Gone Girl, opera del 2014 di David Fincher, è stato descritto da molti spettatori – nonché dal suo stesso regista – come vicino a Rashomon (1950) di Akira Kurosawa. Per quanto Gone Girl possa difficilmente reggere il paragone, ad avvicinarlo al capolavoro Rashomon è un racconto a flashback in cui i fatti sono filtrati dalle diverse versioni dei protagonisti. Vi è tuttavia una differenza: se entrambi i film mettono in scena una riflessione sulla verità, quello di Kurosawa parte dal valore dell’esperienza e dell’opinione individuale, mentre quello di Fincher fa emergere una società – la nostra – in cui tale valore ha perso ogni pretesa di fronte al potere dello spettacolo.

I momenti migliori di Gone Girl – la cui sceneggiatura è di Gillian Flynn, autrice del libro da cui il film è tratto – sono quelli in cui i due protagonisti si confrontano con i media, unica autorità in grado di decretare chi fra loro sia vittima e chi carnefice. L’opinione pubblica descritta dal film è del tutto prona all’emotività potente e superficiale dell’immagine. La televisione è ancora oggi il principale canale – con un buon supporto del web – attraverso il quale quest’opera di persuasione viene compiuta. Non è casuale che, da un punto di vista cinematografico, Fincher utilizzi un linguaggio che si avvicina a quello popolarizzato dai serial americani contemporanei: dilatazione dei tempi narrativi, dialoghi ipertrofizzati, frammentazione del montaggio. Questi tratti stilistici accentuano la vacua sensazionalità di ogni supposto colpo di scena, portando lo spettatore ad adottare un crescente scetticismo. Il contenuto più rilevante di questo film – che a ben vedere non parla né di amore né di femminilità – si rivela dunque un monito alla coscienza di ognuno: in una società in cui la reputazione pare determinata dal modo in cui si appare nei media, è necessario assumersi la responsabilità di decidere a quale tipo di verità aspirare.

[ illustrazione: fotogramma da Gone Girl di David Fincher, 2014 ]