenne, parla in modo diretto di uno dei temi più esposti e al tempo stesso “intoccabili” del mondo del lavoro, vale a dire la spersonalizzazione delle dinamiche di relazione. Ogni sequenza del film trabocca dell’ipocrisia e della violenza che continuamente rendono ardua, in milioni di luoghi di lavoro ogni giorno, la sintesi fra egoismo e solidarietà, fra rabbia e senso di pietà chiamata in causa dalla messa in discussione delle certezze base di un’occupazione lavorativa. Di fronte alla battaglia per l’occupazione o per un salario più alto, nessun punto di vista è semplicemente “giusto”. Nemmeno quello di Sandra, costretta ad affrontare una lotta anzitutto contro se stessa che potrà infine, forse – questo lo scoprirà lo spettatore al cinema – , condurla a trovare un’opportunità di riconciliazione con una comunità lavorativa infranta.
[ illustrazione: fotogramma da Due giorni, una notte (2014) di Luc e Jean-Pierre Dardenne ]